venerdì 29 maggio 2009

Per Niccolò c'è sempre qualcosa di meglio

L’avevamo lasciato un giorno a Roma, coi suoi capelli in testa e la chitarra in mano. Pensavamo che ormai facesse il giardiniere, magari ispirato dall’omonimo singolo del ’97 e dal rifiuto snob delle mode, della massa, del mercato. E invece arieccolo, Niccolò Fabi. Dopo tre anni di astinenza discografica, un ritorno segnato da un’ amara riflessione sui talent show, il format televisivo più inflazionato del momento, che violenta tutti i ragazzi che non puntano ad apparire in tv e così finiscono per perdere fiducia arrivando, nei casi più estremi, perfino ad abbandonare la musica. Un nuovo album, “Solo un uomo” , il sesto, che è anche il titolo di un singolo bocciato all’ultimo festival di Sanremo. «Non mi ha sorpreso- commenta il cantantautore romano - non è in sintonia col modello estetico imperante».

I filologi sono così. Arano terreni incolti, percorrono vicoli in penombra perché troppa luce li acceca. Figli di un dio minore? Tutt’altro. Fabi si sente ricercato al punto giusto da tenere sempre i fan appesi a un filo. Poche apparizioni in tv, qualche volta in radio. Interviste rilasciate col contagocce. Quarant’anni più uno, un figlio e la scadenza di un contratto con la Virgin tra le cause scatenanti di questa rinascita. Un disco nato senza essere “il disco”, e quindi senza le solite pressioni a cui è sottoposto l’artista. «Stavolta ho registrato tutto in maniera rilassata... Il contratto è arrivato a lavoro finito, e la Universal ha sposato il progetto così com’era».
Alle prime registrazioni si sono poi aggiunti diversi amici, romani ovviamente, ma anche milanesi, in buona parte provenienti da quel nucleo di musicisti che nella città del nord gravita intorno alla via Ripamonti e alla Casa 139, come Enrico Gabrielli, già negli Afterhours. «Un incontro avvenuto da diverso tempo, quello tra la scuola romana e quella Milanese, per esempio con Rodrigo D’Erasmo che arriva da Roma e dal Collettivo Angelo Mai, e ora suona negli Afterhours… È un gemellaggio di cui sono sempre stato un fautore, ho sempre pensato che non avesse senso metterla sul piano della rivalità…», spiega Fabi.

Il disco si chiude con “Parole che fanno bene”, una canzone che affronta in maniera molto diretta alcune contraddizioni attuali della società: «Una canzone che ha una preparazione minima, nata da un groove fatto per provare la strumentazione di studi Poi ho improvvisato alcuni appunti di pensieri vari, che si sono trasformati quasi in un flusso di coscienza di quasi 6 minuti. È una sorta di monito alla responsabilità dell’uso delle parole, che faccio soprattutto a me stesso, perché mi sembra che oggi manchi». L’uomo al centro di tutto. Con le sue contraddizioni, i suoi fantasmi, le sue angosce. E Fabi, sempre più introspettivo, chiuso nelle sue segrete stanze, con lo sguardo perso nei suoi pensieri. Anche ora che tira un piacevolissimo vento d’estate.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 27 maggio 2009

Il sogno americano di Sonia

Dal cemento del Bronx ai marmi della Corte Suprema. Quasi un ossimoro esistenziale, un po’ come quello linguistico racchiuso nell’anima profonda del suo nome. Sotomayor, appunto. Segni particolari: donna, ispanica, di umili origini, molto liberal. Ma soprattutto, per nomina di Barack Obama, giudice della Corte d’Appello di New York. Sonia Sotomayor, 54 anni, figlia di poveri portoricani e orfana del padre dall’età di 9 anni, l'infanzia passata nelle case popolari del Bronx con il sostegno agli studi ottenuto dalla madre, è il primo membro latino-americano della Corte e la terza donna.

Una infanzia difficile. Diabetica fin dall'età di 8 anni, perse il padre dodici mesi dopo. Una tragedia personale che l’accomuna al presidente Obama. Furono i sacrifici della madre infermiera a dare a Sonia e al suo fratellino più piccolo, oggi medico, tutto ciò di cui avevano bisogno. Una storia da “sogno americano”, perché nonostante le tante difficoltà in famiglia, in primo luogo quelle economiche, la Sotomayor studiò prima a Princeton University, poi a Yale.
Un esempio di success story, dunque, per tutte le minoranze etniche. E chi la conosce bene è pronto a giurare che in aula sia un vero mastino. Parla spesso dei tribunali come di "ultimo rifugio degli oppressi" e si autodefinisce come una "pragmatica con i piedi per terra". Divorziata, senza figli, è considerata per opinione comune una grande appassionata del suo lavoro. Ma anche molto intransigente e poco incline al compromesso.

La sua sentenza più famosa è probabilmente quella con cui mise fine allo sciopero dei giocatori di baseball che bloccò per dieci mesi le World Series, per la prima volta in 90 anni. Fu lei infatti che nell'aprile del 1995, allora giudice distrettuale, mise fine alla protesta dei campioni con una sentenza che penalizzava i proprietari delle squadre e le fece guadagnare l'affetto dei tifosi e le celebrazioni della stampa specializzata.
In una recente intervista televisiva, Obama aveva dichiarato che il nuovo giudice avrebbe dovuto avere «statura intellettuale, sapere rapportarsi alla gente comune e avere senso pratico su come funziona il mondo». Esattamente l'identikit di Sotomayor. Il presidente spera ora che il successore del giudice Souter possa entrare in funzione già in ottobre in occasione della nuova sessione della Corte.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 26 maggio 2009

Ma Chicco Chicco non lo fa?

Per Enrico Mentana sarà durissima da accettare. Perché lui mica è uno che si integra facilmente. Figuriamoci poi se si reintegra. È invece quanto ha disposto il tribunale del lavoro di Roma. Accogliendo un ricorso presentato dall'avvocato Domenico D'Amati, il giudice Guido Rosa condanna Rti al pagamento dei danni. Nel ricorso si lamentava che Mentana fosse stato dimissionato e licenziato illegittimamente. La vicenda scaturì dalla polemiche seguite dalla decisione aziendale di mantenere invariata la programmazione di Canale 5 quando morì la Englaro.
Ma probabilmente segnava la rottura dell’ultimo anello di una catena sempre più arrugginita.
Mentana la sua versione l’ha raccontata in lungo e in largo su Vanity Fair. Facendo notare tutti i vizi del suo editore. Di forma, ma soprattutto di sostanza. Il bavaglio in bocca, la totale mancanza di libertà dell’informazione, il dietro front di Fedele Confalonieri nei suoi confronti.
Sorpresa e stupore per Mediaset, che ha deciso di appellarsi. Ma come l’ha presa invece il diretto interessato? Non si era sbarazzato una volta per tutte dell’infido Silvio? Non aveva ripreso a navigare in nuove acque, magari per approdare al porto di La 7? Si attende la replica. Al pinzimonio, naturalmente. E senza bavaglio.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 22 maggio 2009

A George, una cameriera per la vita

Con una faccia da star e una vita anche, potrebbe avere tutti gli applausi femminili che vuole. Visto che le donne a un certo fascino sono sensibili. Eppure, George Clooney appartiene a quella schiera eroica di Very Important Person che, almeno nel privato, resistono duri e puri alle lusinghe del fighettume hollywoodiano patinato, per immergersi invece nelle tiepide acque correnti del rubinetto della casa a fianco. E, a un anno dalla rottura con Sarah Larson, anche lei cameriera, ha una nuova relazione dello stesso genere. Clooney ha incontrato a Miami la barwoman e aspirante modella Lucy Wolvert. Secondo alcuni, i due si starebbero frequentando da settimane e ora i sospetti su una relazione sembrano trovare conferma. «Anche se George le aveva chiesto di mantenere il riserbo, lei non ha resistito e l'ha detto ad alcuni amici», ha detto un'amica al magazine US Weekl.
Un passato da brava ragazza? Non proprio. La Larson, a parte una breve parentesi di notorietà qualche anno fa per aver partecipato e vinto al reality game Fear Factor, aveva lavorato come cocktail waitress nel nightclub Las Vegas's Moon del Palms Casino Resort.
Il tabloid inglese Daily Mail ha pompato la notizia, parlando di "passato hot". Ci sono anche foto della bella Sarah in compagnia di alcuni clienti in abiti succinti e atteggiamenti discutibili. Certo, la ragazza è lungimirante. E, in attesa di sfondare in passerella su un tacco 15 e avvolta da chiffon, si fa le ossa al bancone del bar. Shakerando un Martini a George, in attesa di un vero party.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 21 maggio 2009

E, anche stavolta, adda passà a' nuttata?

C’è apprensione in queste ore per le condizioni di salute del professor Umberto Scapagnini, ricoverato in prognosi riservata a Roma. Con lui, l’ex moglie e i due figli.
Ho conosciuto il prof. Scapagnini nel corso della mia attività di collaborazione giornalistica con “La Sicilia” di Catania. Per tutti era il medico personale di Silvio Berlusconi, quello che aveva diagnosticato al premier l’immortalità. Quando l’ho conosciuto, era il sindaco di Catania, la città che mi aveva accolto durante gli anni dell’Università alla facoltà di Lettere classiche. E non era ancora al suo secondo mandato.
Il giornale mi spediva spesso a iniziative organizzate dal comune. E una sera mi ritrovai faccia a faccia col prof. Scapagnini, catapultata all’Excelsior, ad una cena per festeggiare Gianni Bella e la sua Capinera in musica. C’era anche la sorella Marcella e si parlava di vacanze e di immersioni. Il professore amava farle con suo figlio Giovanni.
A scadenza periodica mi capitava di incrociare il suo sguardo in giro per conferenze stampa e iniziative cittadine. Mi aveva memorizzato perché, diceva, mi chiamo Elena, come la sua ex moglie.
Dopo lo scandalo del buco finanziario di Catania, era fuggito dalla città. Il 12 febbraio 2008 si era dimesso. Già si sapeva che non stava bene e che aveva subito un difficilissimo intervento chirurgico.

Ho ritrovato il professor Scapagnini qui a Roma, qualche giorno dopo il mio arrivo nella capitale per frequentare la scuola superiore di giornalismo della Luiss.
Lui stava all’Hotel Bernini Bristol, dove andava spesso. Ci siamo incontrati poche ore dopo il suo arrivo a Roma. Sembrava l’incontro tra due solitudini. In quell’occasione, mi ha raccontato le fasi della sua malattia e la difficile operazione nei minimi dettagli. Io lo ascoltavo con attenzione. Proprio come quella volta, a cena a Catania, a piazza Bellini, durante lo spettacolo di Capodanno in piazza.
Scapagnini è napoletano. Con tutte le accezioni del termine. Ed essere napoletani è prima di tutto una categoria dello spirito. Godereccio, amante della vita, è uno dei pochi capace di sdrammatizzare tutto con una semplice battuta di spirito.
Una volta, gli ho chiesto: «Professore, mi dice quante donne ha avuto?». E lui, ridendo: «Non t’interessa. Comunque, mi sono sempre innamorato. E se stavo con una donna, stavo con lei e basta. Mica come certi ipocriti che si tengono a casa a’ mugliera… ».
Ama raccontare i suoi esordi all’Università, i sacrifici dei primi tempi, quando non aveva un soldo in tasca, le avventure rocambolesche col suo più caro compagno di studi, le sue specializzazioni americane in Farmacologia, il più bel periodo della sua vita (ovvero, l’insegnamento universitario). Stava scrivendo un altro libro per Mondadori.

Io gli parlavo della mia passione per il giornalismo e di come fosse difficile entrare in un mondo chiuso, quasi blindato. Aveva preso a cuore il mio caso. Senza le solite ambiguità che troppo spesso imbrattano i rapporti tra una giovane ragazza e un uomo pubblico. E quasi non mi sembrava possibile.
Voleva perfino che mi occupassi del suo personale ufficio stampa che però, da semplice deputato alla Camera, non avrebbe mai ottenuto.
Molti dei suoi avevano girato i tacchi e lo avevano lasciato solo, sorte comune agli uomini di potere che cadono improvvisamente in disgrazia. Eppure lui mi raccontava che aveva apprezzato molto le telefonate dei suoi avversari politici e di chi, al di là delle logiche di appartenenza, gli aveva dimostrato un po’ d’affetto. Sembra strano, ma il professore distingueva le persone tra chi gli voleva bene e chi no. E se diceva «quello mi vuole bene», voleva dire che poteva fidarsi politicamente di lui.

Da buon partenopeo, parlava sempre di iella, che gli avevano buttato addosso come fa il vento con la polvere.
L’anno scorso ci sentivamo spesso, e spesso lo andavo a trovare. Mi trattava come una nipote.
«Tu hai un difetto. Parli troppo. Io invece sono sintetico», mi diceva. E poi: «Stai tranquilla. L’ansia uccide la gente».
Quest’estate, in un albergo di fronte alla Plaia, mi aveva confidato l’amarezza e la stizza per l’assedio spietato e cinico della stampa nazionale nei suoi confronti. «Mi vogliono morto, ma io sono come i gatti. E alla fine risorgo sempre» . Ma forse non questa volta. Perché il nemico da abbattere è di gran lunga più forte e spietato del peggiore degli avversari politici. Grazie, professor Scapagnini. Per avermi insegnato che ci si può occupare della cosa pubblica senza perdere di vista se stessi neppure per un attimo. Per avermi fatto capire che nella vita non bisogna mollare mai fino alla fine, anche quando la partita è persa e tutti ti vomitano addosso il loro disprezzo. Che si può costruire sempre un punto di vista diverso da quello che si ha davanti, a cui potersi aggrappare per tentare di rilanciare ancora una volta la palla in campo. Grazie, professore.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 20 maggio 2009

Pedro, la Spagna e la buona educaciòn al femminile

Non basta vestire un habitus da cinema, né avere il cinema nell’anima per colpire al cuore di un pubblico assuefatto a certe moine da star. Non a caso ora Pedro Almodovar punta tutto sull’esperienza acquisita negli anni. Apparentemente più distaccato, ma molto più attento alla cornice che avvolge il quadro. Un quadro magniloquente e patriottico, quello de “Gli abbracci spezzati”, l’ultima pellicola in concorso al Festival di Cannes, alla maniera dei dipinti del neoclassicista José Aparicio. Applausi, sì, ma con critiche contrastanti per un’opera già uscita in Spagna a metà marzo, che approda nelle sale italiane il 2 ottobre, distribuita dalla Warner Bros. Almodovar sente ora di voler rendere omaggio all'arte del cinema, citando ogni icona: da Audrey Hepbrun a Bunuel, da Antonioni a Hitchcock, quello che ha riportato per la quarta volta la Cruz sotto la sua direzione, dopo l'Oscar per il film di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona.

Lo sceneggiatore cieco Harry Caine (Lluis Homar) si trova a fare i conti con il suo doloroso passato. Prima di essere Harry era il regista Mateo Blanco che durante le riprese della commedia Chicas y maletas si innamora della sua protagonista, Lena (Penelope Cruz), attrice per diletto essendo l'amante mantenuta di Ernesto Maleto (Josè Luiz Gomez), un finanziere più anziano di lei disposto a fare il produttore. La relazione, spiata brutalmente da Ernesto, filmata dalla telecamera del figlio omosessuale di lui, Ernesto jr, e mal sopportata da Judith (Blanca Pontillo), la direttrice di produzione del film, un tempo in coppia con il regista che si rivelerà essere il padre del giovane Diego, evolve drammaticamente. I due amanti si rifugiano a Lanzarote fin quando in un sospetto incidente d'auto lei morirà e lui resterà cieco. Ma il passato riemerge: Harry rimonta il suo film, terminandolo con l'ultimo bacio di Lanzarote e torna ad essere Mateo Blanco.

«Nella storia del protagonista maschile c'è la metafora della Spagna. Alla metà degli anni '70 il mio Paese ha dovuto lasciar perdere il passato per guardare al futuro», ha detto Almodovar riferendosi all'amnistia generale post franchista del '77 . Ma cos’è diventata oggi la Spagna? «Ora, dopo 30 anni, la Spagna è diventata una democrazia adulta e solida e ha potuto fare i conti con il suo passato perché è impossibile rinunciarvi altrimenti quei fantasmi rischiano di corrompere la democrazia. È la legge della memoria storica, in parte però disattesa», ha aggiunto riferendosi alla legge di 4 anni fa che ha tentato di far luce sugli orrori del regime di Franco. Penelope Cruz emerge prepotente dallo sfondo. Segno tangibile che nei film del regista le donne sono sempre più forti, combattive e i maschi deboli. «Forse perché sono stato educato al grande spettacolo della vita da una famiglia diretta da donne forti», rivela. Come quelle che hanno tirato su la generazione degli anni ’50, dopo la guerra. Eccolo svelato, dunque, il fiore del suo segreto.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 18 maggio 2009

Un tuffo dove l’acqua è più blu

Più che uno specchio d’acqua, un mare di rifiuti. Ma per fortuna ogni stato adotta un suo sistema, dallo stop categorico alle cannucce per bibite lungo le coste all’energia prodotta dal recupero delle reti di plastica. L’Unep (il Programma ambiente delle Nazioni Unite) ha presentato ufficialmente il suo rapporto sui rifiuti in mare. Il report propone un'analisi delle azioni intraprese da governi nazionali, autorità territoriali e industrie per circoscrivere i problemi indotti dallo scarico in mare dei rifiuti, proponendo anche alcune misure ''speciali'' e alcuni casi di successo. Ad esempio negli Stati Uniti locali e ristoranti che esercitano nelle zone costiere hanno l'obbligo di utilizzare solo piatti e bicchieri ''usa e getta'' di carta riciclabile e biodegradabile. Ed è addirittura scoraggiato l'uso delle cannucce per le bibite. E in molte comunità è stato introdotto un premio in denaro per i pescatori che recuperano attrezzature e rifiuti abbandonati in mare, un ''incentivo'' che ha permesso di ripulire i fondali delle Hawaii di quasi 75 tonnellate di rifiuti in due anni. E una partnership di soggetti pubblici e di privati a Honolulu è riuscita a raccogliere e riciclare circa trenta tonnellate di reti di plastica che, convertite in energia, hanno illuminato la città. Il rapporto Unep propone una serie di raccomandazioni rivolte soprattutto alle autorità pubbliche dalla sollecitazione a investire in prodotti e servizi di gestione dei rifiuti, al miglioramento della gestione delle discariche e dell'ambiente, al ricorso sempre più diffuso ai materiali biodegradabili, fino alla promozione di strumenti di mercato: fondi, incentivi e tasse, i più adatti secondo l'Unep per fronteggiare adeguatamente il problema. Ora non resta che drizzare le orecchie e attenersi alle regole. E farsi accarezzare, senza più riserve, dalla spuma di Venere.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 15 maggio 2009

Tutto il resto è... satira

Satura tota sua est. Irriverente e slabbrata. Come quell'irresistibile piatto misto degli antichi latini. E come piace agli italiani, specie a Natale, nei soffici cinepanettoni spensierati e vacanzieri di Carlo Vanzina & Co. Christian De Sic, leader nel settore da ben 25 anni, si è pappato il Premio satira politica alla carriera. Arrivando dove neppure il defenestrato Luttazzi è riuscito ad arrivare. La giuria lo ha scelto perché da un quarto di secolo descrive l’antropologia dell’italiano contemporaneo. Motivazione politically correct, per il cognato di Carlo Verdone, uno che sui tipi contemporanei ha costruito la sua storia cinematografica. Un difetto di famiglia, ora esteso anche al figlio Brando, sempre più lanciato nel mondo dorato del “ciak, si gira”.
La 37/a edizione della manifestazione si terrà il 26 settembre. Alla Capannina di Franceschi sono stati ospitati i nomi più importanti del giornalismo, del disegno satirico, della letteratura, dello spettacolo.

Ma che tipo di satira è quella di De Sica? Siamo sicuri che sia davvero satira politica? E soprattutto come commentano il premio a De Sica Luttazzi, Guzzanti, Crozza e tutti quelli che della satira politica vera hanno fatto il loro principio identitario?
Certo, ogni medaglia ha il suo rovescio. E questo riconoscimento arriva come una boccata d’ossigeno, per un’Italia sempre più imbavagliata in fatto di esternazioni satiriche sufficientemente “oscene”. Esprit de finesse, innanzitutto, avrebbe detto Pascal. Ma la satira non conosce mezze misure. E se manca, manca l’aria, non si respira, rsi rischia insomma una morte cerebrale rapida e immediata.

Al di là delle note rimostranze del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di certo l’ insofferenza a un certo tipo di satira politica a casa nostra è bipartisan, nel senso che i nostri politici, sia di centrodestra che di centrosinistra, camperebbero molto meglio senza.
Non tutti i desideri però vengono esauditi. E qualche volta ci scappa pure un bel premio. Come nel caso di De Sica. Seppur di satira blanda si tratta, un po' come un buon latte di mandorla, ma troppo annacquato. Ora, chissà che questo riconoscimento non possa essere l’occasione buona per la satira vera di ritornare sulla cresta dell’onda, ricominciare a illuminare le menti di chi la fa per professione e far tornare i neuroni del nostro cervello a danzare?

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it )

giovedì 14 maggio 2009

Io sono io, gli altri non sono niente

È uno specchio di carta a riflettere l’immagine della Fiera Internazionale del Libro di Torino 2009, che apre le danze oggi, per la ventiduesima volta. “Io, gli altri. Occasioni per uscire dal guscio”: il titolo raffigura lo specchio fragile che riflette l’immagine gracile di un Io malato, egocentrico ed esibizionista, sempre più ripiegato su se stesso, che abdica alla vocazione comunitaria. O peggio la proiezione immaginaria, che sempre più spesso si mostra su internet, di ciò che vorremmo essere e non siamo.
Quattro padiglioni, 51.000 metri quadri di superficie, 27 sale convegni, più di 1.400 editori, 300.000 visitatori in cinque giorni. La Fiera Internazionale del Libro di Torino è la più grande manifestazione d'Italia dedicata all'editoria, alla lettura e alla cultura, e fra le più importanti in Europa.

La riflessione sul motivo conduttore della Fiera 2009 parte dalle neuroscienze. Come funziona il nostro cervello, sede deputata dell'identità? Quali sono le conoscenze acquisite e quali le direzioni della ricerca? Ne parla Edoardo Boncinelli, biologo di sperimentate capacità divulgative. Insieme a lui, Giacomo Rizzolatti, che con il suo team dell'Università di Parma ha scoperto i cosiddetti neuroni-specchio, che attraverso l'osservazione dei comportamenti altrui finiscono per avere un ruolo importante nell'apprendimento.
Toccherà poi alla psicoanalisi, che cento anni fa ci ha rivelato come l'Io sia tutt'altro che monolitico, ma piuttosto una trinità, secondo l'ipotesi freudiana: Io, Es, Superio. Autorevoli esponenti delle tre maggiori scuole psicoanalitiche, la freudiana, la junghiana e la lacaniana, ci daranno le rispettive definizioni.
Dall'Io al noi, al gruppo, agli altri, ai diversi. E poi ancora come si sono visti e rappresentati gli uni gli altri, nei secoli, arabi, ebrei e cristiani? Rispondono autorevoli studiosi quali Paolo Branca, Giulio Busi e Ermis Segatti.

Esiste un «noi» europeo? Il grande storico inglese Donald Sassoon, che riceve a Torino il Premio Alassio Internazionale, parla dell'identità culturale degli Europei dall'Ottocento a oggi. In che modi l'Io si racconta in opere letterarie, autobiografie, memoriali, lettere? Di questo discutono critici e scrittori come Alfonso Berardinelli, Giorgio Ficara, Elena Loewenthal, Giulio Ferroni, mentre Rosetta Loy dialoga con Daria Bignardi su come si racconta la famiglia, motore primo di ogni approfondimento romanzesco. La voce che dice Io in letteratura è oggetto della lectio di Alberto Manguel. Melania Mazzucco, appassionata biografa di Tintoretto, dialoga con Rosellina Archinto sull'Io tra letteratura e pittura. Margherita Oggero e Bruno Gambarotta parlano di come si può scrivere di sé parlando d'altro: per esempio, scrivendo favole.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

Regalpetra e la dura legge del goal

Bisogna andare a Regalpetra - un posto in cui nel giro di 16 anni ci sono stati venti omicidi, due stragi, due casi di lupara bianca, un suicidio e tre manifestazioni contro la mafia - per capire fino in fondo com’è fatta la Sicilia, terra che Gaetano Savatteri definisce “priva di giustizia, umanità e verità”. Definizione onesta per un siciliano come lui nato a Milano, che all’età di dodici anni si fa migrante all’inverso. E compie un nostos che lo riporta alle origini, trasformandosi a tutti gli effetti in vittima inconsapevole di quella condanna che prima o poi tutti i siciliani sono costretti a scontare: ritornare allo scoglio, dopo aver navigato in mare aperto. Ma forse è proprio quel mare aperto che gli ha dettato, nella brezza della notte, le parole del suo ultimo romanzo, “I ragazzi di Regalpetra”, edito da Rizzoli (300 pp., 18,00 euro) per la collana 24/7. E che gli ha permesso, col giusto distacco, di parlare di Racalmuto, rendendo così un omaggio solido e antiretorico a Leonardo Sciascia, cantore indomito della Sicilia più cupa e orrida, indolente e infame. Eppure loro, i ragazzi di Regalpetra, non se ne accorgono. Perché nei lunghi pomeriggi degli anni Settanta e Ottanta sono troppo impegnati a giocare a calcio. E forse non sanno che tra le pieghe di una maglia e un paio di calzoncini corti si nasconde il germe invisibile e subdolo della storia che ciascuno di loro si porta dietro, fin dalla nascita. È come un marchio impresso a fuoco sulla pelle, che però stavolta fa davvero la differenza. E, alla fine, a fare la differenza, trent’anni dopo un gioco di squadra che in apparenza metteva tutti insieme, tutti sullo stesso piano, ci ha pensato la vita. C’è chi ha creato dal nulla un piccolo giornale, facendo dell’impegno civile il principale motivo ispiratore della propria esistenza e chi invece ha scatenato una sanguinosa guerra di mafia a partire dalla strage del 23 luglio 1991. L’onestà e il suo contrario. La logica perbene e quella del malaffare. Eppure trent’anni fa, erano tutti lì, i ragazzi di Regalpetra, a calciare lo stesso pallone, con qualche crampo al polpaccio e tanta fame di felicità. Li conosceva uno per uno, Savatteri. E diciott’anni dopo li va a cercare. Li vuole incontrare di nuovo. Sente il bisogno di riappropriarsi, almeno per un istante, di quei volti unti e sudati, per capire in quale stazione sono scesi. O se hanno camminato davvero su un filo che in fondo non si è mai spezzato. Come l’odore acre di quei luoghi e di quei legami d’infanzia, scolpiti per sempre nella memoria di ognuno. Escamotage narrativo e insieme vocazione giornalistica (Savatteri esordisce come cronista nella redazione di Palermo del “Giornale di Sicilia” e, in seguito, si trasferisce a Roma, prima come inviato dell’”Indipendente”, poi come collaboratore del Tg3 e, dal 1997, è un inviato del Tg5). E così, a testa alta, l’autore non si sottrae alla resa dei conti, un angoscioso faccia a faccia con Maurizio Di Gati e gli altri ex picciotti che, né ricchi né potenti, hanno formato l’ossatura agrigentina di Cosa Nostra e oggi, reduci da lutti, galere e latitanze, hanno deciso di “cantare”. In quest’ultimo romanzo di Savatteri, la Sicilia torna prepotente, ancora una volta come metafora del mondo, un cono d’ombra che proietta la sua inquietante immagine all’esterno in uno scenario da tragedia greca. E se la vita spesso appare come un work in progress, in cui si recita a soggetto e il canovaccio lo scrivono gli altri, per i ragazzi di Regalpetra, la regola non vale. Loro il canovaccio se lo scrivono da soli. Con un finale a sorpresa. Perché, “malgrado tutto”, c’è ancora una speranza.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 12 maggio 2009

Caronte incrocia le braccia

La vigilia del voto di fiducia sul ddl sicurezza per maggioranza e opposizione non è la sera del dì di festa di leopardiana memoria. Nel senso che l’atteso voto su un provvedimento che stringe la morsa sui clandestini, dal crepuscolo di ieri la polemica l’ha infiammata davvero. A gettare altra acqua sul fuoco ci pensa il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, arrivando a Sharm el Sheikh, dove partecipa al vertice italo-egiziano con il presidente Hosni Mubarak, si affretta a sottolineare che sui barconi che portano immigrati clandestini verso l'Italia «praticamente non ci sono persone che hanno diritto d'asilo», al di là di alcuni "casi eccezionalissimi". Ma c’è di più. I barconi di immigrati che salpano verso l'Italia «non sono fatti occasionali ma il frutto di una organizzazione criminale»: a bordo vi sono persone che vengono «reclutate in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali».
E sulle recenti perplessità xenofile sollevate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, che si era schierato contro il voto di fiducia al ddl sicurezza insieme al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, ha preferito non rispondere alle domande dei giornalisti, ma ha voluto ancora una volta marcare la differenza con una sinistra che, secondo lui, "vuole che le porte del nostro Paese siano spalancate a tutti, quindi anche ai clandestini". "Noi invece - ha detto il premier - riteniamo che le porte debbano essere chiuse o socchiuse soltanto per chi viene in Italia per lavorare e integrarsi".

Fini, in visita ad Algeri, aveva posto l’accento sulle dovute distinzioni tra immigrati senza requisiti e coloro che invece li hanno per chiedere asilo politico all'Italia.
Sull’argomento l’opposizione sferra un pugno, indossando però guanti di velluto. «I barconi pieni di disperati sono stati trasformati in uno spot elettorale per le prossime elezioni, come se fossero un manifesto per raccogliere voti e questa è la cosa più immorale» è stato il commento del segretario del Pd, Dario Franceschini, «Sui respingimenti – ha poi aggiunto - vanno rispettate le norme internazionali, oltre che il buon senso . Non lo diciamo solo noi faziosi dell'opposizione, ma anche il Consiglio d'Europa, le Nazioni Unite, i vescovi italiani. Si tratta di rispettare la dignità dell'uomo e le leggi italiane e internazionali». Insomma, Caronte va in pensione. E, almeno per il momento, eviterà di traghettare le anime “barbare” verso la decantata fortuna del bel Paese e dei suoi orchestrali.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 8 maggio 2009

La Brambilla nominata ministro. Con le autoreggenti, ma senza portafoglio

Prima o poi arriva. Il proprio momento di gloria, la giusta ricompensa, l’atteso riconoscimento. L’importante è saper attendere, senza scalciare troppo forte. Proprio come ha dimostrato di saper fare in questi ultimi mesi Michela Vittoria Brambilla, donna “d’acciaio” da quattro generazioni, costretta ad accomodarsi momentaneamente in seconda fila senza le inseparabili autoreggenti, in attesa di quella promessa che Silvio Berlusconi le aveva fatto.

Ma alla fine il premier la sua promessa l’ha mantenuta. Del resto l’aveva detto in un'intervista a Sky tg24, di volerla promuovere entro il 2009 da sottosegretario a ministro del Turismo, nozione ribadita il Primo maggio a L’Aquila e a Porta a porta il 5 maggio. E lei, dopo aver sposato la causa dei Circoli della Libertà, che la misero al centro di un vertiginoso vortice di polemiche con Marcello Dell’Utri e gli altri colonnelli di Forza Italia, e dopo essere diventata il volto fiammante della tv della libertà, chiusa dopo appena un anno di vita, si era defilata, dimezzando le sue presenze televisive, le sue dichiarazioni pubbliche, e facendo consapevolmente calare il sipario su quelle gambe tortuose e insinuanti, che amava accavallare come fusilli.

Mossa studiata ad arte per non gettare altra legna sul fuoco. Che va ad unirsi al giretto di valzer di una serie di interviste in cui ogni volta non mancava di sottolineare che a lei, malgrado dicerie e insopportabili voci di aula, le poltrone non interessavano proprio.
Mossa astuta, da vera stratega della politica. Che dimostra quanto lontani siano i tempi degli esordi televisivi a Mediaset, in cui la rossa del Pdl, con occhiali scuri e guanti di pizzo, da brava inviata de "I misteri della notte”, montava su una moto per raccontare agli spettatori i locali notturni di Barcellona.

Da stasera la Brambilla sarà ministro con delega al Turismo. L’attesa nomina, arrivata dopo il via libera del Colle nel corso di un incontro di un’ora al Quirinale tra Silvio Berlusconi, accompagnato dal suo sottosegretario Gianni Letta, e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si unisce a quella di tre sottosegretari promossi a viceministri: Adolfo Urso (Sviluppo economico), Paolo Romani (Sviluppo economico) e Roberto Castelli (Infrastrutture). A questi ne sono stati aggiunti due: Ferruccio Fazio al Welfare con delega alla Salute e Giuseppe Vegas all’Economia.

La Brambilla non avrà però "portafoglio" e d'altra parte di soldi da spendere non ce ne sono molti, come si è affrettato a spiegare Giulio Tremonti con una sua dettagliata relazione sullo stato della finanza pubblica.
Che cosa cambia di fatto nel governo dopo i nuovi ingressi? «Le "promozioni"», ha tenuto a precisare Berlusconi nei giorni scorsi, «non spostano il numero dei componenti del governo», visto che «si tratta di sottosegretari che diventano viceministri per confrontarsi al meglio nelle riunioni internazionali con ministri di altri Paesi». Il numero complessivo dei membri del governo, in sostanza, resterà invariato a 61. Uno in più dei sessanta previsti dalla "legge Bassanini" dopo lo strappo alla regola con la nomina a sottosegretario all'Emergenza rifiuti di Guido Bertolaso.

Però, mentre coi viceministri sembrerebbe essere stato raggiunto un equilibrio perfetto tra le diverse anime della maggioranza, a destabilizzare la maggioranza di governo potrebbe essere proprio la nomina della rossa di Lecco, a causa delle rimostranze di alcuni componenti del Pdl nei suoi confronti.
Ma ormai il gioco è fatto. Stamattina le deleghe sono state spacchettate. E stasera si prevede il giuramento. La Brambilla tira dritto come un treno. Chissà, magari presto la ritroveremo di nuovo in tv, ancora con l’inseparabile giarrettiera. A parlare della crisi delle medie e piccole imprese, della sua passione per i cani e, naturalmente, di Turismo enogastronomico.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 7 maggio 2009

La Lussuria a Lodi è un vero peccato


Roba di lusso. Agghindata di sregolatezza. Intrisa di perdizione. Terribilmente smodata. Nella Lodi mesta ma non affatto modesta, dal 7 al 17 maggio la settima edizione del Festival dei Peccati capitali si abbandona alla Lussuria e al suo opposto, la Castità. Dopo l’Ira (ed. 2003), la Gola (ed. 2004), la Superbia (ed. 2005), l’Avarizia (2006), l’Accidia (2007) e l’Invidia (2008).
Si ritorna così nel quinto canto della Divina Commedia, al secondo cerchio dell’Inferno, laddove «Minosse sta orribilmente e ringhia di rabbia», laddove finì l’eccentrica Cleopatra, e poi Semiramide, e poi ancora Didone, Elena di troia, Paride, Achille e il buon Tristano. Ma soprattutto dove si amarono al di là di ogni regola e limitazione Paolo e Francesca, presi da un piacer sì forte. Tutta gente «che la ragion sommette al talento».

Nella dottrina cattolica classica, la lussuria il frutto della concupiscenza della carne (al pari del peccato di gola e dell'accidia) che infrange sia il Sesto Comandamento che vieta di commettere atti impuri sia il Nono che riguarda il desiderare la donna d'altri.
Nella modernità contemporanea, la bussola che orienterà undici giorni di spettacoli a tema "piccante", con tanto di improvvisati "speaker’s corner" in cui si leggeranno romanzi lussuriosi, installazioni, workshop, concorsi, ma soprattutto mostre e dibattiti a tema. Ci sarà perfino una mostra a tema sull'erotismo dei fiori (Flora impudica) e quella dedicata all’immancabile Marilyn Monroe nelle Fotografie di Sam Shaw, il più grande sex symbol degli anni ’50.

In Piazza del Broletto ci sarà l’installazione "Sussurri lussuriosi": un tunnel di voci, suoni, musiche, sussurri e singulti e voci che citano testi di tutti i tempi, dalla Bibbia al Decameron fino alle immancabili poesie di Alda Merini, e ancora la danza del ventre. E siccome il sesso se la intende bene col cibo, tutti i ristoranti della città proporranno menu speziati, piccanti e afrodisiaci.
Per i dibattiti, è prevista la presenza del filosofo della scienza Giulio Giorello, di attori come Lucia Vasini, Paolo Rossi, Alessandro Bergonzoni, del criminologo Massimo Picozzi, del giornalista Armando Massarenti e del critico Aldo Grasso, di scrittori Sveva Casati Modignani, Efraim Medina Reyes e Vincenzo Cerami, del filosofo Carlo Sini, del neuroscenziato Alberto Oliverio, e ancora di Allan Bay insieme a Roberta Schira e ai loro segreti enogastronomici. Non mancheranno gli ospiti abituali come Jiso Forzani ed il biblista Paolo De Benedetti.

E la Castità? Anch'essa freme parecchio. Con la sua fisionomia candida, è la versione virtuosa della Lussuria. Alla fine, che strada scegliere? La battaglia si gioca tutta su un terreno scivoloso. Lo spirito è forte, la carne è debole. Ma alla fine, chissà perché, vince sempre…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 6 maggio 2009

Stop dimentica-tevi dei precari


Una grattatina di troppo sulla pelle non è piacevole. Renato Brunetta all’orticaria preferisce il lifting alla pubblica amministrazione. E dato che a rischiare di fargliela venire è la mitologia del precario, messa in scena da così tanta filmografia e letteratura negli ultimi dieci anni. I riflettori puntati sul dramma, sull’angoscia, sulla luce spettrale del precariato al ministro della Funzione pubblica non piace proprio per niente. Anzi, per dirla come lui l’ha detta, “gli fa letteralmente schifo”. Perché “i precari – ha spiegato Brunetta - non possono e non devono essere una classe sociale, ma una forma di passaggio».

L’attacco alla «mitologia» del precariato visto come speculazione sui giovani ha colpito anche la Cgil Funzione pubblica che ieri ha presentato i dati sui lavoratori flessibili nella pubblica amministrazione. L’indagine, condotta sui dati della Ragioneria Generale dello Stato, registra un numero di precari pari a 440.920. Di questi, è stato spiegato, 60 mila rischiano di subire lo stop alle stabilizzazioni a partire da luglio, sempre che venga approvata «la norma sulla quale si basa la strategia del governo».

La polemica parte da lontano. Da quando Brunetta ha iniziato un monitoraggio sui contratti flessibili nella pubblica amministrazione e sulla loro regolarizzazione, i cui primi esiti sono stati pubblicati a fine aprile: 34.267 precari regolarizzabili, più della metà in Sicilia. «Il fenomeno - si concludeva - risulta assolutamente nei limiti fisiologici», vi­sto che «nella grande maggioran­za dei casi le amministrazioni hanno posti in pianta organica e risorse economiche sufficienti» per stabilizzare. Ma per Carlo Podda, segretario generale Fp-Cgil, il monitoraggio sarebbe «strumentale, perché una volta ridimensionato il fenomeno del precariato nei numeri risulterà socialmente più accettabile l’interruzione del processo di stabilizzazione avviato dal precedente governo». Pronta la replica di Brunetta che ieri ha respinto l’addebito. E ha annunciato un monitoraggio non più precario ma stabile.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 2 maggio 2009

In Kenya si va in bianco

Voi litigate? E noi non ve la diamo! Mica un truculento scambio di battute da bar. Tutto vero e serio. Le donne in Kenya al momento richiudono le gambe. Proprio come nella Lisistrata di Aristofane, una delle sue commedie satiriche più brillanti. In alcuni casi lo sciopero del sesso ci sta. Ad esempio, per fermare la guerra del Peloponneso, che da lungo tempo travagliava l’antica Grecia, certo. Ma anche per far smettere di litigare gli esponenti dei diversi partiti della maggioranza di governo in Kenya.

Oggi come ieri. Stop: niente sesso per una settimana. E’ l’ultimatum lanciato dalle mogli per riportare la pace nell’esecutivo. Le attiviste della coalizione di gruppi femministi Women’s Development Organization (Organizzazione per l’avanzamento delle donne) lo hanno lanciato ai propri uomini noti, in Africa, per non riuscire a fare a meno del sesso per più di due giorni. Sono state invitate a partecipare anche le mogli del presidente Mwai Kibaki e del primo ministro Raila Odiga. E Ida Odiga ha già aderito. Ma c’è di più. Le attiviste hanno sollecitato le prostitute del Paese africano a non essere da meno e a incrociate le braccia.


Lo scopo è nobile: evitare in Kenya il ripetersi delle sanguinose violenze interetniche che nel 2007, poco dopo le contestate elezioni presidenziali, hanno devastato il Paese, provocando 1.500 morti e 300 mila profughi, quando la rivalità tra Kibaki e Odinga era sfociata nel sangue sparso dai sostenitori divisi, oltre che dalla politica, soprattutto dall’appartenenza tribale, scatenando così una semi-guerra civile fermata dall’accordo del 2008 che riconosceva in Kibaki il presidente mentre la guida del governo – una grande coalizione con 41 ministri – andava a Odinga.
Ancora una volta il potere della “f...”emmina si mette a disposizione dell’umanità. Riuscirà o sciopero de’ mugliere a rimettere pace tra gli illustri mariti?

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)