giovedì 27 novembre 2008

O si è belli o si è fuori





















Se sei brutto proprio non hai scampo. Niente da fare. La discriminante per entrare in “
beautifulpeople.net”, l’ultimo social network di origine danese sbarcato in Italia, è il frutto proibito di Venere, la “pura beltà che gli occhie adesca, / immaculata se conserve e cresca», come la immortalava il giocoso Neri Moscoli nelle sue Rime, al tempo di Dante l’egregio e ‘l sommo.

Nata da sei anni, la rete di belli gode attualmente di 120.000 membri in tutto il mondo. Ma, ovvio, non appena ci si registra, la foto è d’obbligo. Conditio sine qua… non se ne fa nulla. Perché se non hai un bel viso e un bel sorriso, sei tagliato fuori.

Ma c’è di più. Una volta inserita la foto sul sito, mica finisce qui. Anzi, è proprio a questo punto che arriva il più bello: saranno quelli che sono già iscritti a decidere, votando sulla base dell'immagine e del curriculum, se si può restare o meno nel network, che promuove al suo interno relazioni private e professionali, eventi e viaggi, oppure se si è destinati alla cacciata.

Una vera e propria cooptazione, di quelle che si usa fare per entrare in certi ambienti. Stavolta in base al solo criterio della bellezza.

Sportivo il commento di Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl al Senato: «Estremamente interessante il sito dei belli, al quale io non posso iscrivermi. Il problema, però è avere il tempo una volta iscritti di frequentare questi network». Nell’era del virtuale, non dovrebbe essere poi così difficile.

Peccato che se, anziché bello, finora ti hanno sempre detto che sei simpatico oppure "bello dentro", non vale. Qui sei fuori comunque.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 24 novembre 2008

Quella mezza cosa dell' happy hour

Dalla Gran Bretagna con furore, la febbre dell’”ora felice” che anticipa il pranzo o, più di frequente, la cena,  ha ormai contagiato tutto il mondo. Dallo Studio 54 di New York, simbolo delle notti mondane anni Ottanta alla risto-disco-teatro-mania di casa nostra, polpettone in salsa italiana per gli amanti dell’arte e della letteratura. Sono decine e decine i luoghi dove ogni giorno è possibile ritrovarsi in allegria e fare nuove amicizie, flirtando con uno splitz  e un paio di tartine al salmone.


Se poi c’è di mezzo la cultura, allora è tutta un’altra storia. Perché sono loro i cenacoli del III Millennio, che hanno raccolto l’eredità degli ormai tramontati caffè letterari di stampo ottocentesco, ormai roba da archeologia del divertimento.


A Roma, la sede più impensata dell’aperitivo diventa il teatro, a cui spetta il primato della sperimentazione di un nuovo ritrovo che faciliti gli scambi tra platea e palco. In prima fila c’è il “Centrale”, poi il “dei Satiri” e il “de’ Servi”, tutti posti dove si cena sul palcoscenico. A Catania, nel genere fa scuola   il “Teatro Club  Nando Greco", dove una volta a settimana, tra il primo e il secondo tempo di uno spettacolo, prima dello sfratto dai locali di piazza San Placido, si gustavano cibi rustici e caserecci annaffiati da buon vino.  


In pratica, funziona più o meno così: in una fascia oraria coperta, ma non troppo (nel senso che in Italia si arriva fino a mezzanotte), che parte più o meno dalle 19, si raggiunge il locale prescelto col proprio gruppo di amici e si sceglie il proprio drink. Poi, con un piatto in mano, ci si mette in fila (alcuni sono “fai-da-te”, in altri te lo servono i camerieri) e si scelgono gli stuzzichini salati (in alcuni casi anche dolci) da accompagnare al proprio cocktail. Spesso accade che tra insalate di pasta e piatti freddi si finisce per cenare e per trascorrere così la propria mezza serata, magari facendo un po’ di filosofia.  Come accade a Milano, dove al “Mangiarini Toscani” di via Pasubio ogni lunedì sera  si parla di Kant o Hegel davanti a un cocktail e poi si cena tutti insieme, tra bruschette toscane e un bicchiere di Chianti.


 Ma a condire l’”happy hour”   non sono solo le arti del trivio, ma in qualche caso anche quelle del quadrivio. Così a Perugia già si organizza l’Aperitivo web, una serie di incontri per parlare in modo informale di informatica e di internet. 


L’aperitivo è democratico, non discrimina nessuno. Perfino gli amanti dello sport ne hanno uno. Si chiama “Aperibasket”, ed è una serata dedicata al basket pistoiese con tanto di buffet e musica insieme a giocatori, staff e dirigenti, naturalmente all’uscita del palazzotto, subito dopo la partita. 


Insomma, ce n’è per tutti i gusti. E mentre il governo inglese  sta seriamente pensando di mettere al bando l’happy hour per contrastare il fenomeno  del binge drinking, ovvero l’ abbuffata di alcolici con relativi episodi  di violenza causati dalle sbornie, in Italia il fenomeno è in piena espansione.


In tutto questo, resta ancora un nodo da sciogliere : che cos’è l’happy hour de’ noantri? Poco meno di una cena, poco più di una radunata per familiarizzare con altri, un assaggio di serata tutta da proseguire?


Che sia l’una o l’altra cosa, poco importa. L’happy hour non si può definire. Perché ha il fascino delle mezze cose,  un po’ tutto e un po’ niente.  In fondo è proprio questo che lo rende così irresistibile.


 Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) 

sabato 22 novembre 2008

Troppa paura per nulla

Chi ha paura muore ogni giorno. E chi non ha paura, muore una volta sola”. Paolo Borsellino ne era convinto. E visse così, infischiandosene delle minacce di Cosa Nostra. Ma non tutti gli uomini arrivano a tanto. E troppo spesso si finisce invece per avere paura. Della morte, di soffrire, di non essere all’altezza, di non piacere abbastanza, di parlare troppo o troppo poco. A volte si ha paura perfino delle cose belle come l’amore, il cibo, la moda, per certi versi anche la solitudine.

Da bambini si ha spesso paura del buio e ci si rifugia, una notte sì e l’altra pure, tra le lenzuola del lettone di mamma e papà. Perché da qualche parte potrebbe sempre arrivare in punta di piedi la strega isterica, e certe sorprese è meglio evitarle. E poi c'è il lupo cattivo, pronto a divorarti manco fossi cappuccetto rosso.

Fin dai primi anni di vita, la nostra cultura ci educa alla paura. Non c’è favola che venga letta ai bambini senza un personaggio inquietante, che scatena la paura.

A un certo punto si cresce. E la paura pensavamo di averla sepolta per sempre. E invece, rieccola, come prima, più di prima, a tormentarci l’anima. Riemerge come uno spettro terrificante. Si teme il maniaco pedofilo, il vicino di casa pronto a sgozzarti, il tipo che ti offre qualche sostanza stupefacente, quello che t’invita a bere un goccio di troppo, i siti interneti incontrollati che mercificano il corpo col sesso a pagamento.

E poi, la paura di crescere troppo in fretta e ritrovarsi un bel giorno davanti allo specchio con un’espressione del volto piena di rimpianti. E senza essersi accorti che ormai si è entrati nel mondo dei grandi. E qui, ecco altre paure: quella di non farcela a realizzare i propri sogni in un mondo che ti fa lo sgambetto a ogni passo. La paura di far male a qualcuno, di non essere ricordati, che il tuo compagno/a un bel giorno ti lasci con un sms, senza neppure avere il coraggio di dirti che non ti ama più guardandoti negli occhi. La paura di essere aggrediti per strada, oppure quella che i nostri cari ci lascino per sempre, o che i nostri figli non siano abbastanza pronti per fregare in tempo chi avrebbe voluto fregarli.

C’è perfino chi ha paura di esprimere le proprie idee, anche quando si va controcorrente e la direzione in cui va la maggioranza non ci appaga. Di guardare in faccia la realtà anche se è molto diversa da come ce la saremmo aspettata. E la paura dei ricordi, e quella del futuro sempre più incerto e indefinito, ultimamente cresciuta a dismisura. O quella di rischiare, scommettere su se stessi, di mettersi in discussione e camminare appesi a un filo, rinunciando ad accomodarsi su poltrone facili e sicure, o di cambiare famiglia e città, alla ricerca di qualcos’altro.

Nei casi più disperati, si può arrivare perfino ad avere paura di campare, quasi che l’ansia di vivere a un certo punto diventi più forte di ogni gioia che si riesce a provare. Chissà perché, torna alla mente Edmund Burke, quando scriveva che “nessuna passione priva la mente così completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura."

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 19 novembre 2008

I Vicerè ritornano, sul piccolo schermo

Finalmente, ci siamo. Dopo una lunga attesa estenuante, sfiancante, ansiogena, in cui eravamo tutti col fiato sospeso a chiederci, dopo tanto rumore, che fine avessero fatto il sofisticato Roberto Faenza e i suoi Vicerè, lo sguardo vitreo e angelico di Cristiana Capotondi nei panni di Teresa Uzeda di Francalanza, o quelli inquieti e cupi di Alessandro Preziosi nel ruolo di Consalvo, l’ironia di Lando Buzzanca nella veste del principe Giacomo e tutta l’intricata storia messa nero su bianco da Federico De Roberto nel suo omonimo romanzo del 1894, rieccoli. Pronti a sbarcare su RaiUno in prima serata il 23 e il 24 novembre.

Contenti i catanesi, contenti quelli che all’epoca, ovvero un paio di estati fa, abitando nel centro storico, a due passi dal set, vuoi o non vuoi, ne venivano catturati. Perfino i passanti più distratti finivano per fermarsi qualche ora all’ingresso di via Crociferi, per sbirciare qualche scena. Perfino chi aveva da lavorare o da studiare abbandonava tutto per immergersi in quell’atmosfera di fine Ottocento così controversa per la Sicilia e i siciliani, che l’ostinato Faenza aveva deciso di far rivivere.

E così, senza preavviso, dopo la versione cinematografica uscita nelle sale il 9 novembre 2007, per la quale, a dire il vero, ci saremmo aspettati più successo, arriva anche la versione televisiva.

Certo, Faenza è un maniaco del ciak. Nel senso che, a osservarlo bene, ti accorgi che è ossessionato dalla cinepresa. In modo appunto maniacale. Una scena la faceva girare almeno una decina di volte. E qui il perfezionismo c’entra, ma solo in parte. Arrivava sul set defilato, con in testa un cappellino di tela con visiera incorporata, un paio di jeans scoloriti e un maglioncino mezzo striminzito addosso. Il suo fare immancabilmente snob gli permetteva di non lasciarsi infastidire neppure per un istante da curiosi e giornalisti che avrebbero voluto raccontare qualche piccante retroscena in presa diretta.

In quei giorni, per chi doveva andare alla facoltà di Lettere, nel complesso monumentale dell’ex monastero dei Benedettini, era quasi un dramma. Spesso si restava bloccati per mezz’ora buona all’ingresso principale di piazza Dante. Attenzione, perché si gira una scena. E nessuno può passare.

I docenti più intransigenti della facoltà maledicevano il preside, che aveva acconsentito a quella azzardata, seppur momentanea, trasformazione in un set cinematografico. E ora che cosa succede?, si chiedevano, quei cavalli legati agli alberi distruggeranno tutto? Di contro, i più ottimisti si lasciavano trasportare dall’entusiasmo.

Catania ha ospitato Faenza e il suo set nel suo stile, col caos di sempre, senza troppi formalismi. Il passatempo preferito dalle ragazzine assiepate per ore intere ai margini delle transenne, in attesa di rapire uno sguardo di Alessandro Preziosi, era un suo autografo.

Felicità immensa per chi si guadagnava un po' di euro alla giornata, facendo la comparsa. Almeno una fulminea stretta di mano a Faenza è riuscito a strappargliela. Prima che riprendesse a girare altri film, a Praga e altrove.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 17 novembre 2008

Zenga versus Varriale: una bagarre non troppo sportiva

A voler essere onesti, non si è mai visto un giornalista che s’impiccia dei fatti di casa propria. A meno che non abbia raggiunto, professionalmente parlando, la pace dei sensi. Perché di norma, ogni buon giornalista che si rispetti i fatti degli altri deve in qualche modo pur  farseli. Anche a costo di prendersi in faccia parolone e parolacce d’ogni sorta.


 E se Enrico Varriale conducesse Stadio Sprint attenendosi al monito di parlare di calcio e farsi i fatti propri sulla carriera degli allenatori, ma soprattutto a quello di pensare alla propria famiglia, tutte cose  che,  senza troppe carinerie né manierismi, gli ha suggerito di fare  in diretta Walter Zenga (che, per carità, in fatto di calcio, da ex portiere ad allenatore del Catania, se ne intende, ma quanto a giornalismo forse un po’ meno), la Rai lo avrebbe già rimpiazzato con un altro suo collega, e già da un bel pezzo. 


 Certo, che Zenga fosse uno che non le manda a dire, è facile intuirlo da ciò che dice e da come lo dice. E persino dal piglio vagamente incazzato che sfoggia prima, durante e dopo ogni uscita pubblica.


 Ma a tutto c’è un limite. E varcare il confine per entrare in un campo da gioco che non ti appartiene, arrivando ad insinuare che Varriale, anziché parlare della gente quando questa non è presente, debba  invece chiedersi chi l’ha messo lì e come mai ce lo fanno stare, vuol dire andare troppo al di là di cìò che gli compete, come ex giocatore, ma soprattutto oggi come allenatore. 


Questa uscita non ce la saremmo aspettata da chi sta allenando la squadra etnea in modo esemplare, sfoggiando doti da cavallo di razza. E invece, nel corso della puntata, i toni non solo scendono, ma a un certo punto addirittura precipitano. Varriale cerca di difendersi chiamando in causa il presidente della Lega Calcio. Vola un “maleducato” che rimbalza manco fosse un’agilissima pallina da ping pong.


 Poi, come se non bastasse, Zenga sfodera dal cilindro un malefico presagio: “Continui così e vedrà quanti allenatori parleranno con lei”. La replica del giornalista non si fa attendere: “Lei mi sta minacciando, stia attento a quello che dice”.


 Volete sapere com’è andata a finire?  Che Pietro Lo Monaco, amministratore delegato del Catania, si è affrettato ad annunciare provvedimenti nei confronti dell’allenatore, che sarà sanzionato. 


 L’acceso “botta e risposta” non è sfuggito neppure a Massimo De Luca, direttore di Rai Sport,  che ha tenuto a precisare che le affermazioni di Zenga nei confronti di Varriale sono davvero inaccettabili.


 Ora, viene da chiedersi: se vale la legge della reciprocità, perché mai Varriale dovrebbe farsi i fatti di casa propria, pur intervistando per professione e vocazione decine e decine di allenatori e invece Zenga  può tentare di farsi in diretta televisiva, solo in virtù di una vecchia polemica personale,  quelli di Varriale e della sua carriera? 


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) 

sabato 15 novembre 2008

Meglio disinvolti oggi che complessati domani

Se ce li hai “d’inferiorità”, difficilmente vivi cantando, l'angoscia t'assale, sorridi col contagocce e sbuffi di continuo perché ogni occasione è buona per ammirare con gli occhi fuori dalle orbite l’erba del tuo vicino, che al tuo sguardo prevenuto apparirà sempre più verde. E dovunque andrai, da solo o in compagnia, sarai perennemente assalito da un naseante senso di smarrimento e inadeguatezza, che solleverà subito dopo una tale disistima nei tuoi confronti da farti crollare a tal punto l’umore sotto i piedi che non ti resta altro che fuggire in qualche isola deserta e restarci per un po’, quantomeno finché non ti sarà passata la sbornia (certo, tornerai un po’ consunto, ma avrai risparmiato a chi ti sta accanto l’agonia dell’assillo).

Se invece ce li hai “di superiorità”, niente ti sconvolge fino in fondo, perché qualsiasi cosa si dica o si faccia, tu guardi il mondo dall’alto in basso, senza mischiarti col volgo, senza sederti al tavolo con chi non è tuo pari, stando bene attento a dosare ogni confidenza perché tu sei tu e sei superiore a chiunque altro.

Se poi sono“di colpa”, sei sempre afflitto e non dormi la notte. Se invece hai quello "di Edipo", ti attacchi in modo morboso, fin dall’infanzia, al genitore di sesso opposto. E se per caso un bel giorno ti fidanzi, alla fine dovrai farci i conti.

Ahimé, i complessi sono una brutta bestia. Ti braccano e s’impadroniscono di te fino al punto di ridurti in completa schiavitù e impedirti di vivere con libertà e serenità la tua vita.

Per fortuna i pesci rari in questo mare inquinato guizzano. Tutti in fila, uno dietro l'altro. E' il caso di Barack Obama, che tutto è tranne che complessato, tant’è che è riuscito a sconfiggere tabù e pregiudizi sulla razza africana, diventando il nuovo presidente - “abbronzato”, sì, ma pur sempre presidente - degli Stati Uniti d'America. E ora vuole anche l’ex first lady Hillary Clinton come segretario di Stato, che a sua volta, nei mesi scorsi, i suoi complessi li ha dovuti abbattere accettando il sorpasso e ritirandosi con stile dalla corsa alla Casa Bianca.

Non sembra avere particolari complessi neppure Pippo Baudo che, manco fosse una passeggiata, osa sfidare il sabato sera la signora De Filippi con la sua “Serata d’onore”.

Per non parlare poi del chiacchieratissimo ministro dell' Istruzione Mariastella Gelmini, sopravvissuta indenne alle turbolente proteste studentesche, che dall’assemblea dei Circoli del Buon Governo di Marcello Dell’Utri a Montecatini Terme, ribadisce la sua posizione e sentenzia: “Vogliamo cancellare dalla scuola e dall’università l’ideologia dell’egualitarismo, del 18 o del 6 politico a tutti, e lo vogliamo fare perché abbiamo fiducia nelle persone”.

E che dire di Ludovico Nicòtina, figlio del professore Giuseppe Nicòtina, ordinario di Diritto processuale civile presso la facoltà di Economia dell’Università di Messina, che ha appena vinto un concorso di ricercatore bandito apposta per lui, al quale si era presentato come unico candidato.

Oppure di Riccardo Villari, il piddino neoeletto presidente alla Commissione di vigilanza della Rai coi soli voti del Pdl, i cui complessi nemmeno lo sfiorano se dopo due giorni di accese polemiche all’interno del suo partito, se ne esce con un “lascio solo se c’è un nuovo nome condiviso”.

Anche Cate Blanchett appare bella e per nulla complessata. Se infatti una vera star non può non essere a tutti i costi bella, di successo e con un gran carattere, lei non si vergogna nemmeno un po' a mettere in piazza qualche fragilità comprensibile agli esseri umani, dichiarando al mondo che “a volte la paura di sbagliare, se nella dose giusta, può addirittura fare miracoli”.

Tutta gente senza complessi. Anzi, disinvolta e disinibita, con tanta voglia di farsi i propri affari. E qui l’inferiorità o la superiorità non c’entrano. Unico peccato: attenersi a una legittima legge di sopravvivenza?

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 13 novembre 2008

Negli Usa, tutto il fashion degli stilisti sconosciuti

Altro che grandi griffe, nomi della moda che pesano. Il guardaroba delle signore più in vista degli States si alleggerisce , scrollandosi di dosso quei marchi tanto a lungo osannati, che mai nessuno finora aveva avuto il coraggio di mettere in discussione. 


E così, dall’irreprensibile Condoleezza Rice a Kim Basinger, da Lee Curtis a Meryl Streep, passando per Julia Roberts, la nuova tendenza delle Vip americane è affidarsi a stilisti meno noti, ma non per questo meno bravi. 


Come per esempio Ilaria Macola, nata a Padova, che coi suoi cappottini a tre quarti, i suoi abiti da cocktail in seta, gli scamiciati bicolori anni Sessanta, è riuscita laddove molti, prima di lei, avevano fallito. E in breve ha conquistato a tal punto la glaciale Condy da farle appendere all’armadio il tanto caro Armani.  


Sarà che oltreoceano le celebrità non se la tirano e può capitare che la commessa di un negozio si veda spuntare davanti la sorridente Julia Roberts  che, manco fosse la vicina di casa, senza farsi annunciare dalla folla,  piomba nel negozio coi suoi capelli ricci e un sorriso a trecentosessantacinque denti e si prova un paio di capi. Certo, magari alla fine tira fuori la carta di credito e scioglie ogni dubbio. Stesso copione per la mogliettina di Harrison Ford o per Sigourney  Weaver. Tutte rigorosamente senza preavviso, ma soprattutto senza darsi un sacco di arie.


E la Rice invece come si comporta? “Per rispetto della privacy, mi limito a dire soltanto  che è un’ottima cliente”, fa sapere la stilista padovana che – prima di fondare il suo marchio negli anni Novanta, è stata l’artefice del successo di Naj Oleari – “Passa in auto la mattina, vede qualcosa che le piace e noi glielo recapitiamo in pochissimo tempo a domicilio”. Una bella soddisfazione, quella di vestire il numero due degli Stati Uniti. Macola ci sa fare, è una che i propri clienti li mette a proprio agio. 


E’ forse anche questo uno dei motivi del suo successo con le star. Dispensa al momento opportuno la giusta dose di coccole e attenzioni, senza per questo rinunciare all’autorevolezza e alla professionalità. Gli abiti, sia per le celebrità che per i comuni mortali, vengono tutti cuciti addosso, perché la moda è uno stile di vita. E rivela la personalità, il carattere. Ma alla fine bisogna fare i conti anche col proprio fisico. Non tutte possono permettersi certi abiti. Perfino l’età ha il suo peso, nella scelta di un modello piuttosto che un altro. Proprio per questo, la Macola ha allargato il suo orizzonte, pensando abiti per ragazzine quattordicenni ancora acerbe, che giocano a fare le donne, e per signore un bel po’ stagionate (la cliente più anziana ha 94 anni, giura la stilista), salvandole dall’inevitabile rischio di scadere nel ridicolo.


Ma forse le star americane si affidano a Macola anche perché i suoi abiti, sul corpo di chi li indossa, promettono miracoli: esaltano i pregi e nascondono i difetti.  Un vero toccasana, specie di questi tempi, in cui la forma è diventata sostanza e l’immagine è tutto. O quasi.   


 Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) 

mercoledì 12 novembre 2008

Quelli che...nonostante l'età, in campo tirano ancora

Chiamateli pure i nonnetti del pallone, i veterani del calcio, i giocatori di una certa esperienza. Insomma, gente un bel po' navigata che, nonostante l'età, resiste ancora in campo. La schiera di quelli che hanno varcato la soglia dei trenta restando dignitosamente in gioco esiste, eccome. Al di là di ogni previsione.

Il podio spetta a Marco Ballotta, portiere della Lazio, nato il 3 aprile 1964. E' lui il calciatore più anziano ancora in attività, con i suoi 43 anni e 6 mesi. A seguire, c'è il portiere del Palermo, Alberto Fontana, classe 1967. Che vuol dire quarantun' anni suonati e una resistenza fisica di ferro. Segue Paolo Maldini, quarant'anni e cinque mesi, capitano del Milan ed ex della Nazionale. Arrivato terzo nella classifica del Pallone d'oro 1994 e in quella del 2003, occupa la ventunesima posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dalla rivista World Soccer.

Manca un anno per raggiungere quota quaranta a Francesco Antonioli, 188 centimetri di altezza per 82 chili di peso, portiere del Bologna e della Nazionale italiana Under 21 nel vittorioso campionato europeo 1992 e ai Giochi olimpici di Barcellona 1992.


Non è certo da meno Antonio Chimenti, portiere della Juve, nato a Bari il 30 giugno 1970, figlio di Francesco Chimenti, storico attaccante degli anni Settanta e Ottanta nelle file della Sambenedettese e nipote di Vito Chimenti, attaccante con le maglie del Palermo e della Pistoiese. Se resiste inossidabile all'inesorabile trascorrere del tempo, in parte sarà merito del dna.


Tanto per giocare in casa, arrivando al Toro, non sfugge all'attenzione Eugenio Corini, centrocampista centrale, coi suoi trentotto anni sulle spalle. Di quattro anni più giovane è Alex Del Piero, il re dell'ultima giornata di campionato, che proprio il 9 novembre scorso ha spento trentaquattro candeline sulla sua torta di compleanno.


L'età, dunque, sta ormai diventando sempre più nient'altro che un fatto anagrafico. E non solo per i comuni mortali, ma ora anche per i calciatori, gli atleti e tutti coloro che devono al rendimento fisico la loro carriera sportiva. La curiosità che balza subito agli occhi è che sono i portieri i più vecchi in campo.


Una tradizione tutta italiana, quella di puntare su portieri di una certa esperienza. Basti pensare a Dino Zoff, uno dei più grandi di tutti i tempi, che conquistò addirittura la Coppa del mondo nel 1982 in Spagna, proprio all'età di quarant'anni. Cicerone l'aveva già scritto: nessuno è tanto vecchio che non creda di poter vivere ancora un anno. In questo caso, nel campo da gioco, s'intende.


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su www.alessandrorosina.it

lunedì 10 novembre 2008

Lo humour berlusconiano è un esercizio di stile

L’ultima è arrivata qualche giorno fa, come un fulmine a ciel sereno, su Barack Obama. Il nuovo presidente Usa, secondo Silvio Berlusconi, ha tutte le carte in regola per andare d’accordo col presidente russo Dmitri Medvedev. Infatti è “”bello, giovane e abbronzato”.

In poche ore, la battuta di spirito ha fatto il giro del mondo. Sollevando un polverone di polemiche. Nulla di nuovo sotto il cielo berlusconiano. Il presidente del consiglio, quanto a battute, è di manica larga. E siccome ogni lasciata è persa, il premier ogni volta ci prova gusto. Talmente tanto da averci abituato ormai da tempo alle sue pillole di humour all'italiana dispensate con cura e devozione a quasi ogni uscita pubblica.

L’equazione sembra direttamente proporzionale: più importante è l’evento, più travolgente è la battuta. Come quando, nel luglio 2003, di rimbalzo a un attacco del parlamentare socialista tedesco Martin Schulz nel corso della presentazione della presidenza italiana dell’Ue di fronte al Parlamento europeo, se ne uscì a sangue freddo con questa osservazione: “Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta girando un film sui campi di concentramento nazisti. La proporrò nel ruolo di kapò. Sarebbe perfetto”.

E chi non ricorda quella foto di gruppo del febbraio 2002 che fece il giro del mondo, in cui – al termine di un vertice informale dell’Ue in Spagna - Berlusconi si dilettò a fare le corna dietro la testa del ministro degli Esteri spagnolo Josep Pique. “Ora il premier sta proprio esagerando. Ne vale la credibilità dell’Italia di fronte agli altri Paesi dell’Unione”, gridò compatta l’opposizione. Eppure, all'apparente misfatto non seguì nessuna catastrofe.
E lui andò dritto come un treno, senza pensare neppure per un attimo di rallentare la marcia.

Ma il bello deve ancora venire. E arriva quando Berlusconi dichiara di aver usato il suo charme maschile per persuadere il presidente finlandese, Tarja Halonen, a lasciar cadere la richiesta del Paese di ospitare la nuova Authority europea sulla sicurezza alimentare. E’ il giugno 2005 e il premier fa sfoggio delle sue capacità di playboy consumato.

Niente a confronto con la dichiarazione choc di agosto, lanciata come un boomerang per esorcizzare una preoccupante battuta d’arresto del Pil nazionale. “Neanche l'economia va così male. Dalla mia villa ho una vista panoramica che si distingue anche quest'anno per i numerosi yacht... Nessuno può vantare più cellulari, più automobili, più televisioni degli italiani. Sapete quante delle nostre donne possono permettersi dei trattamenti di bellezza?" dice convinto Berlusconi in un'intervista al quotidiano "La Stampa".

E che dire invece di quella volta che il presidente del consiglio, nel gennaio 2006, promette di astenersi dal sesso fino alle elezioni generali di aprile? "Grazie Padre Massimiliano" disse ad un predicatore televisivo che lo aveva elogiato per la difesa dei valori della famiglia . "Cercherò di non deluderla e le prometto due mesi e mezzo di completa astinenza sessuale fino al 9 aprile".

Che Berlusconi sia allergico ai comunisti è cosa nota. E per renderla ancora più nota, nel marzo 2006 spiega agli italiani perché i comunisti, se li conosci bene, li eviti."Mi accusano di aver detto più volte che i comunisti mangiano i bambini: leggetevi il libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi", ha detto parlando ad un comizio elettorale a Napoli.

E nell’aprile 2006, alla vigilia del voto: “Ho troppa stima per gli italiani da pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che voteranno contro i loro interessi". Così Berlusconi ha commentato la proposta del Cdl di abolire l'Ici sulla prima casa se vincerà le elezioni. Che dire, tutti rigorosi esercizi di stile, dedicati a chi non usa mezzi toni. Ma soprattutto a chi ama prendersi troppo sul serio solo quando non può proprio farne a meno.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 5 novembre 2008

Barack Obama conquista gli Usa: il miracolo si compie

Qualche volta i sogni si realizzano. Come nel caso di Barack Obama, il 43esimo presidente degli Stati Uniti. L’uomo del cambiamento, della Provvidenza. Il salvatore della patria americana, un miracolo che cammina. O semplicemente un self made man afro-americano che passerà alla storia. Perché ha compiuto un primo passo significativo verso il difficile cammino tracciato con molta audacia da Martin Luther King quarantacinque anni fa, quando il suo sogno era che un giorno i suoi quattro figli piccoli potessero vivere in una nazione nella quale non sarebbero stati giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.

E se c’è qualcosa che può vantare Obama è proprio questa: aver avuto la straordinaria abilità di sfoggiare le sue doti in un momento di profonda crisi (la più forte dopo la Grande Depressione) e di grande incertezza per il futuro.

Del resto ogni epoca, specie quando attraversa momenti di affanno e preoccupanti battute d’arresto, ha bisogno di aggrapparsi disperatamente a qualcosa e a qualcuno che possa rappresentare un’àncora di salvezza psicologica (reale o presunta che sia).

E così il destino ha voluto che l’uomo nero varcasse la soglia della Casa Bianca, che Obama venisse ricordato nella storia come un personaggio di quelli a cui si dedicano interi capitoli. E che il suo volto sorridente, la sua parlata disinvolta, il suo piglio da star hollywoodiana avessero il sopravvento sul repubblicano John McCain. Storica la vittoria in Ohio, roccaforte repubblicana, ma anche in Pennsylvania e in Virginia. E forse anche in Florida, dove si sta giocando un testa a testa all’ultimo voto.

Ma Obama ha vinto. Tutto il resto è noia. E allora, via libera agli slogan, alle esplosioni di gioia. Evviva la democrazia, evviva il cambiamento, certo. Evviva l’exploit di voti dovuto principalmente alla straordinaria partecipazione alle urne. Evviva la Virginia, uno degli stati determinanti per la vittoria di Obama, evviva le svolte epocali, i lifting, i restyling. Perché si guarda sempre al futuro. Anche se ora il nuovo presidente Usa dovrà anzitutto essere all’altezza delle aspettative dei suoi tanti elettori e non tradire in alcun modo la fiducia che loro gli hanno accordato.

L’unico modo che ha per farlo è il buon governo, che in parole povere si può tradurre nel mettere in pratica le promesse entusiasmanti che in campagna elettorale ha dispensato con generosità a destra e a manca. Ora Obama è stato incoronato l’uomo del futuro e dei miracoli. Riuscirà davvero ad arginare i danni della crisi, a rimettere in moto l'economia, a prendere una posizione determinante in politica estera, a far cambiare volto e fisionomia agli States?

Troppo presto per dirlo. Questo è il momento dei festeggiamenti, quello in cui lady Obama assapora finalmente l’ebbrezza della prima donna e insieme il gusto di sapere che 360 persone hanno votato per suo marito. Realizzando così anche il suo sogno.

Ora non resta che aspettare che la profezia si porti a compimento. E che, come gli avrebbe suggerito Tommaso Moro, Barack Obama possa avere la forza di cambiare le cose che può cambiare. Visto che forse chiedergli di cambiare anche quelle che non può cambiare sarebbe davvero troppo. Anche per uno come lui, che è l'uomo della Provvidenza. E anche se alla divina Provvidenza non c'è limite.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 4 novembre 2008

Io ricordo. Per non dimenticare

Un passaggio di testimone tra due generazioni. Un padre (Gianfranco Iannuzzo) spiega al figlio di dieci anni (Piero La Cara, per la prima volta sullo schermo) perché si chiama Giovanni. Come quel giudice morto ammazzato sulla Palermo-Catania, all’altezza dello svincolo di Capaci quel tragico 23 maggio del ’92, quando il tritolo lo fece saltare in aria insieme alla moglie e agli uomini della scorta. 


Il figlio ascolta con curiosità e voglia di sapere che cos’è la mafia, che il padre non esita a definire “un mostro che si nutre di sangue” e che è come la cosca di un carciofo, in dialetto siciliano l’insieme delle sue foglie, come i quartieri palermitani dove accorre l’esercito, come le grida stridule e insistenti dei venditori alla “Vucciria”, il grigiore e la solitudine dei rioni popolari. Dove se  cammini per strada, ad ogni passo ti guardi alle spalle, perché non ti fidi neppure della tua ombra. Perché da un momento all’altro puoi sentire uno sparo che ti rimbalza nelle orecchie.  E qualsiasi cosa vedi, devi far finta di niente. Perché “regna sovrana un’altra legge, quella cattiva e non quella buona”, dove si respira  l’omertà, “vedi, è una parola che inganna, comincia come mamma”, che impone di far finta di niente, di voltarsi dall’altra parte. 


Scorrono sullo schermo gli ottantaquattro minuti del film-documentario “Io ricordo”, prodotto dall’Indiana Production Company di Gabriele Muccino e diretto da Ruggero Gabbai. Il film, tratto dal romanzo di Luigi Garlando Per questo mi chiamo Giovanni” (Fabbri, 2004) , nasce da un libro ( “La memoria ritrovata”, storie delle vittime di mafia raccontate dalle scuole – edizioni Palombo, 2005), che la fondazione onlus  Progetto Legalità in memoria di Paolo Borsellino” ha deciso di destinare alle scuole.  

   

Ancora una volta per non dimenticare, ancora una volta per evitare che i figli possano commettere gli stessi errori dei loro padri, che per troppo tempo quella faccia l’hanno girata dall’altra parte.

Rabbia, senso d’impotenza, sete di giustizia si accavallano nelle testimonianze dei famigliari di Paolo Borsellino (la moglie Agnese e il figlio Manfredi), Giovanni Falcone (la sorella Maria), Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giuseppe Montana, Ninni Cassarà, Libero Grassi, Peppino Impastato, Vito Ievolella, Antonino Agostino, Pio La Torre, tutti barbaramente uccisi.


La mafia la raccontano loro, madri e sorelle, figlie e mogli di chi ha pagato con la vita uno sgarro a “Cosa Nostra” che non perdona e, se sbagli, ti mette in ginocchio.  


Nella gremita sala Sinopoli dell’auditorium “Parco della musica” di Roma arrivano anche le autorità. Immancabile, il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, in severo doppiopetto scuro. Si siede accanto al presidente del Senato Renato Schifani. Poco dopo arriva Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Angelo Piratino, Roberto Piscitello, Marcello Viola e Giuseppe De Gregorio della fondazione. In platea si avvistano Maria Grazia Cucinotta, avvolta in un tubino nero e  Gianfranco Vissani. 

Una scena dopo l’altra, sullo sfondo c'è Palermo e poi Catania e poi ancora Palermo. Gli applausi rompono il silenzio. Qualche lacrima scorre sui volti del pubblico in sala. Arriva, inesorabile, la fine. Ma in realtà è solo l’inizio. Il padre scende dall’auto e vomita al mondo la sua rabbia per chi quel giorno è stato sordo al richiamo della bellezza, fatta di mare, di scogli, di sole che acceca gli occhi. La Sicilia è anche questo. Il bianco e il nero insieme. 


E così quel 23 maggio del ’92 è la fine di Giovanni Falcone, ma è anche l’inizio di una nuova vita, quella di un bambino che rappresenta il futuro e che ora, a dieci anni, sa tutto quello che c’è da sapere. Per non dimenticare. 


Elena Orlando  (elyorl@tiscali.it) 

Nella foto, i funerali di Peppino Impastato 

lunedì 3 novembre 2008

Cartellino rosso per Airoldi, "arbiter inelegantiae"

In dieci partite, due goal annullati, più un terzo probabilmente valido col Cagliari. Ma ora finalmente Urbano Cairo sbraita e rompe il silenzio, segnando finalmente la fine di una tacita accondiscendenza nei confronti degli arbitri. E, nella fattispecie, di Airoldi, non proprio impeccabile nelle sue scelte col Toro. Anzi, recidivo nella sua ostentata intransigenza.

E così quel goal annullato ad Amoruso nel match contro la Samp al 14esimo del secondo tempo fa esplodere il presidente del Toro. Gli fa eco Gianni De Biasi, che giudica questi errori ricorrenti “un motivo di disagio” che interviene a turbare in profondità gli equilibri già parecchio instabili di una squadra che di certo non sta attraversando un bel periodo.

E così ora l’arbitro, oltre a un cervo con alcune ramificazioni in testa, diventa anche uno spauracchio da tenere a bada con le sue decisioni un po’ kitch, ai limiti del buon gusto e anche dell’ umana sopportazione.

Eppure gli arbitri sembrano moltiplicarsi, come nel miracolo dei pani e dei pesci, ed espandersi a macchia di leopardo. Tant’è che a Grosseto il comitato provinciale Csen ha organizzato il settimo corso per arbitri, tenuto dal responsabile Sergio Arienti, che ha sfornato ben sette arbitri di nuovo conio e belle speranze. I magnifici sette sono quelli che hanno superato con successo l’esame finale. Tra le motivazioni del corso, gli organizzatori pongono l’accento sull’incremento dell’attività calcistica e quindi la conseguente esigenza di preparare nuovi arbitri pronti all’attacco.

Adesso non resta che augurarsi che non si accaniscano contro alcune squadre che hanno preso di mira, e che non seguano troppo le orme di Airoldi. Certo, per intere generazioni gli arbitri venivano tacciati di cornutaggine e dovevano sopportare questo insulto, sperando che non fosse troppo profetico. Oggi gridano vendetta e si prendono la loro rivincita. Anche se Gasperini difende la buona fede della categoria invitando ad accettare gli errori (perfino quelli che non sono stati commessi? Beh, quelli forse no, se non altro per evitare che, a forza di ramificazioni, la testa di qualcuno arrivi a pesare un po’ troppo...).

Ma qua nessuno è fesso. E meno male. Tranne che qualcuno non voglia redimersi lungo la via di Damasco e trasformarsi in un arbitro, sì, ma nel senso in cui nell’antica Roma lo storico Tacito definì lo scrittore Petronio: arbiter elegantiae, ovvero campione di raffinatezza e buon gusto, capace come pochi di godere dei rari piaceri della vita.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)