Ci sono giorni che il sole non tramonta e durano in eterno perché scolpiti nella memoria collettiva. Il 23 maggio 1992 è uno di questi. È il tragico giorno della “strage di Capaci”, quello in cui Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta furono polverizzati in una frazione di secondo da cinquecento chili di tritolo che “Cosa Nostra” fece esplodere su un tratto dell’autostrada Palermo-Catania, all’altezza dello svincolo di Capaci. Un giorno che Giuseppe Ayala, pm di fiducia di Falcone, ma soprattutto amico fraterno, ricorda ancora come se fosse successo ieri. E l’estate scorsa, quindici anni dopo, ha deciso di raccontare in un libro la storia della loro amicizia, iniziata quando Ayala aveva 36 anni. «Un incontro che mi ha fatto crescere molto, soprattutto come uomo». Il libro è uscito il 13 maggio e s’intitola “Chi ha paura, muore ogni giorno” (Mondadori, pagg. 216, € 17,50). È una frase che appartiene a Paolo Borsellino. «Ho aspettato 15 anni prima di scrivere, per due ragioni», spiega Ayala. «La prima è che il tempo ha reso la mia emotività più contenuta. E questo mi ha permesso di ricostruire fatti ed episodi con maggiore lucidità. E poi, aspettavo di finire la mia esperienza parlamentare. Tanti, troppi mi hanno accusato a torto di aver sfruttato l’amicizia con Giovanni per finire in Parlamento e non volevo alimentare queste maldicenze». Fitto e intenso, il libro ricostruisce il profilo umano del giudice, e lo ricostruisce a pieno proprio perché Ayala trascorreva molto tempo accanto a lui, dentro e fuori dal Palazzo di Giustizia di Palermo. E persino in vacanza.
Ripartiamo da quel fatidico giorno. Lei, per una inspiegabile fatalità, si trovava a Roma. Altrimenti, con molta probabilità, sarebbe finito nel sedile posteriore di quell’auto. Come seppe dell’accaduto? E soprattutto, che cosa provò quando prese coscienza di ciò che era successo?
«Sì, mi trovavo a Roma. Ad un tratto, ricevo la telefonata di mio figlio, che mi suggerisce di accendere la tv perché è appena passata una riga che informa che Giovanni era stato ferito. Mi sono subito allarmato e la prima cosa che ho fatto è stata quella di telefonare al cellulare di Giovanni, che però ho trovato occupato. E allora, mi sono rincuorato, pensando che qualcun altro mi aveva anticipato. Poi invece hanno dato la notizia… Ricordo ancora quando sono stato portato nell’obitorio. C’era un silenzio assoluto. La prima persona a cui ho pensato è stata Paolo Borsellino. Io a quell’epoca ero già parlamentare e col Palazzo di Giustizia di Palermo non avevo più molto a che fare. Però, dopo la morte di Paolo, fui convocato a Palazzo Chigi (c’era il governo Amato). Mi dissero chiaramente che se la mafia continuava su questa linea, c’era il rischio che il prossimo sarei stato io. Allora, mi affidarono subito un massiccio sistema di sicurezza. Ricordo che in quel periodo limitai al massimo i miei ritorni a Palermo».
Che uomo era Giovanni Falcone? Lei che lo conosceva bene, notava particolari differenze tra la dimensione pubblica e quella privata?
«Nient’ affatto. Giovanni era una persona molto riservata e controllata. E lo era tanto in pubblico, quanto in privato. Era un bravissimo magistrato, dotato di un’intelligenza davvero straordinaria. Ma come uomo era ancora meglio. La sua umanità era prorompente, fatta di serietà, bontà e di una gamma di valori che è difficile trovare in giro. Aveva un bellissimo rapporto coi miei figli. Riusciva ad entrare in confidenza con loro con una facilità incredibile, forse per quell’innata capacità di stupirsi».
Che rapporto aveva con la moglie?
«Il loro era un rapporto forte, saldo. Ma entrambi non amavano mostrare i loro sentimenti in pubblico. Pensi che io, in tutto il tempo trascorso con loro, non li ho mai visti darsi un bacio. L’unica volta che è accaduto, è stato in occasione dei festeggiamenti del loro matrimonio. E mi hanno detto: “vedi, lo facciamo per farti contento”».
Gli Anni Novanta sono stati quelli del maxiprocesso, che ha collaudato il cosiddetto “metodo Falcone”, grande eredità per chi è venuto dopo di voi.
«Esatto. Giovanni aveva avuto una straordinaria intuizione, che per fortuna molti colleghi poi seguirono. Cioè quella di inserire i singoli episodi criminosi all’interno di una logica associativa che li spiega in maniera più completa e complessa. Il maxiprocesso infatti è nato per questo. È come un mosaico che rappresenta una figura compiuta».
E Gli Anni Novanta erano quelli in cui i “viddani” di “Cosa Nostra” Riina e Provenzano avevano deciso di colpire duro, con le grandi stragi, per affermare un incontrastato potere sul territorio.
«Se lei ci pensa, a dire il vero per la mafia sarebbe stato molto più facile uccidere Falcone a Roma. Spesso la sera, dopo cena, facevamo lunghe passeggiate, rigorosamente senza scorta. Ma a “Cosa Nostra” non interessava. Voleva dare un forte segnale sul proprio territorio. E, per farlo, aveva scelto una strada ben precisa: quella di sfidare militarmente lo Stato, proprio lì nel suo regno, in Sicilia. Questo fino al 1993, cioè fino a quando ci fu la cattura di Totò Riina. A partire da quel momento, qualcosa nella strategia mafiosa cambiò.
Cioè?
« Quella cattura segnò una chiara frattura nel modo di operare. La mafia si rese conto che continuare su questa linea non le conveniva e decise di tornare all’antica».
Oggi cos’è cambiato da allora? La mafia che fisionomia ha assunto?
«Io credo che oggi la mafia si sia notevolmente imborghesita, infiltrandosi nei gangli borghesi del potere. La vicenda Aiello ne è l’emblema. La mia sensazione è che stia diventando sempre più classe dirigente».
Lei, Falcone e Borsellino eravate uomini d’azione, che stavano in trincea e la mafia la combattevano davvero, con le azioni giudiziarie e non con le parole. Insomma, l’esatto contrario di quelli che Leonardo Sciascia definiva i parolai e inattivi “ professionisti dell’antimafia”. Come dire: anche voi, in un certo senso, eravate “uomini d’onore”.
«Beh, a dirla tutta, i veri uomini d’onore eravamo proprio noi. Mentre i mafiosi lo erano nel senso distorto. Noi rischiavamo tutti i giorni la vita e lo sapevamo. Ed è chiaro che la paura c’era. Mi stupisco di certe fiction televisive che hanno dipinto Giovanni come un eroe. Noi non eravamo eroi. Eravamo uomini, e siciliani, cioè persone che quando imboccano una strada, difficilmente tornano indietro. E poi, la nostra àncora di salvezza era l’ironia. Non mi stancherò mai di dirlo. La mia era buona, quella di Paolo, dissacrante. Forse quella di Giovanni era un po’ demenziale, ma era il nostro modo di esorcizzare i problemi. Una naturale forma di compensazione».
Pensa che oggi le mafie del Sud, rispetto a quelle del Nord, rappresentate dalle lobby bancarie, siano in crisi? Oppure siano forti come prima, più di prima?
«Guardi, personalmente non m’inscrivo alla scuola di chi pensa che la mafia sia più forte o più debole. Secondo me oggi è diventata più subdola e, di conseguenza, più pericolosa».
Secondo lei, il quarto governo Berlusconi è partito col piede giusto?
«Credo di sì. Questo governo ha il grande vantaggio di possedere una larga maggioranza, tale da poter tranquillamente governare. E poi ha ottenuto anche un consistente consenso elettorale. Bisogna rendersene conto e lavorare bene. Questo governo non può sbagliare. E soprattutto, il Paese non può certo permettersi di perdere anche questo treno».
Non c’è giorno in cui il catanese Ivan Lo Bello, presidente degli Industriali siciliani, non organizzi qualche iniziativa antiracket. E proprio dalla classe produttiva siciliana da qualche mese è stato sollevato il polverone della ferma ribellione contro il pizzo, arrivando a proporre l’espulsione da Confindustria di tutti gli imprenditori che si piegano ancora a questa logica distorta.
«Sì, sono convinto che questo sia un segnale importante, di cui penso tutto il bene possibile».
Il governo regionale guidato da Raffaele Lombardo sarà in grado di dare le risposte che i siciliani si attendono?
«Spero di sì. Pur non conoscendo bene Lombardo (l’ho incontrato una sola volta su un volo), mi dà l’aria di una persona intelligente. E poi, plaudo all’iniziativa di affidare un assessorato molto critico della nostra regione, quello della sanità, al collega Russo, una persona davvero in gamba. Questa è stata secondo me un’ottima scelta».
Insomma, dottor Ayala, siamo sulla buona strada?
«È ancora presto per dirlo. Ma soprattutto bisogna capire una cosa fondamentale: la mafia non si combatte soltanto con la polizia e con la magistratura, ma si combatte con la politica. Falcone diceva: “la mafia si combatte a Palermo, ma si perde a Roma. Occorre lavorare molto su questo».
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)
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3 commenti:
Ciao Elena,
ti lascio un commento per complimentarmi per la bella intervista e per farti tanti auguri per questo blog che sarà sempre interessante.
Ne sono certo.
Un caro saluto
Massimo Maugeri
www.letteratitudine.blog.kataweb.it
Ma dove è stata pubblicata questa intervista?
L.G.
Attendo ancora che qualcuno la accolga... E.
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