giovedì 28 luglio 2011

Emma Marrone provincial-chic. E fa la differenza

Se fosse vissuta al tempo di Omero, avrebbe incarnato Penelope. Fedele ai suoi principi, sempre e comunque. E sarebbe stata perfetta. Ma fa la cantante, Emma Marrone, creatura di Maria De Filippi, che in realtà - pur con la dovuta riconoscenza - si è smarcata già da un po’ dalla sua “mamma artistica” decisamente più liberal, imponendosi al grande pubblico come la ragazza pulita e casereccia del pop nostrano. E non è un’operazione di marketing. Emma è davvero così. Salentina doc (anche se nata a Firenze), verace, semplice, coi piedi ben piantati per terra e un provincialismo raggelante, che difende in ogni occasione a spada tratta. Come quella volta che, durante una conferenza stampa coi giornalisti a Sanremo, approfittò per precisare che lei era stufa di sentirsi sminuire dai media con quell’orrenda espressione “prodotto di Amici”. Genuina, Emma, fino in fondo. Anche quando si trovò a difendere a Domenica In, provocando l’ira forsennata di Vittorio Sgarbi, la manifestazione in difesa dei diritti e della dignità delle donne, ribadendo il concetto: “io canto con la voce, non con le tette. Chi si offre mi fa solo pena”.

E chissenefrega, direbbe lei, che si è ripresa il suo Stefano e ora se lo vuole maritare. Emma ha carattere. Anche quando parla, a Vanity Fair, di Amy Winehouse e di come fa una madre a non accorgersi che “la figlia puzzava di morte”, mentre la sua si accorge sempre di tutto?
Emma è fatta così. Canta “Calore” ma non scende a compromessi. Riconosce sportivamente i meriti di Roberto Vecchioni ed è grata al pubblico per essere arrivata dopo di lui in gara a Sanremo. Partecipa alla serata in onore di Giorgio Gaber e dimostra di averne approfondito i testi e la poetica.
Non scimmiotta nessuno, né tantomeno Rihanna, Lady Gaga o Jennifer Lopez. E rispolvera, a ogni occasione, i sacrosanti valori di una volta. Certo, sembrerà banale, troppo provinciale. Ma se essere provinciali vuol dire mostrare quel lato sano che può fare la differenza e ormai in un oceano di trasgressioni rappresenta l'oasi felice della stravaganza vera, anche in un meccanismo così cinico, costruito e dopato come quello dello show-biz, allora per una volta, stavolta, viva il provincialismo. Di Emma, s'intende.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 25 luglio 2011

E il Pd a Campiano improvvisa il bunga bunga dei poveri

Amnesie di mezza estate. Metti una sera a cena alla festa del Pd di Campiano, frazione della rossa Ravenna. Metti lo streep di Davide, al secolo Il vikingo, promotore di corsi di seduzione a Milano Marittima e protagonista di una fugace apparizione all’ ‘Isola dei famosi’ su Raidue, che si denuda e si contorce.
Metti, a seguire, un bel piatto di fettuccine al ragù annaffiate da qualche bicchiere di buon vino rosso e un secondo streep, quello di Jessica che si spoglia anch’ella. Eh già. Dov’è finita la questione femminista tanto cara alle piddine doc (vedi Melandri, De Gregorio & Co.)? Dev’essersi offuscata insieme alla questione morale che hanno risollevato Tedesco e Penati.
Eh già. Il Pd ultimamente è avvezzo agli scivoloni antifemministi e lesivi della dignità del corpo della donna. Vedi il filmino hard della giovane segretaria di un circolo Pd toscano e il manifesto tanto chiacchierato delle gambe al vento in stile Marylin, per esempio. E puntualmente, si solleva il chiacchiericcio stridulo e assordante. Stavolta a insorgere, le esponenti del movimento “Se non ora quando”, che si sono affrettate a chiedere ai dirigenti locali del partito come fosse possibile che “nessuno sia in grado di bloccare iniziative così volgari e offensive per le donne”. Eh già. Le piddine doc e le militanti piddine della vecchia guardia e dell’ultima ora si sarebbero a dir poco indignate.

I volontari hanno espresso la loro amarezza. Ma era un gioco enfatizzato dai media, rispondono gli organizzatori. Un castello di sabbia gonfiato dai giornali. Esattamente come il bunga bunga.
Chiamati in causa, i dirigenti di zona del Pd hanno ragionato un po’, o quantomeno hanno fatto finta, per poi risolvere il gravoso dilemma. Un faccia a faccia tutto al maschile, con il segretario Pd delle Ville Unite Giorgio Benini, il segretario comunale Danilo Manfredi e il segretario provinciale Alberto Pagani. E alla fine? Totale accordo e solidarietà ai 200 volontari e volontarie "la cui moralità e coerenza con i valori del partito non possono essere messi in discussione", hanno scritto in una nota congiunta.
Eppure la mossa era astuta per recuperare consensi e prepararsi ad essere una valida alternativa, seppur decisamente più squattrinata, al più famoso e originale bunga bunga. Ma è meglio non gettare troppa benzina sul foco. Insomma, alla fine tutto è bene quel che finisce bene. Con una promessa per il futuro: maggior controllo e un’attenta valutazione della programmazione. E vabbè, amanti dei bei corpi in bella vista, niente paura. Le solite promesse da marinaio del Pd, nonostante tutto, sempre più impegnato a scimmiottare il tanto criticato intrattenimento, televisivo e non, di stampo berlusconiano.  Ora alle prossime feste democrats non resta che ingaggiare ufficialmente, magari con un contrattino da precarie, le veline di sinistra (e ci sono, ci sono...), magari dopo averle fatte discettare su temi caldi come  il cambiamento, la meritocrazia, una nuova classe dirigente, il  futuro dei giovani e del Paese . Complimenti al Pd: sincero ma non troppo. Credibile ancora meno.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it )

sabato 23 luglio 2011

La leggenda Amy Winehouse. Ovvero quando vita e arte si fondono e si confondono

E’ la maledizione del rock, che stavolta diventa quella del soul. Un destino scritto al quale non si può sfuggire. Una terribile profezia che allo scadere del ventisettesimo anno di vita si avvera sempre. Vedi Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e Kurt Cobain. Sono le 16:30 di un neanche troppo caldo 2 luglio londinese. A soli 27 anni una miscela di alcol e droga segna la fine della parabola musicale di Amy Winehouse, the voice al femminile. La notizia viene diffusa da Sky News e in pochi minuti fa il giro del mondo. Rimbalza su tutti i siti internet e i social network. E su Twitter Kelly Osbourne, figlia di Ozzy, scrive: “ ''Non riesco neanche a respirare ora e sto piangendo cosi' tanto. Ho appena perso una delle mie migliori amiche. Ti amero' per sempre Amy e non dimentichero' mai come eri realmente''.

Impossibile non credere alle coincidenze. Non e' solo nel Club 27, “è anche nel Club dei 5 Grammy in una notte'', fa notare una fan alludendo alla vittoria dei cinque premi il 10 febbraio 2008. ''Se sei un cantante di fama non aver paura di morire a 27 anni, semplicemente preparati''. E’ la sana rassegnazione che si prova ad accettare un destino scolpito tra le pieghe oscure del rock e della sregolatezza. La vera essenza di uno stile musicale che fa pendant con un modello di vita. O semplicemente la musica che diventa essa stessa vita, dentro e fuori dalla scena, sul palco e dietro le quinte, coi riflettori accesi e puntati addosso e nell’oscurità di interminabili notti da soli con se stessi.

Non c’è prova più schiacciante di questa: Amy Winehouse era ciò che cantava e mostrava sul palco.
Una voce potente su un corpo sottile e una chioma nera come la pece e folta da vera Erinni. E quello sguardo languido dei primi tempi, che aveva lasciato via via il posto a due occhi persi e smarriti, impantanati in un’autolesionismo ormai inesorabile verranno ricordati per l’afflato autentico di ogni respiro di una voce unica, inconfondibile, icona della fusione magica di rhythm and blues, soul, jazz e rock and roll.
La ragazza di Enfield cresciuta con Salt-n-Pepa e Sarah Vaughan, che a soli 13 anni aveva già in mano la chitarra e a sedici cantava da professionista, la sola capace di sprigionare sul palco rabbia e fragilità, determinazione, grinta e dolcezza, non ha finito di emanare quel sacro furore che possedeva dentro di sé al mondo intero, quel “daimon” di socratiana memoria che illuminava la sua stella polare rendendola unica e inconfondibile, come quando tenne testa a Mick Jagger in un concerto indimenticabile. Anche con le scivolate degli ultimi tempi, il divorzio traumatico del 2009 da Blake Fielder-Civil e i conseguenti episodi di stalking, oppure quando mandò a quel paese Bono degli U2 o lasciò in tredici un concerto per vomitare dopo 48 ore di bevute o quando, lo scorso 18 giugno a Belgrado, salì sul palco completamente ubriaca senza sapere nemmeno dove fosse e cosa stesse facendo (in seguito a questo episodio, fu immediatamente annullato l’intero tour europeo).

Tutti pensavano, credevano, speravano disperatamente che la bad girl del rock potesse farcela, uscire dalla dipendenza da alcol e droghe, riprendersi. E invece tutto è finito in quel pomeriggio del 23 luglio. Il più bel ricordo? Quello dello scrittore Paulo Coelho, che cita alcuni versi di una sua canzone, Tears Dry On Their Own, ''So we are history, the shadow covers me /The sky above, a blaze that only lovers see'' (E cosi' noi siamo storia, l'ombra mi copre, il cielo sopra di me, una lama che solo gli amanti vedono). Ora Rehab e i brani dell’album di Back to Black, quello di maggior successo che nel 2006 in Inghilterra arriva in vetta alla classifica, diverranno catartici e propiziatori, come la sua voce e quella riga spessa di eye liner che le incorniciava lo sguardo da gatta.
Ora però inizia un’altra storia: la più bella, la più importante e significativa. La leggenda. Con la sua morte giovane Amy Winehouse è già leggenda. E stavolta senza tempo. Perché le leggende del rock durano in eterno.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

Grande Fratello 11: televoto nella bufera

Che nella casa più spiata d’Italia non si recitasse a soggetto ma con un copione ben preciso lo si era capito da tempo. Ma ora il Gf è nel mirino per la questione televoto. L’antitrust ha multato il reality della rete ammiraglia Mediaset per la cifra di centomila (poi ridotti a sessantamila) euro. Il motivo?
Le scorrettezze denunciate da Massimiliano Dona dell'Unione consumatori, che ora esprime grande soddisfazione per la multa. Ditino puntato anche sulla puntata andata in onda il 7 marzo. Dopo una settimana di televoto per decidere chi dovesse uscire tra Biagio, Angelica e Davide si decise di lanciare un altro televoto tra due dei tre nominati più votati. L'autorità ha riconosciuto che quel sistema creò una sorta di duplicazione di voti. L'antitrust definisce che al pubblico si debbano dare informazioni trasparenti e chiare sul meccanismo del televoto. L'unione consumatori ha in programma anche una class action per eventuali rimborsi dei soldi spesi per il televoto.





"Vi ripeto non condurrei mai un programma se fosse truccato. E lo dico con fermezza, perché so che il Gf è limpido. Detto questo mi sto informando e non appena so qualcosa di certo vi mando un messaggio”. Parola di Alessia Marcuzzi, raggiunta a Londra, in vacanza premaman con Francesco Facchinetti dalle polemiche attraverso un tam tam di messaggi di protesta piovuti nelle ultime ore sulla bacheca della sua pagina facebook. A seguire, messaggi d comprensione e solidarietà. The show must go on. Anche quando Pinocchio è stato sbugiardato…


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 18 luglio 2011

Affari pesanti

Trasmetteva uno straordinario senso di naturalezza. Niente in lei era artefatto o costruito. Nessuna posa in quei gesti lenti e aggraziati, nessun tono altisonante nella sua voce suadente e musicale, nessuna nota stonata nel suo look sobrio ed elegante.
Quando parlava, lo faceva con una tale grazia che le sue parole ammaliavano. Seduta a quel tavolo rotondo ricoperto da una tovaglia viola con al centro un cestino di rose, col suo tubino nero stretto e gli occhi sgranati, attorno al collo solo un filo di perle e un’ aria concentrata, seguiva la conversazione muovendo gli occhi rapidamente. Si preoccupava solo di sorseggiare ogni tanto un bicchiere d’acqua che ormai si era riscaldato. Non si preoccupava di niente. Il tempo scorreva lento e inesorabile su quella conversazione assai poco intimistica. Un fiume di chiacchiere straripante stava per affogare ogni suo pensiero sulle vacanze, su sua figlia Gemma, sul libro di Isabel Allende che aveva appena comprato. A un tratto si accese una luce fioca. L. cominciò a sentire un odore acre di gelsomino. Ad un tratto quelle chiacchiere, quelle pose artefatte, quel formulario intriso di falsità e opportunismo, quei volti ingessati, quelle divise con la cravatta apparivano lontani. Il volume delle loro voci gracchianti si era terribilmente abbassato. Come una stazione radio che non si sentiva bene. Si parlava di una certa operazione finanziaria. Nei minimi dettagli. E tutto si sarebbe dovuto svolgere secondo copione. Le altre donne sedute a quel tavolo la libertà e la naturalezza le avevano perse da tempo. E apparivano bambocce sotto padrone, corrotte da agi e promesse.

L. cominciò a respirare profondamente, a sudare. Nonostante l’aria condizionata cominciò ad avvertire delle vampate di calore. Osservò tutti, uno per uno. Poi si alzò di scatto. Nessuno si accorse che si era allontanata. Cercò la toilette. Aveva i brividi. L’equilibrio instabile sui tacchi le provocava delle vertigini. Camminava a piccoli passi, come se stesse calpestando le nuvole. Dietro di sé una scia di voci indistinte, ormai sempre più lontane e risate che sapevano di finzione e messinscena. “Dov’è Dio? Dove sono i suoi discepoli? Dov'è l'onestà? Possibile che esista gente tanto ignobile?”, pensava mentre s’insaponava lentamente le mani, cercando di lavare via tutta quella sporcizia, angosciata dall'aver ascoltato un formulario di cartapesta recitato senz’anima né un briciolo di convinzione da maschere mostruose.
Soldi, affari, finanza, politica, raccomandazioni. Amici degli amici. Amici utili a una certa cosa. Amici utili a un'altra. Aneddoti raccapriccianti di vite messe all’asta per il miglior offerente. Scalate pilotate da poteri occulti. Improbabili mosse vincenti per spiazzare l’avversario e spartirsi il bottino. Prestigio, denaro e ruoli di primo piano nei consigli di amministrazione erano le pedine assordanti di quella malefica scacchiera.
Quella sera L. aveva capito molte più cose di quante ne avesse capito nei tre mesi che era stata con K. Anche se ormai la loro era diventata una relazione platonica a causa dell’età di lui e dei suoi problemi fisici. Si guardò allo specchio, sempre più sola, illuminata di rosso dai faretti colorati di quella toilette incastonati nel soffitto. Quasi non si riconosceva. Aveva disperatamente bisogno di persone vere, normali, fallibili. E invece stava con esaltati, ambiziosi senza alcuno scrupolo. Aveva disperatamente bisogno di semplicità, autenticità. Improvvisamente come un flash nella sua mente apparvero i cassetti di legno marrone che sua nonna Magda riempiva con la pasta appena fatta: taralli, quadretti, gnocchi. E ripensò a quell'odore di sugo della mattina, che cucinava a fuoco lento mentre cantava. E al suo grembiule sporco di farina, alle mani impastate, alle torte di mele, alla marmellata di fichi e a quei sorrisi onesti della sua infanzia. Dove la sincerità trasudava da ogni minimo gesto. Così come l'amore per la vita e la voglia di donare. Così come l'onestà di sentimenti con cui era cresciuta e che non l'aveva mai abbandonata, trasformandola in una persona diversa da quella che era.      

 Lo specchio di quella toilette le restituì un'immagine consunta, il volto sofferente, occhiaie profondissime, uno sguardo triste e smarrito, alla ricerca di un po’ d’affetto e di umana comprensione. Ormai aveva capito che in quell’ambiente aveva le ore contate. Ma non poteva sparire perché i segreti di cui era custode insieme a K. l’avrebbero costretta a un vincolo pericoloso. Un peso che non sarebbe più riuscita a reggere. Improvvisamente vide alle sue spalle un mostro. Era vestito di nero. E le ripeteva di stare attenta. Era custode di una storia importante che le sue orecchie avevano ascoltato. Alcuni giudici erano stati corrotti per l’esito di una importante sentenza. L. avrebbe desiderato sprofondare nell’abisso. Camminare a dieci metri sotto terra. Riappropriarsi della sua dignità e della libertà, il dono più prezioso che un essere umano possa avere. Ma era prigioniera. Lo era fino al collo. E non poteva far finta di niente. Sarebbe stato peggio. La prima cosa da fare era stare calmi, razionalizzare tutto e pianificare un 'efficace e comprensibile uscita di scena.
Ora aveva bisogno di chiedere consiglio a P. Lui l’avrebbe aiutata a pianificare la fuga e forse pure la vendetta nei confronti di un uomo che l’aveva fin troppo schiavizzata e usata solo per il potere.
Si pettinò, si rinfrescò il trucco e tornò di nuovo a quel tavolo meschino e rotondo. Camminava come sulle sabbie mobili. La sensazione che avvertiva era di totale estraneità al luogo e a quelle persone. Come previsto nessuno, neppure K. si era accorto della sua momentanea assenza. Ma L. sentiva dentro di sé una grandissima forza. Ormai era una sfida con se stessa. “L’umanità esiste ancora, da qualche parte, nascosta, ma esiste. Ed è in nome di quella umanità forte, sana e potente  che devo agire”. Voltandosi il suo sguardo serio e determinato incrociò quello di un uomo seduto al tavolo a fianco. I due si guardarono per qualche istante, in silenzio. Ebbero subito l’impressione di avere molte cose da dirsi…


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 8 luglio 2011

Il nostos rivelatore

Adorava le sirene. Era partito per cercarle. Il loro canto lo ammaliava terribilmente. Non sapeva né quando sarebbe tornato né esattamente dove sarebbe andato. Il mare lo attraversava. Con sé aveva solo una camicia e un paio di pantaloni bianchi di lino. Le sue spalle forti gli davano coraggio. Ma in realtà si sentiva fragile come  cristallo. La sua emotività sommersa ora era pronta a venire a galla e a frantumarsi in mille pezzi. Piccolissimi, invisibili come schegge impazzite. Le sirene erano lì da qualche parte ad aspettarlo. E avrebbero raccolto quei pezzi con pazienza, cura, comprensione. Loro sì, con le loro mani soffici e affusolate avrebbero purificato la sua anima. Si sarebbero prese cura di lui. Le onde del mare erano lente e affidabili. Appena salito su quella barca a vela, si era reso conto che di quel mare poteva fidarsi. Era il suo mare. E tante volte gli aveva risposto. Solo in mare si sentiva davvero sicuro. Jack London gli aveva lasciato la voglia di andar per mare. E ora che finalmente poteva, aveva deciso di non pensarci più neppure due volte. Non desiderava nient’altro che stare con se stesso. Guardare in faccia quel mare blu pallido la mattina e nero come il buio di notte. Lasciarsi accarezzare dalla brezza, fare l’amore con tutte le donne che non aveva ancora incontrato e che per qualche buona ragione lo avrebbero colpito molto. Viaggiare lento, senza l’assillo dei minuti che passano, delle lancette che si rincorrono. Un viaggio senza tempo. Senza calendario. Senza appuntamenti da rispettare, incontri da presiedere, richieste da soddisfare. Un viaggio che l’avrebbe riportato a casa. Tra le braccia di Scilla e Cariddi. Adesso sentiva solo l’odore del mare. Il suo dopobarba al sapore di sandalo e gelsomino era evaporato del tutto. Solo l’odore del mare. Quel nostos sarebbe stato sofferto ma alla fine catartico. Quando l’aveva lasciata a malincuore, ma con molta convinzione, quella terra di lacrime e di sangue sparso per le strade, senza sogni e senza futuro, sperava di arrivare da qualche parte, diventare qualcuno e che il suo nome si leggesse a chiare lettere su qualche giornale. Così era stato. E nel giro di dieci anni il suo nome stampato su quel giornale c’era tutte le mattine, in prima pagina. Non importa quale fosse il senso profondo del suo scrivere. Non importa quanto intricato fosse il labirinto di quei pensieri più veloci del vento sparsi in modo temerario e spettacolare su quei fogli . I suoi occhi chiari trasmettevano determinazione e un crudo realismo. Tatticismo e rigore. Qualche volo pindarico ma soprattutto molta disciplina.  E un sentimentalismo ben celato al solo scopo di proteggersi. E di difendere a spada tratta lo spazio che furbescamente e con immensa fatica la sua sfrenata ambizione e vanagloria l’avevano spinto a conquistarsi. Adesso, su quella barca a vela, era finalmente da solo con se stesso. Con la mente alleggerita dai pensieri più molesti e addosso solo il peso del suo costume da bagno rosso porpora. I suoi occhi brillavano di luce.  capelli castani si agitavano al vento. In fondo ritornare laddove era nato era come ritornare nell’alveo materno e riappropriarsi di una parte di sé nascosta ma presente, di quell’odore acre di leccio che s’insinuava nella gola, del sole giallo che d’estate bruciava l’asfalto, di quella luce splendida e seducente che ammaliava chiunque approdasse anche solo per un giorno in quel posto. Ma rivedere quelle facce lasciate lì, addomesticate da un’assordante rassegnazione, gli avrebbe fatto ancora più male. Eppure ne aveva disperatamente bisogno, di rituffarsi per un attimo in quelle acque gelide. Così chiare da potercisi specchiare. Ma proprio quando il suo interminabile viaggio stava per volgere al termine, vinse le sue paure e provò a specchiarsi in quelle acque. Di rimbalzo colse un’ immagine di sé disperata e avvizzita. Ma neppure se ne accorse. Il suo Ego rifletteva un’immagine splendida e lieta. O almeno così si ostinava disperatamente a voler credere. Così gli facevano credere. Così fingeva di credeva disperatamente. Quando arrivò, percepì subito un senso di familiarità rituale,costruita, fasulla. Gli affetti sinceri erano pochi. Il resto, un esercizio opportunistico e lusinghiero. Splendido in giacca blu cobalto e camicia celeste pallido leggermente sbottonata sul collo. Lo sguardo deciso, qualche sorriso di circostanza, l’abbraccio sincero degli amici di sempre. In tutto quattro. Il resto, scenografia pura. La sua mancanza l’avevano sentita in pochi, ma ancora in meno l’avrebbero avvertita nel posto da cui era partito e che aveva momentaneamente lasciato, dove la competizione asfissiante inaridiva e consumava, inquinando la mente fino allo sfinimento e alla graduale e inesorabile perdita di sé. Dove l’avrebbe portato itutto quel desiderio di gloria? Laddove non avrebbe più sentito la voce delle sirene. Laddove nessuno un giorno avrebbe potuto raggiungerlo. Neppure la sua parte migliore.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)


lunedì 4 luglio 2011

A lezione di cooperative learning. Due giorni da incubo

Sfiniti da un anno scolastico ingrato, trascorso a saltare ostacoli tra un’ora e l’altra al ritmo assordante di quella stridula campanella, attraversando la nebbia fitta di corridoi sporchi e stretti che sanno di muffa. Il 27 giugno l’incubo non era ancora finito. Mancava il colpo di grazia, per stendere definitivamente il “corpo docente” per terra. Senza colpo ferire. Ma attraverso un’apparente e ingannevole non violenza tutta demagogica. Un tizio dal tono di voce corrosivo e dai modi blandi entra per due giorni nella vita di 80 persone. Ottanta professori di una scuola di provincia. Ottanta eroi contemporanei. Belle teste ( certo, con le dovute distinzioni) ma senza troppa voce in capitolo. Ma a farli capitolare ci avrebbe pensato di lì a poco quell’uomo anziano con quegli occhiali alla Orazio Kane . Non era ancora arrivato ma doveva ancora sprigionare tutto il suo sadismo. La carta da giocare per camuffare per bene l’operazione era una roba seria, serissima, d’insegnamento d’avanguardia: il cooperative learning. Tradotto in altri termini: una serie di giochi spacca cervello da eseguire in una stanza di passaggio di quella scuola ormai svuotata dai ragazzi, già in vacanza e per le strade a tirarsi i gavettoni. Muti e zitti. “Patite in silenzio, semmai non aveste patito già abbastanza scherni e sberleffi dal ministero e dai vostri allievi”, sembrava pensare tra sé quell’uomo di chiesa, perciò timorato di Dio.

Ma in certe circostanze la pietà umana non serve. Meglio la rassegnazione. Perché espiare le proprie colpe richiede sacrificio. E quelle ottanta persone in veste di docenti seri e professionalmente ineccepibili dovevano espiare una per una le loro colpe. Ingresso sobrio, puntualità massima. Maniche di camicia corte, nessun sorriso neppure accennato. “Meglio mantenere le distanze dalle mie vittime”. Da vero carnefice, non una parola di troppo. Solo un secco richiamo al silenzio e profonda indifferenza per quel vapore che proveniva da una temperatura che alle 9 di mattina aveva già raggiunto i 35 gradi e passa. L’apprendimento cooperativo doveva ancora iniziare. E sarebbe continuato l’indomani. Due intere giornate con solo una sottilissima pausa pranzo di mezzo. Pretendeva rigore e disciplina, quell’uomo. Law and Order. E’ chiedere troppo a una categoria stropicciata , malmenata, offesa e depredata dai propri onori, per asciare solo oneri.
Ottanta persone d tutte le età: dai 29 ai 60. Ma chissenefrega, i docenti sono docenti e basta. Mica c’è il precario più motivato e il collega ormai stanco e usurato, prossimo alla pensione, che conta i gorni che gli restano e manda avanti a stento la baracca. L'insegnante semmai è un cialtrne demotvato (chissà poi perché...) che si gira i pollici nell'ansia di arrivare cols uo misero stipendio alla fine del mese. Ma questa è fantascienza, mica cronaca, nudo realismo verghiano, analisi obiettiva dei fatti!
Mica si capisce che i ragazzi, o meglio i ragazzi di quella scuola, se li metti a giocare, se la ridono di brutto coinvolgendoti magari nelle migliori scene di “Maial College”? E chissenefrega. Patite fino in fondo. Prima di qualche giorno di maritate vacanze.

Alle 9 e dieci inizia il gioco. Ci si sposta per file. No si capisce più niente. Ma è solo l’inizio. Facce smarrite dalla rottura incomprensibile di legami consolidati. “Prima regola: dovete sempre lavorare con partner diversi”. Era mezzogiorno e la temperatura segnava 40 sopra lo zero. Lì dentro vagava un' insopportabile penombra. Fuori un cielo limpido una luce intensa. Ma incurante di tutto ciò, l’uomo continuava ad ammaestrare, indottrinare, promulgare e diffondere i suoi insegnamenti. “Chi non è interessato la smetta di chiacchierare e se ne vada. Avevo detto alla preside di fare iscrivere al corso solo gente davvero motivata”.
L’uomo imperterrito continuava. La strada era lunga. I giochi, tanti. C’era quello di riconoscere le figure. L’uomo distribuisce i biglietti. “Quanti quadrati riuscite a individuare nella figura? Segnate il numero sul foglietto, e anche il tempo”. Scorrevano i minuti, come macigni sugli animi avviliti e le menti appannate di quei poveri docenti. Uno sguardo d’intesa è troppo, una parola d’incoraggiamento un’eresia. “Silenzio, lavorate!”. L’imperativo s’insinua potente e minaccioso. Poco prima della pausa pranzo arriva l secondo biglietto. “Quanti triangoli individuate? Lei quanti ne vede? E lei? Su’ forza!”, incitava l’uomo incurante del trauma emotivo e cognitivo che stava provocando in quegli ottanta cervelli. Peggio che ficcarli dentro un frullatore. Ma l’uomo, imperterrito, aveva già predisposto il piano b: quello della siesta. E dopo il caffè, si gioca con le carte. Piccole, di cartoncino rigido. Di tutti i colori. I docenti, disposti in gruppi di quattro, devono rimettere in moto la logica e costruire frasi che abbiano un senso. Ma si devono aiutare. In silenzio, senza pronunciare neppure una parola. E a chi sembra di trovarsi nel Castello di Kafka, si allontani. Non è un docente eticamente corretto. La sua etica sta sotto i piedi.

Si tenta, e poi si ritenta. Cooperazione, please. Niente chiacchiera. Il monito tuona come i fulmini scagliati da Giove. E poi gli abbinamenti degli otto personaggi seduti intorno a un tavolo. Chi è grande, il signor Rossi o il signor Marcelli? Chi è milionario, l’imprenditore o l’economista? Ah, forse il signor Stella. Eh no, il signor Stella non può essere il cantante perché siede di fronte al giovane e ha alla sua destra l’imprenditore e il signor Intelligente. I docenti, grondanti di sudore e senza il filo di Arianna, si attorcigliavano nel labirinto di quell’inestricabile rebus, passandosi di continuo foglietti coi disegni di quel maledetto tavolo rotondo attorno a cui erano seduti quegli altrettanto maledetti personaggi senza storia, senza volto, senz’ anima. Ok, la lezione frontale non interessa più a nessuno. Ci vogliono interdipendenza positiva e leadership condivisa. Parlare per mezz’ora di seguito di Boccaccio è più masochista che cooperare a 40 gradi di temperatura e con la fatica di un intero anno d’insegnamento sulle spalle. Non scherziamo!

Parola di Elizabeth Cohen. E se l’ha scritto lei, ci possiamo fidare. L’abilità sociale non s’improvvisa. Si mastica dopo la pratica. “Siete una massa di Egocentrati! Dovete imparare ad essere Eterocentrati”, vomita l’uomo alterato dalla malriuscita del gioco sul turno di parola. Cedere un cartoncino colorato, lanciandolo in mezzo al tavolo, ogni volta che si apriva bocca aveva scatenato quasi una rissa. Altro che talk show televisivi, dibattiti politici, tv trash. I docenti sempre più stremati muovevano a stento gli occhi semichiusi con le pupille dilatate, la bocca era semiaperta, alla ricerca di qualche boccata d'ossigeno in mezzo a un'aria irrespirabile.  Peggio ancora era andata con gli indizi. Ciascun docente doveva ricordare a memoria gli indizi scritti sulle proprie carte e poi cooperare per risalire tutti insieme all’assassino, mentre nei Palazzi del potere Tremonti architettava una manovra economica con l’ennesima stretta sui dipendenti pubblici e la riconferma di oltre 40.000 tagli del personale scolastico. E vabbè, poco importa. L’importante è cooperare. Anzi, apprendere, cooperando. Fino alla fine. Alle ultime battute, agli aneddoti personali. Quando i docenti, ormai fuori gioco, si sventolavano coi ventagli e lo guardavano con estrema malevolenza e rassegnata dannazione. Finita la maratona l’uomo, da vero carnefice, incurante dei cadaveri sparsi, usci in fretta senza voltarsi indietro. Ormai pensava già al lauto compenso per il suo massacro e alle prossime vittime.
Agli ottanta docenti di quella scuola di provincia non restò che raccogliere i pezzi di sé frantumati tra i banchi sudati e sporchi di quella due giorni da incubo e trascinarsi verso casa. La motivazione era cresciuta. Sì, quella di cambiare al più presto lavoro, senz’altro.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 2 luglio 2011

Alberto di Monaco e Charlene Wittstock: "Oui", c'eravamo tanto amati...

Una stretta di mano. L’unico segno tangibile di un amore profondo espresso poco e niente. Per il resto, nessun bacio appassionato, nessun complimento hard sussurrato all'orecchio, nessuno sguardo particolarmente malizioso o rivelatore di una particolare intesa. Solo sguardi furtivi e mezzi sorrisi dello sposo, e occhi ben piantati per  terra dall'inizio alla fine della cerimonia da parte della sposa. Morigerati, alteri, straordinariamente composti. O già stanchi, appassiti, dimessi e arrendevoli a un destino noioso e poco esaltante. Chissà. Il principe Alberto di Monaco e la sua Charlene, avvolta in una nuvola bianca firmata da Giorgio Armani, col volto incasellato in un velo semplice e discreto, alla fine ce l' hanno fatta a pronunciare quel fatidico sì . La cerimonia religiosa nella Corte d’Onore del palazzo Grimaldi trasformata per l’occasione in una cattedrale en plain air, non ha concesso niente o quasi ai fuori onda. Tutto si è svolto rigorosamente secondo protocollo.
I Grimaldi sono arrivati alle 16.30: tra di loro Charlotte Casiraghi, nipote di Alberto, vestita di rosa e con una discreta veletta, insieme al fidanzato. Presenti anche i fratelli, Pierre e Andrea, seguiti dalla principessa Stephanie, che avanzava visibilmente commossa al braccio del suo primogenito, Louis Ducruet.

Tra i primi ad arrivare, i due stilisti coinvolti: Karl Lagerfeld - autore, insieme alla sposa, dell’abito celeste polvere con cui Charlene si era sposata civilmente - e Giorgio Armani. Presenti anche le famiglie reali europee, la principessa Madeleine di Svezia, accompagnata da suo fratello il principe Carl Philip, e la sorella maggiore, la principessa futura regina di Svezia, Victoria, che si e’ sposata l’anno scorso. Direttamente dall’Italia, il vice premier Angelino Alfano, fresco d’investitura diretta come fedelissimo segretario del Pdl, ovvero di Silvio Berlusconi.
Molte le personalità del principato: l’ex musa di Chanel, Ines La Fressange, amica della principessa Carolina, accompagnata dalle figlie Violette e Nine; Clotilde Courau, in rosa corallo, accompagnata dal marito il principe Emanuele Filiberto di Savoia; Roger Moore molto applaudito; l’uomo d’affari, Bernard Arnoult e Bernardette Chirac, con un elegante cappello blu Navy. La top-model Naomi Campbel, in un lungo abito verde smeraldo.

Applauditissimo il presidente francese Nicolas Sarkozy provvisoriamente sprovvisto di moglie (la futura mamma Carla Bruni, in vacanza nella villa di famiglia in costa Azzurra, non poteva affaticarsi troppo).
A scandire i passi lenti della sposa ci hanno pensato le vellutate note di Bach. Charlotte, impeccabile, legge emozionata la Prima Lettura, in un abito corto rosa confetto.
L’”Ave Maria” di Schubert cantata da Andrea Bocelli ci stava come il pane. La decappottabile ibrida, un Lexus LS 600h Landaulet, concepita espressamente per l’occasione e rigorosamente eco-friendly un po’ meno.
Il ricevimento al casinò di Montecarlo, l’opera Garnier, ha riservato una cena preparata dal celebre chef francese Alain Ducasse: una commistione di “sapori di mare e montagna”, ha raccontato lui, specificando che non ci sarà carne nel menù, bensì pesce proveniente dalle acque antistanti il principato, e verdure dell’orto del principe nella tenuta di Rocagel.

A conclusione dei festaggiamenti da favola, uno spettacolo pirotecnico. Le emozioni invece non esplodono affatto. Il problema è uno solo: i due sposi sembrano usciti da una cella frigorifera. Inevitabile il confronto con Grace (che aveva senz'altro un fascino maggiore) per la sposa, ma soprattutto col recente matrimonio di William e Kate, che ora appaiono quasi “spinti”. Già nel giorno del rito civile c’era stato un bacio mesto, a stampo, talmente triste che gli internauti hanno preferito rimuoverlo.
Compostezza regale o fuoco di passione già diventato cenere? La prima notte di nozze, lontano da occhi indiscreti, andrà sicuramente meglio. Si spera disperatamente per gli sposi… Intanto vissero felici e contenti. Perché così ci piace immaginare. Costi quel che costi.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)