mercoledì 29 dicembre 2010

Glitter: psicomania per donne spente

Tutto parte da lì. Un luccichio devastante inalbera la vista. Poi, quasi per gioco, l’illusione fulminea di una felicità abbagliante. Tutta colpa (o forse merito) del glitter. Un galantuomo, come si dice, senza troppi tentennamenti di rito. Ravviva i rossetti spalmati sulle labbra, rinverdisce ombretti opachi e dà carattere all’eyeliner da diffondere più o meno democraticamente su palpebre avvilite e annoiate. Effetto immediato: il glitter ridona vitalità perfino se hai la fisionomia di una mummia di Ferentillo. E non solo. Illumina anche gli smalti, rendendo le unghie sfacciatamente iridescenti. Ma il glitter è molto di più che un vezzo un po’ azzardato del make up di Capodanno. Per chi opta disperatamente per l'apparire più che per l'essere, può diventare uno dei migliori alleati. E' un modo per voler dire “io brillo di luce propria”, “nessuno mi ha mai regalato niente”. Serve a farsi notare nella penombra, a ricordare che non intendi per nessuna ragione passare inosservata. Drammatico nei toni oro, metallico in quelli del grigio, contamina anche le creme per il corpo, per scollature a prova black out. Insomma se non ti senti, ti vedi. Le donne davvero brillanti non ne hanno di certo bisogno. Quelle un po’ spente, rivestite di una pellicola opaca, è bene invece che ne facciano pronto uso: loro sì che hanno davvero bisogno del trucco e pure dell’inganno. Buon 2011 a tutti!

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

venerdì 3 dicembre 2010

Grigio: apologia di un colore… insignificante


Discreto ed educato, mai invadente, mai sopra le righe. Lineamenti regolari, espressione asettica, sguardo vitreo. Scivola addosso con nonchalance. Non invade la privacy, non violenta la vista, non tormenta lo spirito, non accende gli animi, non litiga con gli altri colori, non dà fastidio a nessuno. E’ elegante quanto basta, sportivo nei limiti del consentito. E’ adatto a tutte le età, ma tra tutte le stagioni, quella in cui calza più a pennello è l’autunno. Il grigio è un colore democratico, fin troppo. Dalla personalità fluida. E’ il segno del tempo che passa sui capelli, quando diventano brizzolati. Ti strizza l’occhio quando non sai che cosa indossare e che colore abbinare all’ultimo paio di pantaloni acquistato. Ti dà sicurezza, non ti fa sentire mai fuori luogo, però in compenso ti toglie lucentezza e verve.

Ma il grigio è qualcosa di più. Una filosofia dello spirito , una condizione emotiva e mentale, la fotografia dei nostri tempi. E’ … la noia colossale della routine quotidiana, la mancanza di appeal dei gesti ripetitivi e abitudinari, il meccanicismo dell’essere umano alienato dal traffico e dai social network. Il grigio è il colore delle nostre giornate meno appetitose, quelle in cui tutto sembra svolgersi secondo copione. E’ l’incontro tra anime che non s’incontrano mai, ma rincorrono solo se stesse e le proprie ambizioni. E’ il riflesso condizionato del narcisismo sfrenato, l’abitudine tra le lenzuola, il sorriso di circostanza al capo o ai colleghi di lavoro, la stretta di mano forzata, lo sguardo spento e disincantato di chi non è ascoltato e non si sente compreso. E’ il colore dell’asfalto e del cemento, quel cemento che ha infestato le nostre città, è il colore dei sassi che scricchiolano sotto i piedi e fanno male.
Il grigio non è il colore delle passerelle, non è troppo fashion, né troppo retro. Non si schiera, non prende una posizione netta, sta un po’ con tutti e con nessuno, non si affeziona mai più di tanto. E’ il cielo prima di una tempesta. Il mare d’inverno. E’ John Coltrane senza sassofono o Zucchero Sugar Fornaciari senza il suo cappello.
Il grigio è il sapore insipido di un pasticcio di lasagne venuto male. Una donna per nulla appariscente, un libro non troppo interessante. Non è né una sconfitta né una vittoria. E’ di chi non si sporca mai le mani. E’ così, semplicemente grigio. Eppure è ancora lì, con tante cose noiosissime da dire…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 26 novembre 2010

Pierluigi Bersani: fisionomia di un leader mancato da trenta e lode


Ci fa ma non lo è. Un leader in prestito, anzi, in supplenza temporanea, magari al posto di chi proprio non se la sente o non esiste nemmeno. Un leader di un partito invisibile, in stile casual, con tono pacato e lo sguardo imbronciato. Serioso fino in fondo, anzi fino alla noia. Tant’è che alla stregua di un monaco buddista va predicando ogni giorno lavoro, lavoro, più lavoro per tutti. E quando il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini gli dà dello «studente ripetente», criticando la sua scelta di salire sui tetti della Sapienza, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani proprio non la digerisce. E stavolta replica come un vero leader d'avanguardia, al passo coi tempi, sulla bacheca di Facebook, con un link a Flickr, il portale per condividere foto in rete, pubblicando una copia del suo libretto universitario. Una sfilza di 30 o 30 e lode e un solo 28. Voti conseguiti all'Università di Bologna.


«Come promesso, ecco i miei voti del corso di Filosofia, Storia del cristianesimo in cui mi sono laureato con 110 e lode», scrive online il segretario dei democratici. Invitando Mariastella Gelmini a fare la stessa cosa. Tutti 30, in alcuni casi con lode, in materie come Letteratura italiana, Storia romana, Medievale, moderna, del Risorgimento, Storia della Chiesa, Storia del cristianesimo, Antropologia culturale, Storia delle dottrine politiche, Psicologia, Storia della filosofia, della filosofia antica e medievale, Filosofia della storia. Solo un 28, il voto più basso, in Letteratura latina.
Ma se ci fosse stato un voto in capacità carismatiche, la media si sarebbe abbassata senz’altro. Come dire: un vero leader io? Non proprio…

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

sabato 20 novembre 2010

I voli barbarici e pindarici di Maria Luisa Busi



Una corsa a ostacoli, l’intervista di Daria Bignardi a Maria Luisa Busi. La giornalista Rai, ospite delle “Invasioni barbariche”, dopo il divorzio da Augusto Minzolini, che in un battito di ciglia l’ha fatta sparire dal video, e il flop di “Articolo 9” su Raitre, ha dovuto raccontare al pubblico perché tanti anni fa ha scelto la Rai anziché Mediaset e tanto altro ancora. Nel suo libro “Brutte notizie” (Rizzoli, 270 pagg., € 18,00) ne parla ampiamente. In copertina algida e professionale, occhi di ghiaccio e chioma fluente, dalla Bignardi è apparsa assai sulle spine, stretta in un vortice di polemiche che ha elettrizzato i suoi lunghi capelli biondi e scavato due occhiaie impossibili da mascherare anche col più coprente dei fondotinta. Mani tremanti e gesti a scatti, gli occhi piccoli e inquieti si agitano come spille incandescenti. La Busi siede di fronte alla conduttrice e racconta che il Cavaliere in persona, tanti anni fa, con un gesto di galanteria, durante un incontro le mette in mano un po’ d’va e poi le chiese, presente Gianni Letta, di entrare a far parte della grande famiglia Mediaset, visto che cominciava da poco l’avventura del Tg5. Proposta indecente per la giornalista, convinta sostenitrice del servizio pubblico, che invece sceglie mamma Rai e, guarda caso, rivela che da lì a poco sarebbe passata dalla conduzione dell’edizione mattiniera del Tg1 a quella delle 13,30. Al gran rifiuto segue un complimento finale del premier che prima di salutarla le dice: “Peccato, lei è un bel bocconcino, sa?”. Complimento che stravolge la Busi, che ne resta quasi sconvolta.

Poi il racconto continua. La Bignardi legge brani del libro scritto con particolare enfasi e occhio cinematografico. E si arriva alla contestazione dell’Aquila quando, durante un servizio, la gente grida alla giornalistae alla sua troupe “Vergogna!”. La Bignardi chiede: “Secondo te quelle persone avevano ragione?”. Lei risponde senza esitare nemmeno un attimo con un secco “Sì”. La Bignardi approfondisce, affonda il dito nella piaga, vuole arrivare al bandolo della matassa, la famosa lettera “ponderata” di dimissioni che la Busi scrive poi a Minzolini: “Ma perché voi del Tg1 dovevate vergognarvi?”. E lei: “Beh, perché non si davano (e non si danno) più le notizie, non si racconta più il Paese vero, reale, quello dei cassaintegrati, degli operai Fiat che protestano sui tetti, delle donne costrette a togliersi il sangue (il riferimento è al caso dell’infermiera suicidatasi per disperazione)”. La Busi parla in fretta, affoga nello tzunami dell’emotività, mostra un lato di sé molto meno controllato e asettico, parla velocemente, dà chiari segni di nervosismo e agitazione. E precisa: “Io ho sempre rispettato le regole. Mai un abito firmato, macchine, ecc. Di chi lo fa non m’interessa. Io parlo per me”. E si conquista l’applauso.

Non nasconde la sua vena di sinistra anche se dice di non essersi mai esposta più di tanto. Ma ribadisce un concetto: ha scelto la Rai perché credeva profondamente nel ruolo del giornalismo da servizio pubblico.
Fin qui, il riscatto, l’apologia dell’etica professionale, della professionalità allo stato puro.
Che peccato. Alla fine la Busi inciampa e scivola inesorabile su una buccia di banana, parlando di come entra in Rai,
quando si veniva trattati in un certo modo, c’era rispetto per i “grandi maestri”, ogni gesto era permeato di un certo formalismo che lei rimpiange parecchio. “Ebbi un colloquio con Bruno Vespa. Mi chiese perché volevo fare questo mestiere e io senza pensarci troppo gli risposi “perché è l’unico modo per coniugare creatività e impegno civile”. Clamoroso. La risposta le costa l’assunzione immediata, con tanto di contratto a tempo indeterminato e lacrime di gioia.
Beh, francamente, cara Busi, quantomeno a questo non ci crede nessuno.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

domenica 14 novembre 2010

La contessa di Castiglione? Meglio delle escort



Due linee che a un certo punto sembrano quasi incontrarsi, incrociarsi, sovrapporsi e confondersi, ma che poi inesorabilmente divaricano, diventando due linee parallele che invece non s’incontrano mai. Quale potrebbe essere mai il punto d’incontro tra Nadia Macrì o Ruby Rubacuori e le altre e Virginia Oldoini, meglio nota come la contessa di Castiglione? Apparentemente l’uso del proprio corpo. Ma poi di fatto proprio un bel niente.
La riflessione nasce leggendo “Viva l’Italia!”, l’ultimo libro di Aldo Cazzullo edito da Mondadori, una sfilata con, in passerella, le imprese eroiche di un gruppo di partigiane impegnate a “fare l’Italia” . Storie tutte al femminile (da Cristina Trivulzio di Belgioioso, nobilissima lombarda che affascina Hayez e Stendhal ma combatte anche nelle Cinque giornate di Milano a Marianna De Crescenzo, che accoglie Garibaldi a Napoli alla guida di uno squadrone). Insomma storie di donne con gli attributi, come ormai non se ne trovano quasi più.

Ma torniamo a Virginia Oldoini, anzi alla contessa di Castiglione e alle famigerate escort dei nostri giorni. L’una fece tesoro della sua intraprendenza e del suo fascino, forse un po’ imbarazzanti perfino agli occhi del cugino Cavour che non esitò neppure un attimo a mandarla in “missione” da Napoleone III per questioni più nobili (perorare la causa dell’alleanza franco-piemontese). Le altre fanno tesoro della propria bellezza per un pacchetto di soldi, pillole di notorietà e fango mediatico.
Così dalla “statua di carne” (così era soprannominata la contessa) a carne da macello il passo è breve. E la prospettiva decisamente cambia. La moderna e intelligente spregiudicatezza della contessa le costerà una lussuosissima ospitata a Compiègne, mondanissima, costosissima. Magico luogo dove la contessa fu per un anno l'amante pressoché ufficiale dell'imperatore, suscitando invidie, grande scandalo e la furia della cattolicissima imperatrice Eugenia. Tanto che la rivalità giunse al punto che, essendo stato l'imperatore oggetto di un attentato nella casa della contessa in Rue Montaigne, si disse che si fosse trattato di una messinscena orchestrata dall'imperatrice stessa per danneggiare la rivale. Nel caso delle escort, solo stralci di dignità calpestata sotto tacchi dodici delle scarpe di raso col plateau.

E se l'intrigo tra la contessa e Napoleone III fruttò l'appoggio francese alla partecipazione italiana alla Guerra di Crimea, gli inciuci tra i nostri politici e le varie D’Addario fruttano solo punti in meno a qualche partito nei sondaggi e la conferma che ci si vende per poco. Ma le favole belle non hanno sempre un lieto fine. A un certo punto iniziò la parabola discendente della contessa, il marito chiese ed ottenne il divorzio e morì infine in un incidente, Vittorio Emanuele, divenuto re d'Italia, non fu poi così generoso e la vita dispendiosa della Castiglione si fece sempre più difficile. Anche dal ritorno in Francia non ricavò granché. Si stabilì a Parigi, in un ammezzato di Place Vendôme, chiudendosi nel lutto per la propria bellezza in disfacimento, rifiutando perfino proposte di nuovi e ricchi matrimoni. E morì nella sua casa di Rue Cambon 14, dove era stata costretta a trasferirsi dopo essere stata sfrattata, nel 1893 dal suo prestigioso appartamento acquistato dal gioielliere Boucheron.
E per le escort? Finale in bianco e nero. Anzi, in grigio pallido. Meteore dell’universo del fashion. Nessuno le ricorderà di certo nei libri di storia. A stento qualcuno le ritroverà tra le pagine accartocciate di qualche giornale vecchio e polveroso, ormai sostituito dall’iPad. La causa non era poi così tanto nobile. Delle suites lussuose, dei gioielli, dei vestiti griffati, non resterà nulla. Ma la cosa più triste è che non resteranno i loro nomi, le loro facce, il loro sguardo ammiccante, le loro pose forzatamente sexy, la loro ambizione malata e quel sorriso di plastica. Almeno di Virginia Oldoini se ne parlerà sempre.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

domenica 24 ottobre 2010

Grande Fratello: lo specchio di che?...


Dieci più uno fa undici. Anzi, Gf 11. L’edizione di quest’anno del reality dei reality, dominatore assoluto di mezzo anno di palinsesto della rete ammiraglia Mediaset colpisce ma non affonda. Ancora una volta i concorrenti nuotano come pesci in un frullatore mediatico abboccando più o meno ingenuamente all’amo di autori sempre meno spregiudicati. Si sfiorano tra quattro mura domestiche assai ben arredate, scodinzolano disinvolti tra velluti e cristalli, miagolano, strizzano l’ occhio assetato anche di un solo momento di gloria alle telecamere piazzate dovunque, anche quando vanno in bagno. E puntualmente, all’inizio del viaggio televisivo nella casa più spiata d’Italia, dalle colonne dei giornali e dai dibattiti tv si sfodera dal cilindro ogni moralistica citazione. “Il Gf è lo specchio dei tempi”. “Il Gf è una finestra sul mondo”. Alt. Questo è lo slogan del Tg1 targato Minzolini. A ciascuno il suo, direbbe Sciascia. Ma non scomodiamolo per questo, ovvio. Qui si vola basso. Diciamo pure dall’ombelico in giù. Appena un paio di settimane in onda e già i primi baci, i primi flirt, le prime menate. Fin qui, tutto regolare. Tutto da specchio dei tempi. Speriamo solo che con qualche cazzotto non si ammazzino come i fatti di cronaca ci raccontano, magari simulando una lite in metropolitana.

Eppure in questo quadro qualcosa che non quadra c’è. Due più due non fa quattro. Uno dei concorrenti, Andrea Cocco, viveva a Hong Kong, tra le altre cose faceva anche il modello e ha già girato mezzo mondo. Un altro concorrente, David Lyoen, di madre barese e padre franco-olandese, è vissuto in Australia, parla cinque lingue e fa il funzionario al ministero degli Esteri francese. Nora Silvestri è nata in Congo, parla quattro lingue ed è una ballerina. Insomma, mica male i concorrenti del Gf. Mica presi dalla strada, come si dice. Mica poveri sprovveduti morti di fama. E poi tutti rigorosamente belli, alti, muscolosi, tonici, insomma fighi. Beh, se vi capita di incontrare tipi simili per strada, magari alla fermata dell’autobus mentre andate al lavoro e siete ancora mezzi assonnati, fateci caso. Potreste sempre segnalarli per i casting della prossima edizione. Se invece vi accorgete (cosa assai più probabile) che la gente che incrociate per strada tutti i santi giorni ad ogni ora non corrisponde esattamente a queste caratteristiche, allora fatevi sotto nella smentita della solita panzana: il Gf è lo specchio dei tempi. Sì, certo, lo sarà pure. Magari dopo ore di palestra, mesi di incontri con i migliori look maker in circolazione e qualche puntatina da un bravo chirurgo estetico.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 16 ottobre 2010

Su “Chi” Carlo Rossella prende i lettori per il c…uore


Filosofia spicciola per cuori non troppo infranti di fedifraghi incalliti. Lui è Carlo Rossella, presidente della Medusa, ex direttore del Tg5 e di Panorama. Da vero arbiter elegantiarum, come Tacito definì il Petronio del Satyricon, con un’aura di antiromanticismo allo stato puro, nella sua rubrica di posta ogni settimana su "Chi", il settimanale diretto da Alfonso Signorini, dispensa ai suoi lettori, con garbo e non troppi giri di parole, consigli su come arginare le difficoltà, evitare spiacevoli impicci, cavarsela sempre e comunque anche quando la marachella sta per venire a galla. E così una passerella preoccupante di uomini colpevoli e reo confessi si confida col buon Carlo, viveur di professione, su come tenere ben nascosti tradimenti vari ed eventuali. C’è chi non sa proprio come fare per un sms mandato all’amante e letto dalla moglie (“Mai scrivere messaggi alle proprie amanti”), c’è chi non sa come dichiararsi a una donna bellissima conosciuta in un’esclusiva località turistica, c’è chi non sa come scrollarsi via di dosso il peso insostenibile di un imminente matrimonio. In comune hanno tutti una insostenibile leggerezza dell’essere, ispirata – manco a dirlo - dal caro Rossella che puntualmente si abbandona, nelle consuete risposte brevi ma intense, a boutade a metà tra lo humour inglese e un realismo da brivido. E a un lettore disperato per le tasche non troppo piene, che lamenta il listino salato dei locali milanesi dove portare le sue donzelle, Rossella se ne esce con un consiglio praticissimo: “Portalo a cena da mammà. E’ l’unico posto che mi viene in mente dove si spende poco”. Godersela fino in fondo, con disinvoltura e niente sensi di colpa. Tanto ogni lasciata è persa. E’ questo il tacito accordo tra Rossella e i suoi lettori. Del resto il buon Carlo, dall’alto della sua esperienza, lo sa bene. Quindi… a buon intenditor poche parole . E tante piacevoli liaison. A patto che siano non troppo strette.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

martedì 28 settembre 2010

Mentana non fa sognare


Femminilità zero. Niente fiocchi rosa, servizi sul mondo del fashion, trastulli femminili, nuove frontiere del fitness, le tendenze delle ultime sfilate, riflettori puntati sulle agghindate passerelle della Milano alla moda. Per il Tg di Enrico Mentana su La7 non c’è posto per materiale usa e getta, riempi pista trascendentali, arrampicate sugli specchi. Insomma, per le cosiddette “stronzate”, come le definisce lui stesso, il terzo lato del triangolo (isoscele, ovvero con due lati uguali) dell’informazione. Tra la frivolezza annacquata del Tg1 e Tg5, Mentana rappresenta il serio. Il faceto lo ha lasciato agli altri, a quelli sotto padrone. Lui, al momento sottopagato (un contratto, il suo, di appena 350 mila euro lordi l’anno ma destinato a raddoppiare, dato il risultato degli ascolti, con punte del 10 per cento di share) preferisce parlare di problemi veri.

Scelta in controtendenza anche per la conduzione: niente mezzibusti in odore di veline, ma solo brave giornaliste non troppo appariscenti. Il Tg di Mentana insomma non fa spettacolo. Zero sfilate ma anche zero concerti, zero presentazioni di libri, zero show-biz. E, naturalmente, zero gossip. Solo iniezioni letali di politica raccontata per filo e per segno senza fraintendimenti, furberie e ambiguità. Chiarezza e imparzialità sono il suo mantra, recitato ogni mattina a partire dalle sei, l’ora in cui Mentana già comincia a leggere le agenzie.

Serietà, dunque. Ma seriosità, per favore, no. Il rischio di scivolare nella trappola del “secchione” che spiega i fatti più importanti della giornata, ma non lascia sognare, respirare, svolazzare il pubblico neppure per un secondo c’è. E siccome nella melassa maleodorante delle cattive notizie si rischia di sprofondare, sarebbe bello dedicare almeno cinque minuti alla frivolezza. Perché c’è tanto bisogno di sognare, di ridere, di progettare un week end a teatro o magari in concerto. Cinque minuti, non di più. Al massimo sette. Che nulla toglierebbero alla serietà del tg in toto. Anche sognando, s’impara. Ma soprattutto si sopravvive.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

giovedì 23 settembre 2010

Il savoir faire della Venier


Si muove poco, gesticola quasi per niente. Sorriso rassicurante e onori di casa degni del salotto mondano di madame de Stael in rue du Bac. Mara Venier alla conduzione de “La vita in diretta”, il contenitore pomeridiano di Raiuno, è riuscita a rendere a Lamberto Sposini il polpettone della conduzione a due meno indigesto. Tant’è che dopo il vivace scambio di idee sul dialetto (Mara aveva invitato l’irremovibile Sposini a parlare con Miss Italia in dialetto umbro e aveva rivendicato il suo amore per il dialetto, affermazione condita con qualche tipica sua solita espressione veneta), adesso quando si trovano insieme, lei non fa altro che mostrarsi cortese, discreta, mai invadente. “Lamberto vuoi parlare?”, “Lamberto che ne pensi?”, “Lamberto, non parli?”.

Gambe accavallate, tailleur di raso lucidi, make up leggero, tono di voce pacato, l’ex signora della domenica passa, senza troppi intellettualismi, con disinvoltura da un argomento di conversazione all’altro. Dalla chirurgia estetica ai quarant’anni, dall’eredità della compianta amica Sandra (Mondaini) alle manie Vip del mondo dello spettacolo. A Sposini tocca invece occuparsi delle rogne della vita quotidiana, dei piccoli-grandi drammi della società civile, delle seccature del mondo reale, e non patinato.
La coppia di conduttori sembra andare d’amore e d’accordo. Rispetto reciproco degli spazi di ciascuno, rapide incursioni ma senza disturbare troppo, armonia e un buon feeling.

Del resto Mara, donna navigata ed esperta, non poteva non sapere che a Sposini è cosa assai gradita non voler comandare troppo, andare oltre il limite consentito, scavalcare l’altro. Pena l’assestamento secco e diretto di una spietata battuta al vetriolo. Come quando non gli va giù l’osservazione, a suo dire fuori luogo, di qualche malcapitato ospite. E allora viva la diplomazia, la cortesia, il savoir faire della Venier. Che servirà a consolare Sposini dall’aver perso il ruolo da protagonista. E si spera pure a guadagnare qualche punto in più di share, visto che il programma ancora non decolla.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 9 settembre 2010

La rivincita di Elisabetta Tulliani


L’appuntamento è a Mirabello. Come ogni anno. Nel paese rosso del ferrarese dove nel Novecento si presero a scazzottate i fascisti e i non. Proprio lì, nel ritrovato covo dei camerati più nostalgici e sentimentali, dal pulpito, il presidente della Camera Gianfranco Fini ufficializza la rottura di quel vaso di coccio del Popolo della libertà. Allora? Nulla di nuovo sotto il cielo pidiellino. Lo si sapeva da tempo. Semmai Mirabello rivela a tutti qualche altra cosa. Nella platea, in prima fila Elisabetta Tulliani, la compagna di Fini, mestamente seduta, si prende una bella rivincita. Tutto merito del suo compagno. Un bacio lanciato dal palco, la strenua difesa della sua famiglia, teneri sguardi d’intesa, e poi un caloroso brindisi insieme, una cena casereccia e una manciata di carezze e parole sussurrate all’orecchio. Insomma, in poche parole una rinnovata e più che mai appassionata dichiarazione d’amore.

Una bella rivincita personale, appunto, per l’ex di Luciano Gaucci
, bollata per tutta l’estate dai giornali filo berlusconiani come cinica e calcolatrice, faccendiera dei cattivi sentimenti, lapidata come la Maddalena, esposta al pubblico ludibrio di un’Italia falsamente moralista e bacchettona. Lei che, bionda e appariscente, almeno quanto, a detta dei giornali, ambiziosa e arrivista, si era impossessata di una parte consistente del patrimonio di Gaucci, aveva fatto sonori investimenti, collezionato inviti nei salotti che contano, finché non aveva trovato la giusta preda, e aveva finalmente potuto insinuarsi come un cobra - a detta di Vittorio Sgarbi - nella mente di un debole come Fini.
Ma lei tira dritto, minaccia appena qualche querela, in pubblico non si scompone più di tanto. Armi affilate, doti nascoste, ars amandi degna della catulliana Lesbia, la Tulliani esce vittoriosa dal fastidioso impiccio. Investita da un pericoloso vortice mediatico, se l'è cavata più che bene, dando a tutti l'unica risposta che c'era da dare: il suo rapporto con Gianfranco Fini non solo non è stato minimamente scalfito, ma la loro unione appare più forte di prima. E lei sembra aver ritrovato quella fierezza nel volto che caratterizza la sua espressione più sicura e decisa. Se poi le ministre Gelmini, Prestigiacomo e forse un po’ anche la Carfagna dalle pagine del settimanale “A” di Maria Latella si uniscono alla schiera dei pubblici accusatori, chissenefrega. Ma sì, Eli ha in tasca la carta vincente. Quella della regina di cuori. E a tutti gli altri un bel due di picche. Finché dura…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 31 agosto 2010

Gheddafi showman indigna la Meloni


The day after. All’indomani delle stravaganze di Muammar Gheddafi, che puntualmente in ogni sua visita in Italia sfodera dal cilindro un paio di numeri da showman navigato (il riferimento è all'incontro con alcune ragazze italiane e l'invito a convertirsi all'Islam e all' affermazione "le donne da noi vengono trattate meglio"), interviene il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, nel ruolo di paladina della femminilità italiana oltraggiata. Sberleffi a destra e a manca, dunque, per le ragazze made in Italy, cresciute col mito di Paris Hilton ma concentrate a spremersi le meningi in corsi universitari e master postlaureaMa la Meloni le difende a spada tratta. E dalle colonne del quotidiano torinese “La Stampa”, esterna un “certo fastidio” per il fatto che il leader libico “si rivolga alle ragazze italiane e non a tutti, come sarebbe normale". Poi "una divertita curiosità per la stravaganza dei suoi atteggiamenti, ogni qualvolta viene a trovarci".

Infine però corregge il tiro per evitare sconvenienti gatte da pelare e tiene a precisare: “c'è il rispetto dovuto nei confronti del presidente di una nazione grande e nobile con cui è importante avere i migliori rapporti possibili". E sottolinea l'importanza delle relazioni tra Italia e Libia "per la nostra storia comune, per gli scambi commerciali, per la questione immigratoria, per quella dei beni confiscati agli italiani, per la distensione delle tensioni interreligiose".
Ma Gheddafi se ne infischia. E oggi si prepara a concludere la sua visita “d’affari” col premier Silvio Berlusconi con qualche altra simpatica boutade. Divertendosi a indignare il mondo politico, o forse l’opinione pubblica, o (cosa assai più probabile) tutti quei nani da giardino che si arrampicano sugli specchi perché non hanno i mezzi per poter concludere affari del genere.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

domenica 18 luglio 2010

Estate 2010: l'estate del gambero



Un film già visto, una canzone già suonata, una posa conosciuta, una scena già girata. L’estate 2010 è retrò. Nel look delle top model in passerella, che sfoggiano austeri chignon, acconciature alla Audrey Hepburn di “Colazione da Tiffany”, negli spot pubblicitari, dove spadroneggia il bianco bikini di Ursula Andress in “Agente 007 – Licenza di uccidere”, scimmiottata con estrema disinvoltura da Belen Rodriguez. Corpi sinuosi fasciati da intramontabili tubini neri e lingerie da armadio della nonna, con pizzi color panna e fiocchetti sui reggiseni push up.
Estate retrò anche in musica con le hit degli anni Sessanta remixate dai dj più trendy del momento. Così, tra una nuotata e l’altra, anche in spiaggia si può saltare fino al mattino al ritmo sfrenato di “Tu vuo fa l’americano”, ultimo singolo lanciato da radio Ibiza che riprende la notissima canzone di Renato Carosone, affiancata dall’intramontabile “Azzurro” di Adriano Celentano.
Senza contare poi la solita girandola storica di spezzoni televisivi del grande varietà nel “Da da da”, in onda su Raiuno dopo il tg delle 20.

Evviva dunque il passato, seppur prossimo. Scappatoia facile, rifugio rassicurante per poter dire, prove alla mano, meglio prima che adesso. La corsa del gambero diventa così l’unico rimedio per non fissare troppo lo sguardo sui mali del nostro presente, non affondare troppo il dito nella piaga, non pensare.
Mettersi in standby per un po’, rispolverare gli archivi, riesumare i cadaveri è la cosa migliore. Con nostalgia, tristezza? Macché. E’ invece una gran gioia. Pur di staccare momentaneamente la spina su un presente deprimente. Perfino i progressisti veri quest’estate scivoleranno su questa buccia di banana. Magari con un iPhone 4 difettoso tra le mani.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

domenica 11 luglio 2010

Elisabetta Canalis, tu vuo’ fa’ l’americana

Sarebbe dovuta svanire come un miraggio nel deserto, dissolversi come polvere al vento. E invece… Eccola qua. Anzi, ancora qua, più paparazzata di prima. La love story tra George Clooney ed Elisabetta Canalis è a prova di gossip, maldicenze, cattiverie, illazioni, e quant’altro serva a fare rumore. Un assordante rumore mediatico. Come quello dei fuochi d’artificio il 4 luglio per festeggiare l’indipendenza americana ma soprattutto il primo anno insieme. In barca c’erano alcuni amici: Uma Thurman con il compagno Arpad Busson e l'attrice Emily Blunt insieme a John Krasinski. O del mega raduno a Villa Oleandra con le amiche più care. Una tra tutte, l’ex collega velina Maddalena Corvaglia. L’aperitivo sul motoscafo non ha prezzo.
Insomma la liaison tra i due ha osato sopravvivere per un anno intero. Nell'universo della panna montata dello showbiz è la ciliegina sulla torta. Appena 12 mesi fa le copertine di "Chi" annunciavano a sopresa che il divo di Hollywood e l’ex velina di Striscia sfrecciavano insieme in moto scambiandosi teneri sguardi. Si levò subito uno stupore generale.
Da allora la Canalis, da bella statuina, lo ha accompagnato dovunque. Lui, da bravo gentleman, le ha concesso una partecipazione come guest star nel serial “Leverage”. Ma non è riuscito a evitarle le critiche per aver recitato un po’ maluccio.
"Secondo me è bello vivere l'America da italiani, con la nostra apertura mentale e le nostre tradizioni”, ha detto la Canalis in una recente intervista. “Stare con George mi ha reso più sicura”. Le servirà a perseverare nel voler fare a tutti i costi l’attrice. Specie dopo le pesanti stroncature apparse sul web ("E' totalmente incapace di recitare" si legge su Laineygossip mentre un altro sito riporta: "Elisabetta Canalis è tremenda in maniera scioccante”).

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 8 luglio 2010

Mistero Twilight: perché gi orridi vampiri piacciono così tanto?

Un brivido corre lungo la schiena. Il sangue si raggela. La carnagione si fa vitrea, il sudore freddo. Il “normale” effetto che fanno i vampiri, anche sul grande schermo, dovrebbe essere questo. Ma Twilight, la saga vampiresca più seguita al mondo, è l’eccezione che non conferma la regola. I vampiri appassionano, ipnotizzano, ammaliano. Il terzo capitolo dal titolo Eclipse, attualmente nelle sale italiane, sta bissando il successo di New Moon, il capitolo precedente. E già si pensa al capitolo n. 4. Della serie: il gusto dell’orrido continua. E si diffonde a macchia d’olio nell’immaginario a tinte forti di milioni di fan, coinvolgendo inevitabilmente siti internet e social network. Un vero delirio. Twilight organizza grandi eventi sul web. Ve la ricordate su My Space la diretta streaming del red carpet in occasione della prima, quando Robert Pattinson, Kristen Stewart e Taylor Lautner erano davvero a portata di tutti? Un totale di 2.500.000 utenti ha invaso lo spazio myspace dedicato, 1.200.000 visitatori unici registrati hanno inoltre potuto interagire nel canale. Il tempo di connessione medio è stato di 32 minuti per utente.
Ma che gusto si prova a osannare così tanto simili creature, cedere parte del proprio tempo alla vampiro-visione? Di certo una forma di evasione impacchettata da perfide operazioni di marketing aiuta a confezionare il prodotto e a presentarlo al pubblico nel migliore dei modi. Ma l’attrazione vampiresca è anche un segno dei tempi: l’orrido entra a pieno nella quotidianità.
L’equazione semplicità uguale demenza si fa sempre più frequente. Meglio gli effetti speciali, anche a discapito di una trama che faccia davvero emozionare (vedi il caso di Avatar).
Meglio avere davanti un mix letale di romanticismo e horror, lacrime e sangue, tormenti foscoliani e avventure fantastiche che però garantisca una fuga in piena regola dall’assordante palude quotidiana, un sasso nello stagno delle emozioni infiocchettate da cinema. La Eagle Pictures ci sa fare. Il triangolo amoroso resta la colonna portante della trama, ma lascia sempre più spazio a velocità, ritmo, natura selvaggia e incontaminata, location da sogno. Un’ora e ventiquattro minuti di adrenalina pura. I vampiri sono da sogno. Poi, finito il film, ci si rituffa nel vapore acqueo di una realtà più che da sogno, da vero incubo.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 30 giugno 2010

Ciao Pietro, eroe dei nostri tempi

Se n’è andato da eroe Pietro Taricone, o’ guerriero, il volto e l’anima del “Grande Fratello”. Lui che coi suoi occhi verdi e intensi e un sorriso cavallino aveva fatto dell’esibizionismo eccentrico ed esasperato da reality il suo orgoglio e la sua forza. Lui che non si vergognava affatto di mostrare a tutti la sfrenata ambizione, il narcisismo, la voglia di notorietà, il desiderio di successo, la noia della provincia, lo spirito d'avventura. Lui che dieci anni fa, a 25 anni, appena arrivato da Caserta nella casa del Gf, nella prima edizione del programma allora rivelazione, piombato nel palinsesto di Canale 5 con un immediato effetto boomerang su audience e opinione pubblica, sognava Hollywood ma nel frattempo dedicava al suo pubblico lunghi confessionali in cui in modo schietto e diretto discettava sul gallismo di stampo meridionalista, rivisitava il Bell’Antonio di Vitaliano Brancati, il machismo sentimentale del III millennio, animava le strategie di gioco con estrema disinvoltura, un po’ bullo un po’ intellettuale improvvisato. Ma sempre con quel disincanto proprio delle persone intelligenti.
Nel tritacarne televisivo era riuscito a sopravvivere, cercando in tutti i modi di smarcarsi dalla figura ingombrante del Taricone personaggio da reality ma lasciando, senza neppure accorgersene troppo, in quel reality un’impronta talmente forte da creare una fisionomia e un carattere a cui tutti i concorrenti successivi hanno cercato di ispirarsi ma nessuno c’è riuscito davvero.
E a poco a poco ci stava riuscendo, a ritagliarsi un ruolo tutto suo, a farsi largo come attore. Nel cinema, grazie a una sua partecipazione al film di Gabriele Muccino “Ricordati di me” e soprattutto con la fiction: La nuova squadra, Don Gnocchi-l’angelo dei bimbi, Distretto di polizia, Radio West, Maradona-la mano de Dios. L’ultima sua apparizione televisiva risale a qualche mese fa, nella serie di successo Tutti pazzi per amore 2, andata in onda su Raiuno.

Pietro ammava lanciarsi col paracadute. E uno dei suoi 400 lanci gli è costato la vita. Morire nel giorno dell’onomastico, a 35 anni, farà di lui in questa mediocrità esasperante un mito per tanti. Per tutti quelli che avrebbero voglia di essere baciati dalla fortuna, di essere travolti da un’esplosione mediatica come la sua, che se non hai cervello può esserti fatale, di arrivare alla ribalta e capire che più che farti usare devi essere tu a saper usare i mezzi giusti per sopravvivere a chi vuole snobbarti, ghettizzarti, strumentalizzarti, distruggerti. E Pietro i mezzi giusti ce li aveva. Intelligenza e una buona capacità critica, ironia e quel sano distacco dalle cose. E poi tanta determinazione e coraggio. Lo stesso coraggio che lo ha spinto a lanciarsi ancora una volta, per l’ultima volta, dal suo amato paracadute.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

venerdì 25 giugno 2010

E dopo la sconfitta ai Mondiali, la Nazionale va a Prandelli

Si volta pagina. Dopo la sconfitta, si pensa al futuro. Si guarda oltre Shakira e i suoi roteamenti subinguinali. Oltre waka waka e le vane geometrie di Andrea Pirlo. Oltre il calcio italiano, dove i fenomeni sono ormai solo un lontano ricordo, oltre le file impoverirte dei club. E oltre Marcello Lippi, uscito perdente e pentito (impossibile con una squadra così bissare la vittoria di quattro anni fa), in ginocchio dinanzi ai tifosi che ancora ci credevano e alla federazione con un mea culpa doveroso e senza mezzi termini. “E' dipeso da me”, aveva detto alla conferenza stampa. Peccato che lui la sconfitta con la Slovacchia l’abbia attribuita esclusivamente a un crollo psicologico, a una paura immobilizzante che ha quasi atrofizzato i muscoli degli azzurri. Mica alla mancanza di qualità del nostro calcio o a qualche assenza di troppo.

Ma ormai il dado è tratto. Con due pareggi e una sconfitta l’Italia ha toccato il fondo col peggiore risultato nella storia delle sue partecipazioni al Mondiale e se torna a casa con la coda tra le gambe. Ora oltre Marcello Lippi c’è Cesare Prandelli. Come suggerisce Cannavaro bisogna guardare avanti. Ci si aspetta molto dal nuovo allenatore. Soprattutto un rinnovamento vero. Altre facce, facce nuove. Un gioco più aggressivo, maggiore personalità. E soprattutto i risultati. E poco importa se Alex Del Piero anziché lanciare un paio di assist continuerà a bere l’acqua della salute con la sua migliore amica, la statuaria Cristina Chiabotto. O se Francesco Totti sarà impegnato a leggere con attenzione il libretto delle istruzioni del suo nuovo smartphone, Antonio Cassano si godrà più a lungo la luna di miele e Mario Balotelli potrà ancora farsi fotografare con la bionda pseudofidanzata del “trota” Renzo Bossi. Ciò che importa davvero è rialzarsi dopo una caduta già annunciata, anche senza letture trascendentali. Era bastato infatti stare qualche minuto davanti allo schermo già quando abbiamo giocato contro il Paraguay e la Nuova Zelanda per capire che stavolta non c’era storia. Grandi assenti: personalità e gioco.

Bene intenzionato sul fronte di una immediata ripresa è anche Giancarlo Abete. "Non vedo il legame tra la nomina di Marcello Lippi e le mie dimissioni", ha detto oggi il presidente della federcalcio, che ha aggiunto: "Farò tutto quello che è utile per il calcio italiano come penso di aver fatto, sbagliando anche alcune volte, ma in buona fede. Non sono persona legata alla logica della poltrona. Rispondo con serenità in primis alla mia coscienza, alla base che mi ha eletto e alla responsabilità di far ripartire il sistema calcio. Se il problema delle dimissioni è legato alla scelta di Lippi, non si pone perchè l'individuazione del commissario tecnico è una scelta legittima del presidente federale". Che ci sarà al posto del tridente dell’iracondo Nettuno (Lippi nella partita della disfatta ha schierato un 4-3-3)? Prandelli è tipo da 4-2-3-1. E stavolta la combinazione fa ben sperare per la nuova stagione azzurra. Almeno fin qui, tutto fila liscio come l’olio. Gigi Buffon si prenderà il tempo necessario per operarsi e poi rimettersi in sesto. Manca solo l’ingrediente principale: i giocatori. Bisogna accarezzare i sogni, ma soprattutto fare in modo che si avverino. Anche senza materia prima?...

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

domenica 13 giugno 2010

Zaia contro l'inno di Mameli. Lo show estivo antitaliano della Lega è appena iniziato

E’ tempo d’estate, è tempo di panzane leghiste sparate a raffica sulla canicola estiva. Quasi un appuntamento scaramantico. Esattamente come un anno fa, quando sempre loro, le camicie verdi temutissime dagli alleati in casa Pdl, gioco-forza, lanciavano un giorno sì e l'altro pure, per bocca dei loro più accaniti tiratori scelti, Calderoli in testa, dictat, progetti, idee scabrose per un ' Italia dal sapore dissolto, formalmente unita ma in realtà più che mai frammentata. E quest’estate a fare da apripista alle dichiarazioni choc e pochissimo chic ci ha pensato Luca Zaia, il governatore del Veneto, in occasione dell’inaugurazione di una scuola nel trevigiano. “Vi prego, cantatemi ‘Va’ pensiero’ anziché l’Inno di Mameli”. Come volevasi dimostrare, i leghisti sono allergici non soltanto ai loro alleati della coalizione di centrodestra, ma anche e soprattutto all’idea obsoleta e raccapricciante di un’Italia unita. Ancora questa vecchissima storia? Ancora la retorica di un Paese unito? Lasciamo perdere e mettiamoci Nino Bixio, le cinque giornate di Milano alle spalle. E il canto degli italiani, simbolo della nostra Repubblica, il nostro inno nazionale composto nel 1847 con tanta solerzia da Goffredo Mameli, pure.

Ma spesso i leghisti fanno i conti senza l’oste. E allora il ministro della difesa Ignazio La Russa è sceso subito in campo, per fare da contrappeso, o meglio, metterci una pezza, ritenendo quanto accaduto: “un fatto grave, se fosse vero”. E “Farefuturo” ha già definito le dichiarazioni di Zaia “l’ultima sparata”. Ma niente critiche, annuncia il magazine della fondazione finiana, “è inutile fare il gioco del Carroccio”.
Peccato che tutto sia stato rigorosamente smentito poco dopo, facendo passare “La tribuna del Veneto” quasi come “Il vernacoliere”. "L'Inno di Mameli - si è difeso il governatore del Veneto - è stato regolarmente cantato dal coro al momento del taglio del nastro. Credo che queste precisazioni siano utili per chiudere definitivamente una polemica che non aveva e non ha ragion d'essere".

Puntuale come un orologio svizzero, è partita la girandola delle polemiche. Una su tutte, quella del ministro per le Politiche dell’Ue Andrea Ronchi, anche lui come La Russa un ex An, che non ha esitato a gelare Zaia: “Aver deciso che l'Inno di Mameli fosse suonato senza la presenza delle autorità è un oltraggio alla nazione italiana".
Ma siamo solo all'inizio. L'estate è appena cominciata. E i leghisti, con buona pace degli alleati, avranno tutto il tempo di surriscaldarla con altre dichiarazioni antipatriottiche, antimeridionalistiche, anticostituzionali e perfino un bel po’ antiquate.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

martedì 8 giugno 2010

Aridatece Paolini, l'elfo raggiante dei tiggì

La domanda è di quelle che bruciano più dell’asfalto incandescente d’estate, trapanano la mente, angosciano l’esistenza. Che cosa sarà il nuovo Tg1 senza più Gabriele Paolini? Meravigliosa creatura, elfo raggelante a caccia di scoop, sfrontatezza e malcostume insieme, faccia da “lato b”, con quell’espressione irriverente e scettica. Il molestatore doc dovrà rassegnarsi, almeno per il momento. Niente più blitz, incursioni moleste, apparizioni fugaci durante i servizi in diretta dei vari tg. Per lui è stato confermato anche dal tribunale del riesame un bel divieto di dimora a Roma.

Paolini e’ indagato per interruzione di pubblico servizio e violenza privata dopo l’ennesimo episodio nei confronti di una giornalista e della troupe del Tg3 avvenuto ad aprile. E ora, con un bagaglio di oltre 1000 querele e vari guai giudiziari sulle spalle, l’arlecchino dellla tv dovrà astenersi dal rompere le uova nel paniere ai giornalisti, dal macchiare un’informazione impeccabile e perfetta, confezionata ad arte per raccontare ciò che si deve. Ma ora che ne sarà di lui? Andrà in spiaggia a vendere bijoux? Di certo non se lo chiederà il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, impegnato proprio in questi giorni con tutto il suo staff, compresa la giovane e scattante redazione multimediale, a ridare scenografia, dinamismo, tinnovazione tecnologica e lustro all’informazione del tiggì più seguito d’Italia. Eppure piacevano quelle incursioni traumatiche, da far tremare le vene ai polsi, sollevare le più infauste ire. Quegli interventi così tanto molesti contro ogni deontologia professionale. E piacevano anche se dettate dal solo voler apparire. Se non altro perché restituivano un po’ di linfa reale ad una situazione costruita, finta, ipocritamente impeccabile, quella appunto dell’inviato pronto a fare il suo resoconto, ma solo dopo aver seguito attentamente le istruzioni.

Piaceva Paolini perché era insopportabile, imprevedibile, inutile in un contesto dove tutto deve filare liscio come l’olio. Era la ruggine che inceppava l’ingranaggio, in fondo la voce di un disperato come tanti in cerca di qualcosa di meglio. Caro Paolini, dovunque tu andrai, ti penseremo. Ogni volta che si accenderà la lucina rossa della telecamera e il giornalista attaccherà la sua ramanzina carina, il nostro pensiero volerà a te, ai tuoi condom, alle tue sbavate interruzioni. All’ unico momento umoristico che ci regalavi, nella selva di un’informazione imbellettata col frack.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 3 giugno 2010

Claudia Schiffer si fa nera

Michael Jackson avrebbe detto no. Lui da nero si è fatto bianco. Invece lei, Claudia Schiffer, la super top tedesca dai tratti algidi e rassicuranti, si fa nera. Per l’esattezza afro doc. Capello crespo, colorito deciso, anche se sul candido pallore del suo incarnato al cioccolato non si arriva. Al massimo latte e caffè.
La nuova Angela Devis si risveglia così, posando in versione black people su oltre 700 copertine internazionali. Muta il sembiante ma l’anima resta la stessa. Da vent'anni sgusciata ad arte dal vellutato obiettivo di Karl Lagerfeld. L’anniversario merita una certa attenzione. E allora la rivista tedesca di foto e stile “Stern Fotografie” pubblica una cover della supermodella. Ma nell’era del presidente americano total black, la trovata lagerfeldiana potrebbe leggersi come un contributo del mondo modaiolo e fashion a mettere nero su bianco l’orgoglio afro o più semplicemente si tratta di un’abile trovata pubblicitaria? Se così fosse, il turbolento Huffington Post, blog statunitense creato nel 2005 da Arianna Huffington, nonché uno dei siti più seguiti al mondo, ha già preparato terreno fertile all'eventuale polemica. Infatti si sta già chiedendo se poi sarebbe davvero così tanto immorale che una bianca si camuffi da nera. Piacerà a lady Obama, che ha da tempo rinnegato il suo crespo crine per un liscio morbido e setoso decisamente da bianca?
Al di là dei possibili apprezzamenti, la Schiffer ha dimostrato comunque di sapersi mettere in gioco quanto a look e immagine. Anche a rischio di apparire, così abbronzata, un po’ meno bella…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 2 giugno 2010

Con Diaco e Luzi a Unomattina la vis polemica si fa mattutina

Cambio di guardia a Unomattina. Il duetto corretto e cortese formato da Eleonora Daniele e Michele Cucuzza da qualche giorno ha passato il testimone agli alternativi innovativi Georgia Luzi e Pierluigi Diaco. Scelta coraggiosa per mamma Rai, in perfetta linea con la politica del dire e mai del fare che parla tanto di lifting, restyling e di rinnovamento di contenuti e conducenti. Per la versione estiva del programma, ecco la coppia dell’estate, che si giocherà la carta del contenitore mattutino più amato dagli italiani. Lei bionda, occhi azzurri, viene da Rai Sat, dove ha condotto per anni “Giga”, un programma per ragazzi e da varie partecipazioni a serie televisive, sempre per la Rai (Don Matteo, Carabinieri, Incantesimo). Lui, imprevedibile e irriverente, è stato l’enfant prodige del giornalismo italiano degli ultimi anni. Ha debuttato su Tmc alla tenera età di 18 anni, conducendo Tmc giovani. Poi si è dedicato al giornalismo politico e alla radio. E ora ritorna all’intrattenimento e, dopo 11 anni, ritorna in Rai (l’ultimo programma, Maglioni marroni, risale al ’99).

La cifra del programma è spiazzare gli ospiti, sfruculiare nelle questioni affrontate, mettere il dito nella piaga, fare domande sconce, non essere mai dalla parte degli intervistati e cercare di evitare banalità varie. In questo Diaco è il buon maestro, la Luzi ne è fedelissima allieva. Tant’è che i due conduttori viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e per l’occasione la Luzi ha abbandonato quasi del tutto la sua consueta mansuetudine per tirare fuori una vena decisamente più intellettuale e polemica. Però a volte sia l’uno che l’altra sembrano essere un po’ troppo prevenuti nei confronti degli ospiti che sottopongono al terzo grado, sapendo benissimo chi possono massacrare fino in fondo e danno l’impressone di voler rompere a tutti i costi le uova nel paniere solo per partito preso, per meglio calzare i panni dei personaggi che si sono abilmente costruiti. Così come i tempi sono troppo lunghi, e si finisce per non lasciare mai spazio al mini pubblico giovane presente in studio che magari vorrebbe intervenire con qualche domanda. Ma a voler essere in buona fede, l’ingranaggio è nuovo e per funzionare bene ha bisogno di un po’ d’olio. Quindi, considerando che Diaco-Luzi hanno iniziato la loro nuova avventura televisiva estiva da appena qualche giorno, potranno solo migliorare.
«Sarà un’avventura nuova, cambia soprattutto il linguaggio perché affronteremo tanti temi, ma mi porterò dietro tutto il mio bagaglio. Naturalmente, essendo estate, ci lasceremo anche andare a una certa leggerezza», aveva detto la Luzi in un’intervista. Assist perfetto per Diaco, che in alcuni momenti del programma ama abbandonarsi ad afflati romantici e sentimentali (“Care donne, non ricorrete alla chirurgia estetica, ma continuate ad amare. L’amore vive grazie alle donne”), anche nei confronti dell’azienda di viale Mazzini (Viva l’Italia, viva la Rai). E viva i due nuovi conduttori di Unomattina Estate. Irriverenti, sì, ma solo con chi si può fare.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 26 maggio 2010

Josè Mourinho, mastino dei Baskerville, conquista le donne. Ma solo come amante

La donna italiana è denim. Si smacchia facilmente, non si stira, è versatile e tiene bene in tutte le stagioni. Proprio come il tessuto jeans, che quest’estate sarà il vero protagonista di abiti, scarpe, borse e accessori. Ma la donna italiana è denim soprattutto perché riuscirebbe a farsi stropicciare senza fare una piega. A patto che a farlo sia uno come Josè Mourinho, la star del calcio italiano, il semidio del goal, il prototipo dell’uomo vincente e di successo. Ma soprattutto di carattere. Ecco perché da oggi Mourinho è anche l’amante ideale, la meravigliosa creatura capace di accendere la miccia nell’immaginario erotico femminile, uno dei pochi veramente capace di risvegliare i desideri proibiti delle italiane. Lo rivela un sondaggio commissionato dal settimanale “Diva e donna” all'istituto Euromedia Research. Alla domanda 'Che ruolo vorrebbe che ricoprisse nella sua vita?', il 48 per cento delle italiane ha risposto: "L'amante". Perché "ha una personalità irresistibile. E' un vero maschio", ha detto il 35,6 per cento delle intervistate, nella fascia tra i 25 e i 44 anni.

Così dopo una Coppa Italia, lo scudetto e la Champions League, c’è un altro tiro a segno per l’allenatore dell’Inter, ormai prossimo al Real Madrid. Il 29,2 per cento delle signore, su un campione rappresentativo della popolazione femminile italiana, dai 18 anni alle over 65, lo ha incoronato "il più sexy del mondo dello sport". Scorza dura e cuore tenero? Si spera, ma non troppo. In fondo la regola di “Teorema” è sempre valida e profondamente vera: “prendi una donna, trattala male”. E lei… Cadrà disperatamente ai tuoi piedi. Proprio come conferma il risultato di questo sondaggio. Anche se le donne italiane hanno precisato: Mourinho col suo caratteraccio e con le sue sfuriate, gioca bene nel ruolo di amante, mica in quello di marito/compagno. Le donne italiane saranno pure denim, ma solo nel mondo dei sogni…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 19 maggio 2010

Renzo Bossi, il Peter Pan della politica nordista. E non chiamatelo raccomandato. Al massimo, trota

Meglio un giorno da trota che cento da delfino. Renzo Bossi, il figlio del senatur,
amorevolmente definito dal papà “la sua trota” gioca a fare il duro, il puro, l’antitaliano, il politico, quello che ce la fa. A sostenere il peso di un padre che lo guida mano per mano nella selva dorata della politica, che lo candida a soli 22 anni al consiglio regionale della Lombardia. A professare una sola fede, quella per il federalismo. A cambiare le carte in tavola, smentendo di aver nominato Eliana Cartella, che sarebbe stata vista con Mario Balotelli, come sua fidanzata, a riprendersi da una sonora tripla bocciatura alla maturità che fece insorgere l’Italia intera, e a recuperare agli occhi dell’opinione pubblica iscrivendosi misteriosamente in un’Università straniera.

Il padre lo ha definito la sua trota, è vero. Meglio che delfino. La trota naviga in acque dolci e tranquille, non è soggetta a complessi d’inferiorità tipici del rapporto allievo-maestro, né tantomeno a ritorsioni dell’ultima ora, accetta di buon grado i rimproveri e le pacche sulle spalle e pure qualche sberla. E così l’erede politico del leader fondatore della Lega Nord, ovvero il suo amato figlioletto, con fare disinvolto, timbro impostato, rinnega l’Italia e inneggia alla Padania, ma poi dimostra disinvoltura nel godere dei privilegi offerti da Roma ladrona, come quando in tempi non sospetti accettò di fare l’assistente parlamentare, per intenderci il cosiddetto “portaborse”, del deputato europeo della Lega Francesco Speroni e pare che si mettesse in saccoccia qualcosa come 12.000 euro, che non fanno mai male.

Il figlio del senatur è giovanissimo ma ha già le idee molto chiare: alla consegna del tapiro d’oro da parte di Valerio Staffelli di Striscia la notizia ha risposto sicuro di sé e pronto a difendere la sua privacy. Ora, dopo essersi schermito da parecchie critiche e qualche sberleffo, con la stessa espressione del padre stampata in faccia, un volto da vero guerriero, affina le armi e punta sul carattere. Ergendosi a paladino dei “figli di…” inevitabilmente raccomandati (non è colpa loro, poverini), favorevoli ad assecondare le poche bizze di un destino già tracciato, ma sforzandosi di dimostrare a tutti i costi che le proprie qualità. Oltre gli sponsor. Per fare schiattare così d’invidia la folta schiera dei denigratori. Se poi si bruciano le tappe e si arriva alla ribalta viaggiando su una corsia preferenziale senza troppi esami da superare, poco importa. C’è sempre tempo per dimostrare qualità e merito. Non è questa la priorità. L’Italia non è certo un Paese meritocratico. E la Padania neppure.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 17 maggio 2010

Se ce l'hai grosso come Cyrano, il naso, respiri meglio

A naso si direbbe che con Cyrano De Bergerac la natura è stata benevola. Un naso come il suo non solo ha immortalato per sempre le sue doti da abile spadaccino tra le pieghe dell’opera teatrale di Edmond Rostand. Ma oggi, a tutti i Cyrano del 2010, copie più o meno conformi, regala addirittura qualche boccata d’aria più sana. Infatti a loro i vortici malevoli di smog, le nuvole di polveri sottili che si rincorrono nell’atmosfera, insidiando la purezza e il candore dell’aria che respiriamo, non li intaccano più di tanto. E così quel tratto somatico deturpante, antipatico, antiestetico, grande e grosso e privo di grazia non è più un difetto da correggere dal più fidato dei chirurghi estetici, ma ora sarebbe, oltre che un segno di personalità, anche un prezioso alleato contro l’inquinamento, i germi e perfino la rinite allergica.

Lo rivela una ricerca pubblicata su Annals of Occupational Hygiene. L’esperimento ha previsto la creazione, da parte di alcuni scienziati dell’Università dell’Iowa, di due nasi artificiali. Uno normale, l’altro grande il doppio. Entrambi su due teste finte. Attraverso un tubo posto nella bocca artificiale è stata poi insufflata aria che conteneva una vasta gamma delle più comuni particelle che tutti respirano abitualmente. In seguito all’esame dei risultati, gli studiosi americani si sono sentiti in grado di affermare che la testa con il naso grande aveva respirato il 6.5 per cento in meno di particelle. «Un naso sporgente offre una migliore protezione per la bocca- ha dichiarato Renee Anthony, ricercatore del Department of Occupational and Environmental Health dell’Università dell’Iowa, che ha coordinato lo studio – abbassando i rischi di infezione e rappresentando una migliore barriera contro i pollini». Tra gli scienziati c’è già chi ha cominciato a sollevare un polverone di scetticismo. Però adesso, almeno a naso, si può affermare che chi ce l’ha un po’ troppo grosso, quantomeno in fatto di salute, può dormire sonni tranquilli.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 13 maggio 2010

Marco Pannella come Lord Byron: un uomo che ha “svoltato”. Ma i parvenu ancora no

Un molesto chiacchiericcio s’insinua nell’aria rendendola asfissiante. Tutto parte dalla mansarda di Marco Pannella nel cuore di Roma. La questione è ben nota. Il nastro è stato già registrato. Il direttore del Tg5 Clemente Mimun intervista il leader radicale per il settimanale “Chi” di Alfonso Signorini. Pannella rispolvera il suo piatto forte: fave e pecorino. Poi, serve a Mimun sul vassoio d’argento un dessert appettitoso, subito assaggiato da Dagospia: “Ho avuto tre o quattro uomini che ho amato molto, ma non c’è mai stata alcuna gelosia con Mirella (la sua compagna di sempre)”. E’ la storia del cavallo bianco di Garibaldi. La scoperta dell’acqua calda. L’uovo di Colombo. E tutti daccapo lì a parlarne, a spettegolare, a criticare inorriditi. Si riarma l’ esercito di moralisti del bello e del cattivo tempo, bacchettoni per sport e per passione, aspiranti parvenu della vecchia guardia o dell’ultima ora. Perché la vera perversione è la critica moralistica.

A dirla tutta, l’outing di Marco Pannella risale a un bel po’ di tempo fa. Senza contare poi il fatto che la notizia circolava da un bel po’ negli ambienti politici. Così come si sapeva del legame tra lui e i suoi “ragazzini” radicali. Quindi quale sarebbe la notizia? Semmai che a ottant’anni suonati Pannella non si pente di nulla, si racconta, e racconta la sua passione per la vita, con quel sogno nel cassetto di un’alternativa liberale, a suo parere ancora possibile. Eppure è da giorni che non si parla d’altro: della sua bisessualità dichiarata. Mica della sua speciale amicizia con Benedetto Croce, dei suoi storici digiuni, delle numerose battaglie per il divorzio e i diritti civili, cose anch’esse ben note, ma che non farebbe male ricordare soprattutto alle nuovissime generazioni. E invece? Tutti a parlare della sua bisessualità. Solleticando la pruderie gossippara che banalizza tutto alla questione dei gusti e degli orientamenti sessuali. Vecchia storia già feconda nell’antica Grecia (Socrate e Platone, Saffo e le sue allieve del tiaso, ecc.). Ma tale da rendere improvvisamente l’animale politico di aristotelica memoria un’icona di trasgressione, il totem della perversione, il santo protettore dell’ambiguità.

Che grande novità. Si fa finta di non sapere che la bisessualità in certi ambienti è come il prezzemolo. Diffusissima in politica, nei cenacoli letterari, tra gli scrittori, in tv, nel mondo dello spettacolo. E sempre di più. Anche se spesso chi lo è tende a nasconderlo. Pochi infatti hanno la disinvoltura di Pannella, la sua personalità. Il punto è un altro: inutile scandalizzarsi più di tanto. E’ come dire che Lord Byron è diseducativo. Lui che ebbe una moglie che probabilmente ha amato a suo modo, parecchi amori omosessuali e un disperato bisogno d’affetto. Al suo tempo volevano perfino punirlo con la forca o con la gogna, per aver commesso quella che era considerata una vera e propria offesa capitale. Oggi, nel 2010 mica siamo tanto lontani se la sessualità ambigua di Marco Pannella rappresenta ancora un caso nazionale. Per tornare a Byron, bisessualità a parte, una cosa è certa: perdersi tra le pagine di “Cielo e terra”, de “Il sogno” o de “L’assedio di Corinto” è un miracolo che si ripete sempre. A testimonianza del fatto che quella dei chiaroscuri personali è tutta un’altra storia…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 11 maggio 2010

Dammi tre parole: fiction, cuore e amore. E dal prossimo autunno Federico Moccia arriva in tv

Il grande salto? Il salto al grande pubblico? Speriamo non sia il salto della quaglia. Dal cinema alla televisione. A traghettare in tv l’amore fragile come cristallo e fresco come l’adolescenza in fiore e in piena tempesta ormonal-sentimentale di Federico Moccia ci pensa la fiction, genere sempre più appetibile anche per attori del nostro cinema come Alessio Boni (l’ornitologo svitato di “Tutti pazzi per amore 2”), che finalmente hanno deciso di non snobbarlo più. Così dal prossimo autunno, “Scusa ma…” sarà per le reti Mediaset la nuovissima serie tratta dai due film “Scusa ma ti chiamo amore” e “Scusa ma ti voglio sposare”. Federico Moccia si spoglierà del ruolo di regista per prendere in mano le redini del soggetto e occuparsi delle linee narrative. Sulla scia di Alessio Boni, Raul Bova, uno mai stato con la puzza sotto il naso, sarà anche sul piccolo schermo Alex, mentre nel ruolo di Niki non ci sarà Michela Quattrociocche, ma un’altra attrice giovane e popolare, il cui nome però è ancora top secret.

Moccia chiude il cerchio, entrando a pieno titolo nel novero del più popolare cantore dell’amore adolescenziale di contemporanea memoria. Un'istantanea sul mondo degli under 30. Un prodotto perfetto per ragazzine alle prime armi, che sanno tutto del sesso ma ancora troppo poco in fatto di educazione sentimentale. Ma forse non per spettatori poco sprovveduti e ormai abbondantemente smaliziati. Eppure si preannuncia già l’ennesimo successo di pubblico. Del resto Moccia, anche e soprattutto per partito preso, non ha mai voluto essere un “prodotto di nicchia”, di quelli per intellettuali insofferenti, esigenti, annoiati e perennemente insoddisfatti. Moccia fa il filo a un pubblico “vergine”, scarsamente “politicizzato” ma sintonizzato 24 ore su 24 sugli sfilacciamenti esistenziali, sugli scivoloni del cuore, sulla pruderie consumistica, il “mordi e fuggi” quotidiano, lle gelosie e le ripicche dell’umana miseria. Moccia è uno di loro, dei pariolini della Roma bene ma anche dei ragazzi della media borghesia cresciuti nei quartieri residenziali di ogni città d’Italia, mostriciattoli imbevuti di consumismo ed educati per bene dalla pubblicità, sfornati con lo stampino. Sono i tipi e le tipe della generazione Internet, o Y come la chiamano i sociologi, tutta web e video, quelli che si lasciano con un sms ma sono “ragazzi con un gran cuore, pieni di sogni e con tanta voglia di innamorarsi”, giura Moccia. Legittima difesa dei suoi piccoli “mocciosi”, pronti a rivedersi nell’ennesima serie tv.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 8 maggio 2010

Fiocco rosa in casa Mediaset. Dal 12 maggio arriva “La 5”, la tv-ghetto per sole donne



Strizza gli occhi alle teenager in calore e alle trentenni (es)agitate. E’ femmina. E’ rosa. A sparigliare la terna Canale5-Italia1-Rete4 ci pensa “La 5”, il nuovo canale gratuito Mediaset che dal 12 maggio inonderà col suo palinsesto 24 ore su 24 la galassia caotica e affollata del digitale terrestre.

Un apartheid televisiva in piena regola. Visto che il nuovo canale si rivolge a un pubblico esclusivamente femminile. Il direttore di Canale 5 Massimo Donelli spiega che il target del nuovo canale sarà quello delle donne tra i 15 e i 34 anni curiose, volitive, tecnologizzate e capaci di vincere le proprie sfide personali, ragazze normali e non veline. E invece? Testimonial de “La 5” sono proprio loro, le veline Federica e Costanza, insieme ad Alessia Marcuzzi, Geppi Cucciari, Marco Carta e all’immancabile Silvia Toffanin, che alle ultime settimane di gravidanza incarna bene il concetto di un nuovo arrivo. E a quasi un mese di distanza dal battesimo di “La 7 d”, il canale de La 7 dedicato alle donne, ecco sfornato da Mediaset un duplicato ben confezionato. La tv ghetto, quella che relega le donne al ruolo di spettatrici commosse di frivole soap opera americane, flaccidi filmetti strappalacrime, patetici talk show, e quant’altro serva a mortificare anni e anni di agguerrito femminismo, di battaglie sull’orlo di una crisi di nervi per la tanto agognata parità con gli uomini, concetto terrificante. Macché parità. Il protagonismo delle donne ha fagocitato l’universo maschile impallidendone l’immagine, relegando l’uomo al ruolo di mammo sconsolato. E se la tv è lo specchio dei tempi, un canale come “La 5” ne è la naturale conseguenza.

Questa tv a programmazione sessista e femminista potrebbe davvero aiutare gli uomini ad allontanarsi sempre di più, magari anche con un certo senso di nausea, dal mondo delle donne, acuire il conflitto tra i sessi, anche se per fortuna le quote rosa nelle liste elettorali si sono scolorite. Sarebbe bello un giorno creare un canale per uomini stanchi, annoiati, antipatici o depressi. Un canale tutto per loro.
Intanto però si pensa alle donne, per consolarle del troppo poco potere che ancora oggi esercitano, del fatto che ai vertici ci sono quasi sempre gli uomini, e in giro si respira ancora un maschilismo imperante. Ma se poi a guardare “La 5” ci scappa per sbaglio qualche spettatore maschio rimasto a casa a farsi la ceretta? Eh no, bollino rosso. Non conviene. Molto meglio cambiare canale…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 3 maggio 2010

Un nuovo Sexgate all’ombra della Casa Bianca?

Ci risiamo. La storia è ciclica, Polibio docet. E Bill Clinton anche. Dodici anni dopo, a Washington aleggia il fantasma di un altro sexgate pronto a imbrattare con tanta miseria e pochissima nobiltà le pallide mura della Casa Bianca. Lei è Vera. Ma non si sa fino a che punto. Lui è Barack e il presidente degli Stati Uniti lo fa per davvero. Insieme per una “calda notte” in albergo? Secondo il National Enquirer sembrerebbe proprio di sì.
Rapido balzo all’indietro. Obama è solo un brillante self-made –man di colore nel pieno di una promettente carriera politica. Sono i tempi della sua candidatura al Senato. La Baker, che oggi ha 35 anni portati splendidamente, all’epoca raccoglieva fondi per candidati neri e aveva pure fondato un gruppo che si occupava di questo. L’autista che portava in giro Obama durante la campagna elettorale avrebbe raccontato di aver lasciato i due in un albergo di Washington, dove la Baker però non alloggiava (in quel periodo viveva in città).

Ma non ci sono prove. Nessuna foto, nessun video. O meglio, il video ci sarebbe, grazie alle telecamere interne dell’hotel. E’ solo che alcuni «top anti-Obama operatives» offrono un milione di dollari per darlo in pasto a una stampa assetata di scandalo. Manovra politica dei repubblicani in crisi di astinenza governativa? La sacrosanta verità, che allora fece infuriare più che mai la salutista e supersportiva Michelle? Comunque Vera Baker a un certo punto aveva deciso di togliersi di mezzo, dissolvendosi come una zolletta di zucchero in un bicchiere d’acqua. Se n’era andata a lavorare come broker alla Martinica. Meglio allontanarsi dal polverone, vero o presunto che sia. Attorno a lei, un gran mistero. La voce «Vera Baker» su Wikipedia appare con un lucchetto («è bloccato l’editing») e una riga rossa a fianco dell’annuncio «stiamo valutando se cancellare quest’articolo». Ma la fuga non durerà a lungo. Internet può. Anche se chiamarsi Lewinsky 2 non dev’essere per niente esaltante…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 30 aprile 2010

Gianfranco Fini Capitolo II: dopo qualche battuta di troppo, una battuta… d’arresto

Premere l’acceleratore è un rischio. Ci si schianta. E Gianfranco Fini lo sa bene. Ecco perché qualche giorno dopo la sua uscita allo scoperto, a muso duro, come voce aperta del dissenso all’interno del Pdl, il Presidente della Camera frena. Sulle polemiche, ma anche sul suo stesso dissenso nei confronti di Silvio Berlusconi, dei suoi metodi e dei suoi sistemi. Deludendo chi ci aveva creduto troppo. Soprattutto a sinistra, tra chi aveva applaudito con vigore, spellandosi le mani. Meglio la prudenza. In tutti i sensi. Fini ha commentato le dimissioni del suo fedelissimo Italo Bocchino da vice capogruppo del Pdl alla Camera, definendole una "cacciata senza ragione", ma aveva anche affermato che "dire che siamo in uno stato di dittatura significa affermare qualcosa di profondamente falso". E ai giornalisti accalcati intorno che gli hanno chiesto se ce l’ha ancora con Berlusconi, ha risposto : “Assolutamente no, nessuna polemica”. Dichiarazioni altalenanti che tradiscono un ripensamento dell’ultima ora. Un dietrofront improvviso? Un eccessivo attaccamento alla poltrona? Probabilmente, il fatto di non essere avvezzo a ribaltoni che in questo momento potrebbero rivelarsi, se non azzardati, decisamente folli. Cambiare idea è importante, possibile, legittimo. E Fini l’ha fatto e lo ha pure detto. Ma il ruolo di suddito proprio non gli si addice, quello di equilibrista neppure. E quello di ribelle rivoluzionario men che meno. Ma fare il correntista pentito sarebbe ridicolo. E allora si decida Fini ad assumere un ruolo chiaro, netto e coerente fino in fondo. Pena la credibilità. Chi frena di botto, si schianta lo stesso.

Elena Orlando (
elyorl@tiscali.it)

mercoledì 28 aprile 2010

Lo strano dramma della Grecia in crisi

Che strano sapere che la Grecia è affogata nel debito pubblico, fa acqua da tutte le parti e il suo destino è appeso al sottilissimo filo delle trattative per attivare il piano congiunto di salvataggio che mette insieme Eurogruppo, Bce, Fmi e, naturalmente, il governo greco. Strano e drammatico al tempo stesso per ciò che è stata la Grecia antica, soprattutto quella democratica di Pericle, straordinariamente bella, creativa e dinamica. Un portavoce di Van Rompuy ha precisato, riferendo le dichiarazioni del presidente stabile dell'Ue sul debito della Grecia, che le trattative sul piano degli aiuti "stanno continuando, sono sulla strada giusta e non si tratta della ristrutturazione del debito". In altri termini, non ci sono "questioni" sul debito in relazione al pacchetto finanziario di sostegno in discussione. Van Rompuy, nel suo intervento, ha confermato il summit tra i Paesi dell'area dell'euro "intorno al 10 maggio" per discutere della crisi greca. "Come presidente dell'Unione europea, confermo che ho intenzione di convocare una riunione dell'Eurogruppo, con i capi di Stato e di governo, intorno al 10 maggio. Sulla base della relazione che sarà ultimata nei prossimi giorni, i capi di Stato e di governo dovranno decidere consentendo il pagamento degli aiuti attualmente in discussione". Il Fondo monetario internazionale prevede di sbloccare un aiuto finanziario di 10 miliardi di euro (13 miliardi di dollari) supplementari alla Grecia, stando a quanto riferisce il Financial Times. Il Fondo ha già proposto di versare 15 miliardi di euro di prestiti alla Grecia, portando a 45 miliardi di euro la somma totale degli aiuti al paese. Gli aiuti del Fmi toccherebbero dunque i 25 miliardi di euro.

La speranza torna. Ma tutto questo resta strano e drammatico comunque. Perché la Grecia alla cultura europea ha dato davvero tanto. Lì è nata la filosofia, coi presocratici che s’interrogavano sull’elemento da cui è nata la vita. In Grecia è nato il teatro tragico di Eschilo, Sofocle, Euripide, la più alta espressione d’arte che ha portato sulla scena temi importanti come la vita, la morte, il rapporto dell’uomo con la fede e con l’al di là. In Grecia sono nate le Olimpiadi, per le quali si fermavano le guerre e lo spirito agonistico più puro, i voli pindarici e la divinizzazione dell’eroe-atleta. In Grecia è nata la commedia di Aristofane, prima espressione della satira politica e con Erodoto si è sviluppata la storia come forma di indagine disciplinata da un metodo scientifico di chi sente, vede, ascolta e poi soprattutto verifica. Insomma in Grecia è nata una parte consistente della nostra civiltà. E in parte ciò che siamo oggi lo dobbiamo a questa nazione bagnata dal mar Egeo che oggi ha il fiato corto e respira a fatica. Del resto oggi Atene è sempre più una città divisa tra gli antichi fasti di un’acropoli gloriosa ma sempre più distante, dove spadroneggia maestoso il tempio della dea Nike che annuncia vittoria coi suoi frontoni e le colonne a scanalature doriche e il resto che fa apparire anche agli occhi dell'osservatore più distratto la città vecchia, lenta, coi filobus mezzi rotti e le auto da rottamare, grondante di povertà e arretratezza. Una città che non riesce a tenere il passo con una modernità spietata. Ed è questo che fa più paura.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)