martedì 30 dicembre 2008

Calendari 2009: volano i veli ma crollano le vendite

Un calendario non si rifiuta mai. Vale per chi lo fa e anche per chi lo compra. E, alle soglie del 2009, ancora una volta si ricomincia daccapo. O meglio da dove eravamo rimasti. E cioè da un’ammiccante Sabrina Ferilli fotografata in bianco e nero e in tutte le salse o da un’intensa Monica Bellucci sdraiata come mamma l’ha fatta su un’amaca.

Un colpo da duecento milioni a testa. Ma ogni cosa ha il suo prezzo. E se questo è quello con cui vengono pagate le star per mostrarsi da gennaio a dicembre senza veli, tra le palme dei Caraibi e le dune sabbiose dell’Africa, diciamo pure che “se po’ fa’”. A chi compra, ridono gli occhi. Perché mica è detto che si debba essere per forza un camionista che corre sull’autostrada per voler trascorrere i mesi dell’anno che ci attende in compagnia di un lato A coinvolgente e di un lato B avvolgente.

L’operazione del “vedo tutto e anche troppo” ha da tempo sostituito a pieno quella di gran lunga più allettante del “vedo-non vedo”. Anche se, a dirla tutta, quest’anno la moda dei calendari sexy, dal Pirelli in giù, appare in sordina, senza stelle e strisce di un certo spessore mediatico. Nel senso che “è sceso il livello dei personaggi”, come ha sottolineato senza mezzi termini Paolo Bonanni, ex direttore di Max e GQ. Ora solo “letterine, letteronze, seconde o terze fidanzate di un calciatore”.

E Catania non smentisce il trend nazionale. Basta fare un rapido giro per le edicole della città per accorgersi di come ci sia stato un calo delle vendite pari al 30 per cento. Ma quest’anno chi ha messo in mostra anima e corpo (soprattutto quest’ultimo) per i dodici mesi del 2009?
Dopo il boom 2008 di Melita Toniolo del Grande Fratello, quest’anno la patata bollente è passata a Thiago Barcelos, il brasiliano dell'ultima edizione del reality e agli scatti bolenti dell’ex tronista Costantino Vitagliano, l’uomo per tutte le occasioni. E, sul fronte femminile, alle brasiliane Alina Domingos e Regina Fioresi, direttamente da Rio de Janeiro, a Sara Varone, l'ex dell'ex della Ferilli e a Amy Weber, l'attrice e modella americana tutta curve. C’è perfino l’ex suora di clausura di Todi, ora sex symbol, Letizia Cerchia.

In fatto di calendari, dunque, i personaggi dei reality, innanzitutto. E sempre meno volti noti.
Sarà che sono scesi i compensi, che ora oscillano tra i dieci e i quaranta mila euro. Tant’è che Martina Stella ha detto no. E non è la sola ad essersi tirata indietro. Ma anche le idee più bizzarre, come il calendario delle mamme e quello delle contadine, non sembrano entusiasmare più di tanto.

Non resta che affidarsi a qualche trovata salva vendite che magari, perché no, coinvolga le fascinose ministre dell’attuale governo (Maria Stella Gelmini è già stata invitata da Tinto Brass), o magari rispolverare i piccoli calendari profumati che dava in regalo il barbiere, morigerato diletto dei nostri padri.

Certo, se proprio si è messi male, c’è sempre frate Indovino con le sue ricette di cucina e i rimedi della nonna, o fra’ Bonaventura con la sua barba invadente e rassicurante. Oppure, novità 2009, il calendario del Padre Maestro (al secolo, il beato Antonio Lucci), che fa gola alla generazione over settanta. E qui, quanto meno la pace dei sensi è assicurata.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 31/12/2008

L'inaugurazione dell'Anno accademico, alla facoltà di Lettere di Catania, si consuma a cena

C’è odore di saetava nella piccola e discreta aula dei seminari dell’ex monastero del Benedettini. Lungo il corridoio che conduce alle biblioteche riunite “Civica e Ursino Recupero” un valzer di tavoli imbanditi fa capolino tra gli accademici, le autorità, i rappresentanti delle associazioni degli immigrati e la nutrita folla di curiosi e invitati. Nel Coro di Notte s’inaugura l’anno accademico della facoltà di Lettere.

Più che un’inaugurazione coi santi crismi universitari, si tratta di un incontro con la città e i suoi immigrati che si realizza a cena. Un po’ come a una cena di lavoro, tra una portata di kisir (l’insalata di grano) e di mercemek (polpettine di lenticchie rosse), che Adeel Abbas - rifugiato politico afghano di 25 anni a cui i talebani hanno ucciso nella sua stessa casa e in un colpo solo il padre e il fratello minore - e Inci Sarica, 23 anni e due grandi occhi neri, di Iznir (Turchia), in tuta grigio fumo e scarpe da tennis ( entrambi volontari dell’associazione Multi Kulti) hanno preparato con cura da metà pomeriggio.

“In Afghanistan non si può vivere”, dice Adeel mentre allinea in fila indiana sul tavolo ovale gli ultimi piatti di portata. Eppure la speranza di un dialogo vivo e costruttivo, di uno scambio culturale vero e autentico esiste ancora. “La facoltà di Lettere vuole dare questo segnale”, sottolinea il preside Enrico Iachello: “Finiamola con lo stereotipo degli sbarchi di Lampedusa. Gli immigrati che vivono a Catania e nel nostro Paese da anni e ne fanno parte integrante non devono rappresentare un problema per la nostra sicurezza, ma un’importante risorsa”. Gli fa eco la vicepreside Maria Dora Spadaro, che richiama la tradizione storica tutta siciliana dell’incontro e dello scambio tra i popoli.

La serata, organizzata in collaborazione con la Casa dei popoli, nata qualche anno fa da un’idea di Antonio Di Grado, allora assessore alla cultura della giunta Bianco, ha riscontrato il consenso del comune di Catania e dell’assessorato alla famiglia.

“E’ un fatto nuovo e significativo per Catania. In un momento di assoluta difficoltà per la pace nel mondo dobbiamo rinnovare la nostra capacità di integrare varie culture”, spiega il primo cittadino Raffaele Stancanelli. “Gli immigrati costituiscono una risorsa e insieme un’opportunità”, precisa l’assessore comunale alla Famiglia Marco Belluardo.

In prima fila, Mufid Abu Touq, imam della moschea di Catania dal 1981, testa alta e schiena dritta, stringe tra le mani il suo rosario. “Catania è accogliente, io ci ho trascorso gli anni più belli della mia vita”, dice. Al suo fianco siede il reverendo Seelananda, con la sua tunica color arancio e l’inseparabile watapata, il ventaglio che è segno di potere in Sri Lanka. Il sovrintendente al Teatro Massimo “Vincenzo Bellini”, Antonio Fiumefreddo, pone l’accento sulla sottile e significativa differenza tra “tollerare” (“è un po’ come sopportare) e “accogliere”, e aggiunge: “Quale occasione più diretta per parlarsi che quella di cenare tutti insieme?”. Del resto, si sa : i più grossi affari sono stati conclusi quasi sempre a tavola.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 30/12/2008

sabato 27 dicembre 2008

Lui… lei… la città… E il vento che sparge i desideri nella notte

I suoi grandi occhi castani contornati di matita nera e ombretto grigio, come fari nella notte, sprigionavano un’irrefrenabile voglia di vivere, godere, amare. Entrò in quel locale a passo felpato, sospesa nei suoi tacchi rosso fuoco alti dodici centimetri. Esile come una canna, la pelle del corpo liscia come seta sapeva di bergamotto che lasciava dietro di sé, nell’aria che attraversava, ad ogni passo.

Le luci soffuse delle candele sui tavoli ovali le illuminavano di un riflesso pallido e ramato i lunghi capelli neri che le incorniciavano il volto, una serie di riccioli le scendevano sulle spalle.
Miss Sixty era naturalmente sensuale, con quelle irresistibili labbra color glicine e un mezzo sorriso stampato in faccia. Sembrava prendersi gioco di tutto e di tutti e non prendere mai niente troppo sul serio. In realtà, si sentiva addosso il peso di ogni cosa. Perfino dello sguardo insistente degli uomini che la spogliavano con gli occhi e col cui desiderio non aveva ancora imparato a convivere.

Il tubino nero di raso l’avvolgeva con soffice delicatezza. Le sue curve appena accennate erano un inquietante mix di carnalità e grazia, sacro e profano, candido e perverso.

Jack sbucò all’improvviso, con la sua giacca marrone di velluto, i soliti occhiali da vista Bikkembergs, mentre lei si era appoggiata da qualche istante allo sgabello rivestito di pelle beidge a forma di conchiglia del bancone viola, fumando una sigaretta, col suo bicchiere di whisky in mano.

Le gambe lunghe e magre, rivestite da autoreggenti nere, accavallate l’una sull’altra, avevano fatto salire talmente tanto il tubino che l’effetto “vedo-non vedo” lasciava scoprire quasi gli slip. Il collo di cigno, come un dipinto di Modigliani, era leggermente inclinato, l’espressione più che mai sognante, il seno piccolo e sodo sotto il vestito aveva vinto ogni timidezza.

Appena lo vide, ebbe un sussulto, un sorriso le accese il volto, mentre strinse la borsetta a sé e iniziò a giocare col ghiaccio del bicchiere che avvicinò al collo. Un brivido le corse lungo tutta la schiena. In sottofondo, lo stereo diffondeva l'avvolgente melodia di "Let the Music Play" di Barry White.

Jack non era da solo
. Ma aveva accanto a sé una misteriosa donna che lei per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto guardare. Eppure lo fece. Fissò lo sguardo su di lei. E fu un attimo di eterno smarrimento. Lui, vago e distratto, appena varcata la soglia dell’ingresso, posò una mano sulla spalla della signorina che lo accompagnava e le indicò il tavolo attorno al quale sedersi.
Miss Sixty a stento tratteneva il fiato. Sarebbe voluta sprofondare in una voragine. Tutto avrebbe sopportato, ma non questo imbarazzante disagio. Ora non le restava che sperare che Jack non si accorgesse di lei. Ma sapeva che prima o poi sarebbe accaduto.

All’improvviso Jack si voltò verso il lungo bancone in stile lounge bar
e indicò con l’indice un paio di bottiglie di vetro limpido e cristallino piene di vodka. E poi, non si sa come, finì per incrociare quei grandi occhi castani che lo fissavano con malizia e incontenibile desiderio.
La calda voce di Barry White ora cantava con insistenza "Can't Get Enough of Your Love, Babe". C’era uno strano odore nell’aria. Come di incenso misto a tabacco. In sala, il fumo avvolgeva tutto di nebbia, donando alla sala un’atmosfera surreale.

Miss Sixty e Jack erano lontani eppur vicini. Circondati da mille persone, eppur soli. Ad ogni boccata di fumo, lei lo eccitava sempre di più. Finché lui si alzò e la raggiunse. L’afferrò con decisione e fermezza per il braccio sinistro e la portò nella toilette in fondo al corridoio, nell’ala destra della sala. Appena in tempo per chiudere la porta dietro che la soffocò con un bacio avvolgente, fino a non farla più respirare. Un bacio lungo, delicato e forte insieme, dal gusto dolce e amaro.

La signorina rimasta al tavolo iniziò a lamentarsi col cameriere di turno. Ma Jack tardava ad arrivare. Nessuno seppe che cosa accadde dentro quella toilette rivestita di mattonelle verdi e lucide. Per loro il tempo si era fermato lì, in quello spazio di cinquanta metri quadrati. Sull’ultima nota di "Change", qualcosa era davvero cambiata. Jack e Miss Sixty attraversarono il locale e schivarono i tavoli tenendosi per mano. Camminavano a passo sincronizzato, senza dirsi neppure una parola. Volarono fuori in fretta. Avevano perso fin troppo tempo.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 25 dicembre 2008

Povia e… “il suo fumetto (antigay) di strane parole”

Se sotto sotto volesse sottintendere che un gay, se diventa etero, guarisce da una malattia, avrebbe tutte le caratteristiche di un "pensiero debole". Di certo, quello di Povia - il cantautore milanese salito alla ribalta del grande pubblico grazie alla cantilenante “I bambini fanno ooh” e poi per aver vinto con “Il piccione” e il verso onomatopeico del suo becco l’edizione 2006 del festival di Sanremo – sui gay non è certo un pensiero stupendo. Tutto nasce dal racconto in musica di un ripensamento decisivo.

La canzoncina ben ritmata, orecchiabile, a effetto, racconta di Luca, ex “mezzo uomo”, ora uomo con tutti i crismi. La causa: una donna che incontra e gli fa cambiare idea. Una doccia fredda. Che ha sollevato le ire dell’Arcigay che ora minaccia di «bloccare» il festival nel caso la Rai non chiarisca la sua posizione riguardo al brano che, secondo l'associazione, potrebbe contenere posizioni omofobe. “Luca è gay”, s’intitola la canzone. E fino a qui, nulla di strano. Peccato però che Povia si sia studiato un modo per far parlare di sé e magari fare un po’ di pubblicità in anteprima a un festival depresso e deprimente.

L’Arcigay è partita da facebook, col lancio di un gruppo intitolato “Non lasciamo che Povia canti di ex gay a Sanremo”. Queste le motivazioni: “Formiamo un grande gruppo, e reagiamo compatti contro la Rai e chi di dovere. Non si può nel 2008 arrivare su un palcoscenico nazionale a sostenere che gay e lesbiche sono malati, sbagliati o immaturi”.
In poche ore hanno aderito migliaia di internauti e la Rai ha subito iniziato a ricevere una serie di email di protesta. Poi, si è fatta largo la minaccia di bloccare il festival nel caso in cui “il testo del brano si riferisca a cure riparative”.

Povia al momento preferisce tacere. Sarà che si è già affezionato alla rima perfetta, baciata, incollata:Io ero gay, ma ora sto con lei”. E il suo volto è quello di sempre, ingenuo e sorridente.

Il bello è che, al riguardo, la fedina penale di Povia non è proprio pulita. Tant’è che negli archivi di Panorama si conserva un’intervista in cui il cantante afferma: «Gay non si nasce, lo si diventa in base a chi frequenti. Anch'io ho avuto una fase gay, è durata sette mesi e poi l'ho superata. E ho anche convertito due miei amici che credevano di essere gay e invece adesso si sono sposati». Con un avvertimento: «Se Bonolis e il suo direttore musicale intendono mandare in scena uno spottone clerical-reazionario contro la dignità delle persone omosessuali, sappiano fin d'ora che la nostra reazione sarà durissima, rumorosa e organizzata».

Povia lo sa, c’è sempre tempo per cambiare. Gusti sessuali, certo. Ma anche i testi un po’ miopi di alcune canzoni.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

Natale 2008: qualche fregatura in più sotto l'albero

Un Natale coi fiocchi non lo si è più visto da tempo. Soltanto sole, cielo azzurro e sgombro da nuvole. Al sud è quasi primavera. Il Natale di pioggia e di neve, con le renne e gli sci ai piedi è solo al nord, si sa. Anche quest’anno. Tant’è, Catania è rivestita di luce, Torino è quasi al buio.

Dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, anche quest'anno abbiamo impacchettato ancora una volta i nostri regali sotto l’albero, e li abbiamo pure scartati. Ma dentro ci abbiamo trovato qualche fregatura in più. Effetto del crollo dell’economia di mercato, a cui ci eravamo affidati anima e corpo. Effetto di quella strana voglia di far niente che sempre più spesso ci assale. Effetto della corruzione ormai dilagante della politica. Effetto dei reality, e pure di facebook, dove il tam tam di auguri natalizi rimbalza ormai da giorni. Tutti amici, tutti pronti a scambiarsi auguri e baci virtuali, immaginando tempi migliori da vivere in carne e ossa.

Un Natale come pochi, quello 2008, di certo il primo per Barack Obama da presidente degli Stati Uniti e per Vladimir Luxuria, eroina pop porno di un comunismo ormai tramontato, da vincitrice dell’Isola dei Famosi.

Un Natale come tanti per chi non ha un tetto sotto cui dormire o qualcuno con cui stare e a stento può concedersi un piatto caldo. Un Natale come tanti anche per chi ha cambiato vita o città, per chi ripensa con nostalgia al passato e per chi invece si affida ciecamente al futuro, con l’ebbrezza del mistero e dell’ignoto.

L’importante è fare una scelta precisa senza accapigliarsi troppo tra amici e parenti: panettone o pandoro. Alla fine del pranzo, non ci si può ritrovare con due piedi in una scarpa. O l’uno o l’altro. Nello stomaco, le due cose insieme proprio non vanno.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 23 dicembre 2008

Santa Claus e i suoi eccessi

Certe credenze è meglio non sfatarle, se non si vuole provocare un terremoto e in certi casi rischiare perfino il posto di lavoro. Com’è accaduto a una maestra un po’ troppo scettica sull’esistenza di Babbo Natale. Ebbene sì, quell'uomo un po' panciuto con la barba bianca che distribuisce doni ai bambini su un carretto trainato dalle renne, esiste eccome. E guai a metterlo in dubbio. Negare l'esistenza di Babbo Natale infatti, in qualche località europea, è costato caro a una maestra supplente in una scuola primaria inglese. Durante una discussione con i bambini, la maestra ha detto loro che i regali che si trovano sotto l'albero non sono consegnati da Santa Claus perché questo personaggio non esiste. Gli alunni, sconvolti dalla rivelazione, hanno raccontato tutto ai genitori, i quali si sono lamentati immediatamente protestando con la direttrice della scuola. La supplente quindi è stata richiamata all'ordine e licenziata, un maestro ha detto ai bambini che l'altra maestra si era sbagliata e ai genitori è stata inviata una lettera di scuse firmata dalla direttrice in persona. Solo così tanti bambini hanno ripreso a scrivere le loro letterine.

Meglio l’incanto della credenza, dunque, che la ferocia di una realtà spesso spietata, che nega i miracoli e anestetizza i sogni. E allora si lascino pure i bambini nel loro mondo fatato, avranno tempo per crescere e accorgersi che la vita è tutt’altra cosa. E magari un giorno si ritroveranno adulti, a rimpiangere Babbo Natale e i suoi capricci. Ma arrivare a licenziare una maestra dal proprio posto di lavoro francamente sembra un'azione fuori luogo e fuori da ogni logica.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 16 dicembre 2008

Il castello apre le braccia al Natale

Come chi si è appena svegliato da un lungo letargo, i castelli medievali, di cui la Sicilia è piena, hanno deciso di rivivere nella contemporaneità del presente. E hanno scelto di farlo proprio a Natale.

Così, in questi giorni che anticipano le feste, con le lucine colorate che animano le strade, le insegne dei negozi con le facce simpatiche e un po’ bizzarre di Babbo Natale appese in vetrina, gli austeri e grigi castelli che all’apparenza sembravano in netta controtendenza con l’atmosfera natalizia, ci appaiono d’un tratto in piena sintonia col clima natalizio.
Questo grazie a una serie di iniziative che immergono nel presente i luoghi architettonici medievali che col tempo si sono arricchiti di significati simbolici legati a bisogni e paure del nostro immaginario.

Il castello rinasce a nuova vita, con castellane e cavalieri dei nostri giorni rappresentati da chi, sempre più attanagliato dall’angoscia di aver perso un lavoro o di esserne alla disperata ricerca, preferisce fuggire via lontano dalla realtà, con la mente e con l’anima, abbandonandosi alle atmosfere incantate di dame e giullari di corte, per ritrovare in un passato legittimato da una grande storia quella serenità e quelle suggestioni che il presente non gli offre.

I castelli dunque si aprono al pubblico, si trasformano in veri e propri luoghi di ritrovo, di scambio culturale, al pari dei musei e delle sale da the. E lo fanno grazie a itinerari che ne diffondono la storia, concerti musicali, rappresentazioni storiche e teatrali, mostre e giochi d’ogni sorta.

Un modo intelligente per far rivivere luoghi che hanno segnato un’epoca storica ormai morta e sepolta. Ma soprattutto l’occasione buona per dimostrare finalmente che un bene architettonico non è qualcosa a sè stante, da abbandonare al proprio destino di archeologia appassita e tramontata e da lasciar marcire in balia di polvere e muffa, e magari pure delle crepe.

Un’operazione audace, che fa pendant con la tradizione già consolidata dei presepi viventi come quello di Sutera, Agira e Monterosso Almo, a cui la Sicilia è fortemente legata.

Un restyling in piena regola, ma senza violentare la natura originaria del luogo. Per non tradirne troppo lo spirito. Stavolta, la proposta è seria e concreta, niente a che vedere coi soliti castelli di carta che si fanno con la mente, né tantomeno con quei castelli di desideri che ci ritroviamo davanti ogni volta che fabbrichiamo l’ennesimo sogno, e neppure con quelli degli incubi di kafkiana memoria che riscopriamo quando tv e giornali ci trasmettono cattive notizie (cosa che purtroppo avviene un giorno sì, e l’altro pure). Sarà che c’è la crisi economica e finanziaria, sarà che vacillano molti punti di riferimento e, siccome non s’intravede un futuro dai contorni chiari, si preferisce riscoprire il passato, eterno testimone di una storia che conta.

Ma l’ardita operazione ha in sé anche un risvolto esistenziale. Un po’ come quando si decide di affidarsi a qualcosa di solido, che sia capace di sostenere le nostre angosce e insicurezze quotidiane. Ecco allora che i castelli, con le loro torri maestose, le fortificazioni, le merlature e le mura di cinta, tra misteri e ombre, incarnano la solidità di cui tutti abbiamo bisogno. Pagine di storia scritte solo a metà, perché c’è ancora qualcos’altro da scrivere.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 17/12/2008

La Sicilia e i suoi castelli

La storia dei castelli e delle torri in Sicilia racconta della lotta tra poteri. Pietre massicce, potenti, su cui sono incisi secoli di storia, assedi e duelli, ma anche amori e delitti, tradimenti e veleni.

La Sicilia vanta oltre duecento castelli sopravvissuti, perché tanti sono stati i suoi invasori e tutti hanno lasciato un segno ben visibile del loro passaggio.
Poco più che singole torri cintate da un muro durante il regno normanno, grandiose e raffinate regge costruite dagli Altavilla, quando Ruggero strappò la Sicilia agli Arabi e nel 1130 fondò il suo regno.

Ago della bilancia in tutta la storia castellana dell'isola è la lotta tra Baronaggio e Corona, che si rifletterà sul numero, la grandezza e l'importanza degli edifici. Così, il 1300 sarà il secolo d'oro dei castelli dei ricchissimi baroni siciliani (i Ventimiglia, i Chiaramonte, i Peralta), mentre il Duecento con Federico II di Svevia e il genio costruttivo di Riccardo da Lentini aveva visto l'erezione di un grandioso sistema di fortificazioni che annovera i più bei castelli regi del Duecento italiano.

Alle porte di Catania si staglia l'imponente castello di Aci. Ed è proprio qui, sulla costa ionica, che Federico crea i suoi gioielli, unici per l'originalità delle concezioni volumetriche rispetto agli edifici di età normanna (uno è il castello Ursino di Catania, che nel XIV secolo fu la residenza dei reali aragonesi).

Spostandoci ell'entroterra, ecco il dongione di Paternò, il più grande dell'isola, attribuito a Ruggero il Normanno: dalle gigantesche bifore aperte forse da Federico II che vi soggiornò a più riprese, si ha un panorama mozzafiato sull'Etna e sulla piana di Catania.

Così anche nella vicina torre di Adrano, molto simile per tipologia, anch'essa una creatura di Ruggero il Gran Conte (1073) anche se quello che vediamo è forse un rifacimento trecentesco.Avanzando verso il mare e di quattro secoli di storia, ci si imbatte nella fortezza di Brucoli, nel Siracusano, il cui nucleo originario costruito tra il 1462 e il 1467 venne munito di bastioni e di torri angolari nel XVI secolo, a difesa dai corsari.

Ma a dominare la scena ionica è ancora Federico. Poco più in là infatti incontriamo altri due capolavori del grande imperatore svevo: il fortilizio di Augusta, a pianta quadrata con torri quadrate agli angoli e il castello Maniace di Siracusa, che differisce dal precedente per le torri che qui sono rotonde.

Tappa d'obbligo è Erice, l'antica città fortificata alle spalle di Trapani. Ancora nel Trapanese spicca il castello di Alcamo, proprio nel centro abitato, costruito molto probabilmente dal conte Raimondo Peralta sotto Pietro II d'Aragona. Il castello di Montalbano, sui monti Nebrodi, rientra nel grande progetto federiciano di dotare la Sicilia di "circuiti forti" a difesa del territorio. Edificato nella forma attuale tra il 1302 e il 1311, è l'unico esempio riconosciuto, nell'isola, di palazzo residenziale trecentesco.Particolarissima è invece la suggestiva rocca di capo Sant'Alessio, arroccato come un nido d'aquila sull'omonimo promontorio.

In tanta severità costruttiva, una nota bizzarra la concede il castello di Donnafugata, assai più recente perché edificato nella seconda metà dell'Ottocento dal barone Corrado Arezzo. Nell'Ennese, spettacolare è la fortezza di Sperlinga, scavata in una rupe dei monti Nebrodi. Qui, durante la guerra del Vespro (1282), si rifugiarono gli Angioini e per tredici mesi il castello oppose strenua resistenza alle armate dei ribelli siciliani.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 17/12/2008 (nella foto, il Castello di Acicastello, Ct)

Intrighi e amori nei castelli della letteratura


I castelli della letteratura sono fatti di parole che si rincorrono sulla carta. Ma spesso sono quelli veri a ispirare le fantasie letterarie di molti scrittori.
Robin Hood, per esempio, li saccheggiava con le sue rapide incursioni, per sottrarre ai ricchi e dare ai poveri, già nel ciclo di ballate inglesi del XIV secolo, in cui la leggendaria figura dell’eroe ribelle, leale e generoso, incarnava l’espressione popolare del risentimento dei Sassoni oppressi nei confronti dei conquistatori normanni.


Attraverso gli amori tra cavalieri e castellane, la letteratura medievale realizza l’incontro tra ceti diversi. Chi non ricorda, ne “I cavalieri della Tavola rotonda” di Chrétien de Troyes, l’appassionante liaison tra Mordred e la bella Ginevra, moglie di Artù, leggendario re della Britannia, ritratto nei panni di Semola nel cartoon di Walt Disney “La spada nella roccia”.

L’ “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto (prima stesura nel 1505), per dirla con Calvino “quell’immensa partita di scacchi che si gioca sulla carta geografica del mondo”, ci regala l’impalcatura di un poema cavalleresco in cui si fa largo la figura del castello di Atlante, dove tutto può accadere perché vi regna l’incantesimo, perfino la liberazione di Orlando e di altri cavalieri per virtù dell’anello di Angelica (XII, 29).


Nel 1819 Walter Scott pubblica l’ “Ivanhoe”, romanzo storico ambientato negli ultimi anni del XII secolo. Tra le pagine del libro, i castelli spadroneggiano, facendo da sfondo a diverse situazioni, come ad esempio la cena della giostra, nella quale Vilfredo d’Ivanhoe vince contro ogni avversario, ma proprio all’ultimo momento, quando sta per essere proclamato vincitore, viene sfidato da un misterioso cavaliere bardato di nero, sul cui scudo è cesellato l’arrogante motto "Cave adsum" (“Attento, sono qui”).


Spesso, durante gli anni di persecuzione delle streghe, i sotterranei del castello sono stati i luoghi dei più atroci delitti. Lì venivano tenuti i prigionieri in tempo di guerra.
Nell’Ottocento, la più importante figura del panorama artistico ad aver focalizzato il suo interesse proprio sui sotterranei è Edgar Allan Poe, narratore, poeta e saggista statunitense, che ne "Il ritratto ovale" del 1842 ritrae con cura la camera da letto di un castello, sottolineandone l’aria misteriosa e austera.
E sempre Poe, nel capolavoro indiscusso "Il pozzo e il pendolo" (1843) - racconto psicologico in cui vengono narrate le riflessioni di un condannato che, immobilizzato sotto una lama che si abbassa ad ogni oscillazione, aspetta nel terrore che gli squarci il ventre e finalmente lo uccida – fa del castello l’elemento catalizzatore di un’idea negativa del Medioevo, la denuncia delle atroci barbarie alle quali l’uomo si abbandonò durante questo periodo.


La letteratura del Novecento non declina l’invito e il castello dà il titolo all’opera più ambiziosa e importante di Frank Kafka, pubblicata postuma nel 1926. Qui, il castello incombe cupo e minaccioso sul paesaggio, facendosi metafora delle frustrazioni e delle angosce dell’uomo contemporaneo.


Immerso in un fitto bosco, “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino (1969) dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cortei reali e semplici viandanti. Un po’ come accade ai nostri giorni, lungo le strade.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 17/12/2008

Che terrore, in quel castello cinematografico


E’ il luogo del terrore più cupo, rifugio di una malvagità astratta. Nel cinema dei due dopoguerra, il castello domina la scena e assume contorni spettrali. Proprio a voler simboleggiare lo sconvolgimento di un’epoca storica.


Le scenografie si fanno allucinanti e contorte e vengono firmate da grandi nomi del grande schermo come Paul Wegener (“Der Golem” , pellicola del 1914 di cui l’attore, regista e sceneggiatore tedesco fu anche il produttore, tratta dall’ omonimo romanzo di Gustav Meyrink, racconta di un mostro d’argilla creato magicamente da un rabbino durante il XVI secolo per proteggere gli abitanti del ghetto dalle persecuzioni volute dall'imperatore Rodolfo II), Murnau, Leni, Robinson e Grune.


Non a caso, prima ancora di questo periodo, nacquero due delle più importanti figure della narrativa - e poi del cinema- horror mondiale: "Frankenstein o il moderno Prometeo" (1818) e "Dracula" (1897), il romanzo epistolare che finalmente canonizzò uno degli archetipi della letteratura fantastica e dell’orrore, il vampiro.


Molte opere descrivono il castello come qualcosa di negativo, buio e pericoloso. Ma c’è anche un’altra faccia della cinematografia: quella della parodia e della satira, della presa in giro di motivi e gusti postmedioevali che invece avevano considerato questa struttura come una cosa seria.


Per esempio Mel Brooks, famosissimo regista di film comici come il recente "Robin Hood - un uomo in calzamaglia" (1993) e "Frankenstein Junior" (1974), con Gene Wilder alla sua seconda apparizione sul set. Qui il castello sfoggia tutti i suoi aspetti, ma sotto un’altra luce: quella dell’ironia pungente che critica tutto, dalla celebre scena in cui vengono messi in ridicolo i classici passaggi segreti a quella in cui viene schernita la leggendaria figura del dottor Frankenstein.


Negli ultimi tempi, con l’avvento dell’informatica, il cinema mondiale si è rinnovato, sfruttando tecniche prima sconosciute. Col computer, per esempio, è stato girato il cartone animato "La Bella e la Bestia" del 1991, prodotto dalla Walt Disney, in cui il castello è stato completamente sviluppato via software, generando un effetto di tridimensionalità assai realistico. Questa volta il castello diventa pura cornice dei fatti narrati e, a seconda del loro sviluppo, si modifica in modo da sembrare adatto alla situazione. Così, quando il protagonista sarà ancora bestia, il castello apparirà austero e tetro, mentre alla fine, quando la vicenda si sarà risolta, il castello, illuminato da un sole radioso, diventerà lo sfondo di un fatato "...e vissero felici e contenti".

Numerosi film in cui è presente il castello sono stati interpretati da Vincent Price – l’ attore cinematografico e teatrale statunitense di “Vertigine” (1944) e de “Il castello di Dragonwyck” del 1946 - che i più profani ricordano nella sua ultima autoironica comparsa in "Edward mani di forbice" (1990) di Tim Burton.


Il castello, dunque, seppure eternamente legato all’immagine di un Medioevo oscuro e barbaro, sarà anche ricordato come sfondo di epiche avventure di cavalieri coraggiosi e di esaltanti favole “sopra le righe”. Immortalato per sempre, oltre che grazie all’abilità di alcuni scrittori, anche per la magia del cinema che Codice Hays non esitava a definire “la prima forma di divertimento”.


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 17/12/2008

Il Castello di Donnafugata e la leggenda della donna fuggita


Il castello di Donnafugata si perde nella leggenda, che vuole la regina Bianca di Navarra rinchiusa dal perfido conte Bernardo Cabrera, signore della Contea di Modica, in una stanza dalla quale riuscì a fuggire attraverso le gallerie che conducevano nella campagna che circondava il palazzo. Da qui il nome dialettale “Ronnafugata”, cioè “donna fuggita”. Abile stratega, scaltro, crudele e potente come nessun altro sull’isola, il conte Bernardo era temuto persino dai sovrani di Palermo che non fecero nulla per ridimensionare il suo potere. Entrato nella leggenda, divenne presto oggetto di una serie di storie popolari. Si diceva, ad esempio, che nascondesse un tesoro consistente in una capra tutta d’oro, la quale sarebbe saltata fuori dal luogo in cui era nascosta dopo un complicato incantesimo.


Si racconta inoltre che facesse fare una brutta fine a tutti coloro che lo ostacolavano e soprattutto ai suoi nemici tra i quali ci furono anche i Chiaramonte. In realtà è documentato che la principessa non mise mai piede nel Castello dato che ai suoi tempi (XIV secolo) il palazzo non era ancora stato edificato.


La regina Bianca, nella fuga disperata per sottrarsi all'accanito e potente Bernardo, per la fretta rinunciò pensino a vestirsi. Seminuda e con i lunghi capelli lungo le spalle, corse verso il porto in cui trovò rifugio sopra una galera ormeggiata presso la riva, dove protetta dalle ombre della notte, con la lunga camicia tirata fin sopra le ginocchia, si immerse senza esitare nelle gelide acque del mare per raggiungere la salvezza.


Dopo varie ricerche, il conte Bernardo la raggiunse e cercò di piegarla, con lusinghe e minacce, ai suoi voleri. Fino a quando, il 15 febbraio del 1412, venne stipulato un accordo alla presenza degli ambasciatori spagnoli. Furono convocati al castello Antonio Moncada e Calcerando Santapau per parte di Bianca, e Arcimbao di Foix e Artale di Luna per il Cabrera. L’accordo fu fatto tutto a vantaggio di lui e a danno della regina ma subito dopo venne violato dai partigiani. Alla fine, dietro compenso sugli introiti della tonnara, il castello venne assegnato come proprietà demaniale da Federico III a Manfredo Layhabixa.


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 17/12/2008

lunedì 15 dicembre 2008

Ironia e cinismo tra queste lenzuola

Ti si arrotolano tra le gambe, intorno al corpo, dappertutto. Ma le lasci fare, perché in fondo ti piace. Se poi sono di cotone, soffici come le nuvole e al profumo di rosa, non te le vorresti più scrollare via di dosso.

Le lenzuola sono delicate e vanno trattate con cura. Una società francese per la prima volta nella storia dell’umanità ha inventato quelle afrodisiache con delle micro-capsule imbevute di oli essenziali. Al contatto con il calore del corpo, le micro-capsule contenute nel tessuto cominciano a sprigionare sotto di esse e in tutto l'ambiente degli odori che dovrebbero stimolare l'eros. Peccato che l'effetto seduzione delle lenzuola non è eterno, ma dura solo 10 mesi, a condizione di lavarle a 40 gradi, due volte al mese, senza usare l'ammorbidente.

E pensare che quelle del dottor Alfred Kinsey non avevano queste caratteristiche, ma erano semplici lenzuola. Eppure scatenarono l’inferno. Nel 1948, in un’America malata di puritanesimo, Kinsey pubblicò i suoi studi (”Il comportamento sessuale dell’uomo”). La reazione della società fu severa: il dottore venne denunciato con l’accusa di essere un pornografo.

La vita di Kinsey è poi diventata un film per il cinema. Agli americani non sono bastati questi ultimi 50 anni per riconciliarsi con la figura dello zoologo che tra gli anni ‘40 e ‘50 esplorò e rivoluzionò le loro abitudini e credenze sessuali. Kinsey dimostrò che le vere anomalie erano: “l’astinenza, il celibato e l’idea di rinviare il matrimonio”.

Il film ha già fatto scandalo negli Usa (e non solo negli stati evangelici del Midwest). La pellicola sulla vita di questo scomodo personaggio a un certo punto è sbarcata in Italia. A vestire i panni di Kinsey è Liam Neeson, un attore abituato a interpretare ruoli storici scomodi e controversi. Dietro la macchina da presa c’è Bill Condon. Ed è proprio il regista del film a raccontare che la vita privata del ricercatore non fu priva di ambiguità. Kinsey viene visto non come un eroe della scienza ma come un uomo ambivalente e pieno di contraddizioni che si ripercuotono anche nella sua vita sessuale con la moglie, interpretata da Laura Linney.

Secondo Neeson, Kinsey “è stato un pioniere, un genio come Galileo, Pascal o Newton, che ha colmato un vuoto nella coscienza dell’umanità”. Uno che ha cercato di salvare la gente dai danni da lui stesso patiti, con la repressione della sessualità. Alla domanda come abbia reagito la moglie Natasha quando ha deciso di accettare il ruolo, Neeson ha risposto: ”Abbiamo festeggiato, è uno dei ruoli più interessanti che mi siano mai stati proposti in tutta la mia carriera”. Bella sfida. Sul set, davanti alla macchina da presa e sotto le lenzuola.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 12 dicembre 2008

Per ricordare Massimo Baldini, le fantaparole non servono

L’altro ieri mattina arrivo di fretta alla Luiss. Neppure il tempo di posare la giacca e apprendo la notizia. Il professore Massimo Baldini è morto all'età di 61 anni per un improvviso malore. Non riuscivo a credere alle parole dei miei colleghi. Con Baldini avevo scambiato quattro chiacchiere proprio qualche giorno fa, davanti alla porta d’ingresso della scuola di giornalismo che frequento da un anno. Certo, di quelle chiacchiere di cui si può fare anche a meno. Eppure io l’avevo chiamato. Non faccio niente che non senta di fare, e avevo sentito di farlo. Volevo in qualche modo ringraziarlo per la generosità del suo insegnamento che lo aveva portato a suggerirci, proprio durante il corso che tenne l’anno scorso, di rispolverare la cultura umanistica, evitando di abbandonarci a un linguaggio giornalistico che troppo spesso tradisce la sua reale vocazione, quella di informare, per imboccare la strada del sensazionalismo, del presunto scoop, fino alla deriva del falso e del costruito.

Massimo Baldini era il preside della facoltà di Scienze politiche, il direttore della Scuola superiore di giornalismo della Luiss. Ma era anche ordinario di Semiotica, docente di Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico e radiotelevisivo e di Semiotica dei linguaggi specialistici alla Luiss “Guido Carli” di Roma e del master in Economia, gestione e Marketing dei turismi. Ma soprattutto Massimo Baldini era uno che aveva capito come andava il mondo e le regole non scritte di certi sistemi e di certi ambienti . E proprio per questo, dimostrava spesso un sereno distacco, segno di adesione a un sistema, ma con una parte di sé che amava starsene volutamente in disparte. Per non contaminarsi fino al collo, come a voler restare con un piede nella campagna toscana, rifuggendo i fumi inquinanti di smog della capitale.

Alto e magro, un volto sereno e un’espressione vagamente sarcastica, Massimo Baldini apparteneva a quella categoria di persone con cui personalmente non avevo molta confidenza. E quindi ebbi modo di conoscerlo ben poco.

Però, dal primo momento che lo vidi, pensai subito che fosse uno difficile da incantare, che non amava affatto perdersi in discorsi o cose inutili. A lezione, indossava sempre un impermeabile beidge e sfoggiava un look piuttosto sobrio, ordinato, ben curato. Lo stesso impermeabile gli permetteva di farsi scivolare addosso bassezze e mediocrità che gli ronzavano intorno. In un certo senso, sembrava imperturbabile e lo ammiravo per questo. Tuttavia, il suo accento toscano lo rendeva meno austero di quanto lasciasse sembrare. E, dopo un po’ che parlava, si abbandonava perfino a qualche confidenza. Come quando un pomeriggio, durante una lezione, ci raccontò di quante cose gli insegnassero ogni giorno i suoi nipoti, anche dal punto di vista linguistico (“non sapete che creatività tirano fuori quando parlano”) e ci parlò a viso aperto della sfida che ci attendeva: cercare di esercitare la professione giornalistica con onestà e assoluto con rispetto del vero, nell’attuale caos mediatico e nella mancanza di garanzie lavorative.

Ogni ricordo che si voglia scrivere lascia il tempo che trova. Massimo Baldini, per quelli come me che lo hanno conosciuto solo di sfuggita, resteranno il suo insegnamento e la sua sobrietà, nei modi e nel pensiero. E poi, naturalmente, i suoi libri. Per Dario Antiseri resteranno molte cose. E così anche per i suoi familiari e per tutti i colleghi che, al di là di un formale rapporto di lavoro, gli volevano bene davvero. Oggi resta il dolore del distacco, ma anche la speranza di continuare a sentirlo vicino.

I funerali si sono svolti sabato 13, alle 11,30, presso la Chiesa di S. Croce di Greve in Chianti (Fi).

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 11 dicembre 2008

La pippa mentale di Natale è un regalo coi fiocchi


Un regalo natalizio non cambia la vita, certo, però fa riflettere. Nel senso che ci si chiede sempre perché mai uno debba donare a qualcun altro qualcosa che gli è caro.

Non a caso i regali più belli sono proprio questi, quando si decide di affidare all’altro un oggetto personale che per qualche ragione abbia segnato un momento importante della propria vita. Con la probabilità, sempre dietro l’angolo, di andare in bianco e fare cosa sgradita. Ma la vera sfida è proprio questa.


Per farlo, la condizione indispensabile è avere un grande cuore. Chi infatti è disposto a sbarazzarsi tanto facilmente di un oggetto che ha fatto parte di sé? Ecco perché, alla fine, si decide di comprarlo, il regalo di Natale. E donare così qualcosa di nuovo, che possa sposarsi bene coi gusti e con la personalità del destinatario, che magari da noi è lontano mille miglia.

Ma chi è che ha inventato questo rito così pericoloso, che ti conduce sull’orlo del precipizio, infilandoti in un brutto guaio, di quelli senza via d’uscita, che ti portano ad arrovellarti per ore e ore su dove andare, che cosa comprare, quanto spendere?


Certo, in mancanza d’altro, questo esercizio di pensiero potrebbe avere anche un interessante risvolto freudiano, aiutando ad uscire da se stessi e a misurarsi con gli altri.

E allora, procediamo. Qualche idea in tempi di magra? La zanzariera contro la malaria, sempre utile in tutte le stagioni dell’anno. Oppure, dopo aver fatto un giro in qualche fattoria di campagna, la gallina ovaiola crea-reddito, che sa molto della fiaba dell’asino cacaoro. L’utilità è immediata, anche se occorre averne molta cura e nutrire l’animale con prodotti di prima scelta, se non si vuole che – anziché l’uovo d'oro – covi qualche altra cosa...


Sotto l’albero si potrebbe far trovare ad amici e parenti, perché no, una mucca da latte, visto che la carne (pericolo diossina) non si può più mangiare ma bisogna pur nutrirsi in qualche modo. Oppure, se si è di manica larga ma con moderazione, un mese di stipendio da insegnante potrebbe andar bene, magari per chi non ci è troppo simpatico.


Ma le proposte più allettanti arrivano dal Giappone. Una ditta ha infatti messo in vendita dei rotoli chiamati “Machigai sagashi” (in italiano: cerca l’errore), che raffigurano delle vignette nelle quali devi trovare l’errore, vedendo l’ immagine a lato. A disposizione anche raccontini da leggere sfogliando il rotolo di carta, dove è possibile trovare piccoli temi inerenti le toilettes e, pensate, perfino qualche poema. In Italia è possibile acquistare la carta igienica Kamasutra con le posizioni dell’amore, semmai qualcuno ne avesse ancora bisogno…


Sempre in tema di regali per il bagno, e sempre dal Giappone, per chi ci è amico ma non troppo arrivano le luci portafortuna a forma di escrementi. Si chiamano Kin-un raitaa (Kin=oro, Un=fortuna/merda, raitaa=luce, da cui il gioco di parole), possono essere utilizzate anche fuori dal wc ed emanano anche degli odori a scelta.


Via libera dunque alla fantasia, senza freni e inibizioni. Ma semmai con qualche occhiatina al portafoglio, che non fa mai male. Il cenone si deve pur fare…


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 10 dicembre 2008

A quota 2000 e oltre, Stella mattutina ringrazia

Il 27 maggio 2008 nasce Stella mattutina. A battezzarla, il primo post sul libro di Giuseppe Ayala. Sullo sfondo l’amata Sicilia, obbligata a scontare l’eterna condanna della mafia e del malaffare. “Ci sono giorni che il sole non tramonta”. E Stella mattutina, tra alti e bassi, tra il serio e il faceto, si ostina a brillare sul cielo grigio di questi strani giorni e di visite finora ne conta oltre 2000.

Credo sia un bel traguardo per un blog nato senza troppe pretese, se non quella di cercare di svolgere bene la sua funzione di agorà virtuale aperta alle opinioni di tutti, un luogo di confronto sempre pronto a far riflettere i lettori su temi della vita sociale e personale di ciascuno di noi. Affondando qualche volta, perché no, il dito nella piaga. E allora, che ben vengano i fuochi d'artificio. Festeggiare fa bene.

Grazie di cuore a tutti voi che passate di qua, senza lasciare traccia (a proposito, vi invito a farlo).

Grazie a
d Andrea Tricomi, che completa le mie riflessioni, arricchendole ogni volta di notizie davvero interessanti.

Grazie a Luca Bagatin, perché non si sottrae mai all’ironia, arma indispensabile per osservare ciò che ci accade intorno.

Continuate così, vi voglio bene.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 8 dicembre 2008

Un viaggio immaginario, col biglietto di sola andata e un punto di ritorno

Nessuna valigia al seguito. Destinazione ignota. Si parte per un lungo viaggio, senza sapere quand’è che si ritorna. L’immaginazione è qualcosa che esiste solo per te. Che cosa immagini, nessuno lo saprà mai. Sei libero di immaginare qualsiasi cosa. Un lungo incontro d’amore, come sarai fra cent’anni, come ti starà addosso l’ultimo vestito che hai comprato, di che colore sarà il cielo domani mattina, che effetto ti farà rivedere la vecchia compagna di scuola che ti sfotteva sempre.

T’immagini un piatto che ti piacerebbe cucinare e poi mangiare, un altro taglio e colore di capelli, altre visioni del mondo. T’immagini cavalli alati, una pioggia di stelle, mariti fedeli, potenti meno arroganti, donne più indulgenti.

E poi, strade senza traffico, paesi e città dove non sei mai stato, il sapore dell’aria che si respira in quei luoghi, gente che non hai mai incontrato. T’immagini distesa su un prato, oppure mentre suoni un pezzo al pianoforte, i personaggi dell’ultimo libro che hai letto, o che faccia avrà tuo figlio.

La cosa più bella è immaginare ciò che nella realtà non c'è e non ci potrà mai essere, perché qualcuno o qualcosa hanno voluto che non accadesse. C'è quasi un piacere perverso nel farlo e poi rifarlo ancora. Perché puoi immaginare ogni cosa esattamente come l’avresti desiderata. Con niente che vada fuori posto.

Un mare di cose, immaginiamo. E la segretezza è assoluta. Ciò che s'immagina diventa eterno, ci accompagna per sempre. Non è una candela che arde e poi si scioglie come cera. E' questo il suo vantaggio.

Ma l’immaginazione a volte è spietata. Ci conduce inesorabile in un punto di non ritorno. E’ come immergersi lentamente nel mare, lasciandosi trascinare dalle correnti. “Cara immaginazione, quel che soprattutto amo in te è che non perdoni” (André Breton). E allora meglio lasciare le nuvole e tornare coi piedi per terra. A “sporcarsi le mani”, sperimentare, consumare.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 6 dicembre 2008

Chi ha tempo, non aspetti tempo

L’orologio è un cruccio. Le sue lancette che si rincorrono, tagliando con spietatezza assoluta ogni nanosecondo che passa, sono come lame infilzate nello stomaco. Ogni minuto che passa è un minuto in meno di vita, un percorso che si accorcia, una foglia che si secca sul tappeto verde della nostra esistenza.

Ecco perché sarebbe meglio non sprecarlo, il proprio tempo. A pensarci bene, infatti, sono una miriade le occupazioni vere o quelle che c’inventiamo di volta in volta per riempire gli spazi vuoti. Aspettare invano un autobus che si ostina a non passare, seguire una serie di lezioni inutili, spendere energie e buoni propositi per qualcuno che prima ci usa e poi ci getta, pontificare su tutto e su tutti, anche se non si conosce ciò di cui si parla, dispensare con finto impegno cerimonie ipocrite e di maniera, o peggio consigli e suggerimenti di cui si potrebbe volentieri fare a meno, visto che vengono dati senza cura e attenzione, né tantomeno affetto alcuno, ma solo per il gusto di far ritrovare qualcuno immerso in un bel guaio. E poi, cucinare per chi è troppo schizzinoso, corteggiare chi proprio non ne vuol sapere, inseguire sogni impossibili in questa vita (e forse anche nell’altra), cercare di salvare il mondo, spendersi e spandersi per chi non ha occhi per guardare e orecchie per sentire, cercare di voler modificare a tutti i costi il naturale corso degli eventi, elemosinare invano l’amicizia di chi non te la vuol dare, e così via.

Il tempo passa inesorabile. Anche se la sua percezione è assai relativa (un’ora col nostro amore sembra un minuto, un’ora di una terribile lezione sembra un’eternità). “Ma il tempo è denaro, voi lo dimenticate”, disse il colonnello. “Che tempo! Certo tempo è così fatto che daresti via un mese intero per mezzo rublo, e altre volte non ci son denari che accetteresti per mezz’ora!”, si legge in un passo di “Anna Karenina” di Lev Tolstoj .

Tanto lo sappiamo
. Ogni giorno affoghiamo in un mare di cose inutili da cui salvarsi, finché si è in tempo. Vivendo, infatti, ci si accorge che di tante cose si potrebbe volentieri fare a meno: convegni costruiti ad arte per nutrire l’ego di qualche creatura narcisista ed egocentrica fino alla nausea, inevitabili conversazioni quotidiane in cui si vomitano giudizi gratuiti senza neppure conoscersi a fondo gli uni con gli altri, valanghe di chiacchiere per riempire un silenzio che forse sarebbe più salutare per tutti (anziché sforzarsi di parlare davvero, scambiandosi in modo sano e costruttivo idee e opinioni), andare a vedere un film che non ci piace solo perché in giro tutti ne parlano, essere freddi e distaccati come la maggior parte della gente usa fare.

Finché si è in tempo, è meglio ripensarci. E vivere ogni istante come se fosse l'ultimo. Altrimenti non appena, presto o tardi, si rinsavisce all’improvviso dal vortice della frenesia e della disperata corsa alla felicità, si finisce per ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. E nient’altro che questo.

Il punto è che il tempo perso a destra e a manca non ce lo restituirà mai nessuno. Al limite, quando cominciamo a sentire franare la terra sotto i piedi, a tal punto da non avere in mano neppure una sola mosca, l 'unica cosa che resta da fare è dar retta a Marcel Proust e andare subito "alla ricerca del tempo perduto". Ecco, quanto meno nei casi più disperati, questa non sarà mai una perdita di tempo.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 2 dicembre 2008

Ateniesi (e britannici) soft, spartani nel loft

Nella vita, prima o poi, bisogna scegliere. Da che parte stare, a quale stile di vita aderire, quale partito votare, che genere di amicizie frequentare. Ma soprattutto, occorre capire in fretta se si vuol essere spartani oppure ateniesi. Poco importa se si cambia di continuo, se le etichette non esistono, se ci si può sempre ripensare. Qui, bisogna decidersi. Perché, vuoi o non vuoi, le due cose insieme proprio non vanno.

O sei l’uno, o sei l’altro. Se sei di Sparta, sei intransigente, rigoroso come Licurgo e le sue leggi, minimalista e sobrio, selettivo e oligarchico. Se invece sei di Atene, sei un democratico della scuola di Pericle, uno che non si accontenta, ambizioso e individualista, amante del grande e del bello, e che sa godersi la vita.

Ecco, l’umanità, talmente varia e variegata, ora può essere finalmente incasellata in un modello semplificatorio che potrebbe risolvere molti dilemmi. Troppe volte infatti ci sbagliamo. Pensiamo di avere davanti uno spartano e invece poi un bel giorno ci accorgiamo, e con una certa meraviglia, di avere davanti invece un ateniese, o viceversa.

Per esempio, dove si potrebbe collocare quel 37 per cento degli intervistati su un campione di 2000 cittadini del Regno Unito che, in un sondaggio condotto dall’istituto di ricerca YouGov e pubblicato in occasione della Giornata mondiale per la lotta all’Aids, sostiene che il miglior modo per svagarsi senza spendere soldi è trascorrere tempo in intimità col proprio partner? Con Pericle e i suoi, naturalmente. Perché a Sparta certe cose, anche se poi sotto sotto si facevano, alla luce del sole non erano ammesse. I dati parlano chiaro: chi fa sesso, non si tuffa nello shopping e quindi non sperpera denaro.

E gli altri invece che fanno? Il 18 per cento dei britannici interpellati preferisce scambiarsi pettegolezzi con gli amici, mentre il 9 per cento ammira le vetrine e il 6 per cento sceglie invece di visitare un museo.

Non c’è dubbio, i britannici preferiscono essere ateniesi. E la cosa vale sia per le donne che per gli uomini. Se infatti le une si sfogano nel pettegolezzo, gli altri nel sesso (che è un piacere decisamente bipartisan). Ma in entrambi i casi, Atene forever.

E, anziché comprare abiti, scarpe e gioielli, si comprano i preservativi, come testimonia l’impennata delle vendite rivelata dalla Terrence Higgins Trust, l’associazione di beneficenza per la lotta all’Aids, che ha commissionato il sondaggio. Un segnale certamente positivo, soprattutto alla luce del fatto che, secondo le stime ufficiali, il numero di persone affette da Hiv nel Paese è purtroppo in ascesa.

Dai dati resi noti la scorsa settimana dalla Health Protection Agency è emerso infatti che le persone affette da Hiv in Gran Bretagna sarebbero circa 77.400. I casi diagnosticati nello scorso anno sono stati 7.000, un aumento del 6 per cento rispetto all'anno precedente.

Per decidere se si vuol essere un po’ troppo spartani da stare sullo stomaco o abbastanza ateniesi da godersi la vita in allegria, c’è sempre tempo. Ma per proteggersi da eventuali mali, un po’ di fretta non guasta.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 27 novembre 2008

O si è belli o si è fuori





















Se sei brutto proprio non hai scampo. Niente da fare. La discriminante per entrare in “
beautifulpeople.net”, l’ultimo social network di origine danese sbarcato in Italia, è il frutto proibito di Venere, la “pura beltà che gli occhie adesca, / immaculata se conserve e cresca», come la immortalava il giocoso Neri Moscoli nelle sue Rime, al tempo di Dante l’egregio e ‘l sommo.

Nata da sei anni, la rete di belli gode attualmente di 120.000 membri in tutto il mondo. Ma, ovvio, non appena ci si registra, la foto è d’obbligo. Conditio sine qua… non se ne fa nulla. Perché se non hai un bel viso e un bel sorriso, sei tagliato fuori.

Ma c’è di più. Una volta inserita la foto sul sito, mica finisce qui. Anzi, è proprio a questo punto che arriva il più bello: saranno quelli che sono già iscritti a decidere, votando sulla base dell'immagine e del curriculum, se si può restare o meno nel network, che promuove al suo interno relazioni private e professionali, eventi e viaggi, oppure se si è destinati alla cacciata.

Una vera e propria cooptazione, di quelle che si usa fare per entrare in certi ambienti. Stavolta in base al solo criterio della bellezza.

Sportivo il commento di Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl al Senato: «Estremamente interessante il sito dei belli, al quale io non posso iscrivermi. Il problema, però è avere il tempo una volta iscritti di frequentare questi network». Nell’era del virtuale, non dovrebbe essere poi così difficile.

Peccato che se, anziché bello, finora ti hanno sempre detto che sei simpatico oppure "bello dentro", non vale. Qui sei fuori comunque.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 24 novembre 2008

Quella mezza cosa dell' happy hour

Dalla Gran Bretagna con furore, la febbre dell’”ora felice” che anticipa il pranzo o, più di frequente, la cena,  ha ormai contagiato tutto il mondo. Dallo Studio 54 di New York, simbolo delle notti mondane anni Ottanta alla risto-disco-teatro-mania di casa nostra, polpettone in salsa italiana per gli amanti dell’arte e della letteratura. Sono decine e decine i luoghi dove ogni giorno è possibile ritrovarsi in allegria e fare nuove amicizie, flirtando con uno splitz  e un paio di tartine al salmone.


Se poi c’è di mezzo la cultura, allora è tutta un’altra storia. Perché sono loro i cenacoli del III Millennio, che hanno raccolto l’eredità degli ormai tramontati caffè letterari di stampo ottocentesco, ormai roba da archeologia del divertimento.


A Roma, la sede più impensata dell’aperitivo diventa il teatro, a cui spetta il primato della sperimentazione di un nuovo ritrovo che faciliti gli scambi tra platea e palco. In prima fila c’è il “Centrale”, poi il “dei Satiri” e il “de’ Servi”, tutti posti dove si cena sul palcoscenico. A Catania, nel genere fa scuola   il “Teatro Club  Nando Greco", dove una volta a settimana, tra il primo e il secondo tempo di uno spettacolo, prima dello sfratto dai locali di piazza San Placido, si gustavano cibi rustici e caserecci annaffiati da buon vino.  


In pratica, funziona più o meno così: in una fascia oraria coperta, ma non troppo (nel senso che in Italia si arriva fino a mezzanotte), che parte più o meno dalle 19, si raggiunge il locale prescelto col proprio gruppo di amici e si sceglie il proprio drink. Poi, con un piatto in mano, ci si mette in fila (alcuni sono “fai-da-te”, in altri te lo servono i camerieri) e si scelgono gli stuzzichini salati (in alcuni casi anche dolci) da accompagnare al proprio cocktail. Spesso accade che tra insalate di pasta e piatti freddi si finisce per cenare e per trascorrere così la propria mezza serata, magari facendo un po’ di filosofia.  Come accade a Milano, dove al “Mangiarini Toscani” di via Pasubio ogni lunedì sera  si parla di Kant o Hegel davanti a un cocktail e poi si cena tutti insieme, tra bruschette toscane e un bicchiere di Chianti.


 Ma a condire l’”happy hour”   non sono solo le arti del trivio, ma in qualche caso anche quelle del quadrivio. Così a Perugia già si organizza l’Aperitivo web, una serie di incontri per parlare in modo informale di informatica e di internet. 


L’aperitivo è democratico, non discrimina nessuno. Perfino gli amanti dello sport ne hanno uno. Si chiama “Aperibasket”, ed è una serata dedicata al basket pistoiese con tanto di buffet e musica insieme a giocatori, staff e dirigenti, naturalmente all’uscita del palazzotto, subito dopo la partita. 


Insomma, ce n’è per tutti i gusti. E mentre il governo inglese  sta seriamente pensando di mettere al bando l’happy hour per contrastare il fenomeno  del binge drinking, ovvero l’ abbuffata di alcolici con relativi episodi  di violenza causati dalle sbornie, in Italia il fenomeno è in piena espansione.


In tutto questo, resta ancora un nodo da sciogliere : che cos’è l’happy hour de’ noantri? Poco meno di una cena, poco più di una radunata per familiarizzare con altri, un assaggio di serata tutta da proseguire?


Che sia l’una o l’altra cosa, poco importa. L’happy hour non si può definire. Perché ha il fascino delle mezze cose,  un po’ tutto e un po’ niente.  In fondo è proprio questo che lo rende così irresistibile.


 Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) 

sabato 22 novembre 2008

Troppa paura per nulla

Chi ha paura muore ogni giorno. E chi non ha paura, muore una volta sola”. Paolo Borsellino ne era convinto. E visse così, infischiandosene delle minacce di Cosa Nostra. Ma non tutti gli uomini arrivano a tanto. E troppo spesso si finisce invece per avere paura. Della morte, di soffrire, di non essere all’altezza, di non piacere abbastanza, di parlare troppo o troppo poco. A volte si ha paura perfino delle cose belle come l’amore, il cibo, la moda, per certi versi anche la solitudine.

Da bambini si ha spesso paura del buio e ci si rifugia, una notte sì e l’altra pure, tra le lenzuola del lettone di mamma e papà. Perché da qualche parte potrebbe sempre arrivare in punta di piedi la strega isterica, e certe sorprese è meglio evitarle. E poi c'è il lupo cattivo, pronto a divorarti manco fossi cappuccetto rosso.

Fin dai primi anni di vita, la nostra cultura ci educa alla paura. Non c’è favola che venga letta ai bambini senza un personaggio inquietante, che scatena la paura.

A un certo punto si cresce. E la paura pensavamo di averla sepolta per sempre. E invece, rieccola, come prima, più di prima, a tormentarci l’anima. Riemerge come uno spettro terrificante. Si teme il maniaco pedofilo, il vicino di casa pronto a sgozzarti, il tipo che ti offre qualche sostanza stupefacente, quello che t’invita a bere un goccio di troppo, i siti interneti incontrollati che mercificano il corpo col sesso a pagamento.

E poi, la paura di crescere troppo in fretta e ritrovarsi un bel giorno davanti allo specchio con un’espressione del volto piena di rimpianti. E senza essersi accorti che ormai si è entrati nel mondo dei grandi. E qui, ecco altre paure: quella di non farcela a realizzare i propri sogni in un mondo che ti fa lo sgambetto a ogni passo. La paura di far male a qualcuno, di non essere ricordati, che il tuo compagno/a un bel giorno ti lasci con un sms, senza neppure avere il coraggio di dirti che non ti ama più guardandoti negli occhi. La paura di essere aggrediti per strada, oppure quella che i nostri cari ci lascino per sempre, o che i nostri figli non siano abbastanza pronti per fregare in tempo chi avrebbe voluto fregarli.

C’è perfino chi ha paura di esprimere le proprie idee, anche quando si va controcorrente e la direzione in cui va la maggioranza non ci appaga. Di guardare in faccia la realtà anche se è molto diversa da come ce la saremmo aspettata. E la paura dei ricordi, e quella del futuro sempre più incerto e indefinito, ultimamente cresciuta a dismisura. O quella di rischiare, scommettere su se stessi, di mettersi in discussione e camminare appesi a un filo, rinunciando ad accomodarsi su poltrone facili e sicure, o di cambiare famiglia e città, alla ricerca di qualcos’altro.

Nei casi più disperati, si può arrivare perfino ad avere paura di campare, quasi che l’ansia di vivere a un certo punto diventi più forte di ogni gioia che si riesce a provare. Chissà perché, torna alla mente Edmund Burke, quando scriveva che “nessuna passione priva la mente così completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura."

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 19 novembre 2008

I Vicerè ritornano, sul piccolo schermo

Finalmente, ci siamo. Dopo una lunga attesa estenuante, sfiancante, ansiogena, in cui eravamo tutti col fiato sospeso a chiederci, dopo tanto rumore, che fine avessero fatto il sofisticato Roberto Faenza e i suoi Vicerè, lo sguardo vitreo e angelico di Cristiana Capotondi nei panni di Teresa Uzeda di Francalanza, o quelli inquieti e cupi di Alessandro Preziosi nel ruolo di Consalvo, l’ironia di Lando Buzzanca nella veste del principe Giacomo e tutta l’intricata storia messa nero su bianco da Federico De Roberto nel suo omonimo romanzo del 1894, rieccoli. Pronti a sbarcare su RaiUno in prima serata il 23 e il 24 novembre.

Contenti i catanesi, contenti quelli che all’epoca, ovvero un paio di estati fa, abitando nel centro storico, a due passi dal set, vuoi o non vuoi, ne venivano catturati. Perfino i passanti più distratti finivano per fermarsi qualche ora all’ingresso di via Crociferi, per sbirciare qualche scena. Perfino chi aveva da lavorare o da studiare abbandonava tutto per immergersi in quell’atmosfera di fine Ottocento così controversa per la Sicilia e i siciliani, che l’ostinato Faenza aveva deciso di far rivivere.

E così, senza preavviso, dopo la versione cinematografica uscita nelle sale il 9 novembre 2007, per la quale, a dire il vero, ci saremmo aspettati più successo, arriva anche la versione televisiva.

Certo, Faenza è un maniaco del ciak. Nel senso che, a osservarlo bene, ti accorgi che è ossessionato dalla cinepresa. In modo appunto maniacale. Una scena la faceva girare almeno una decina di volte. E qui il perfezionismo c’entra, ma solo in parte. Arrivava sul set defilato, con in testa un cappellino di tela con visiera incorporata, un paio di jeans scoloriti e un maglioncino mezzo striminzito addosso. Il suo fare immancabilmente snob gli permetteva di non lasciarsi infastidire neppure per un istante da curiosi e giornalisti che avrebbero voluto raccontare qualche piccante retroscena in presa diretta.

In quei giorni, per chi doveva andare alla facoltà di Lettere, nel complesso monumentale dell’ex monastero dei Benedettini, era quasi un dramma. Spesso si restava bloccati per mezz’ora buona all’ingresso principale di piazza Dante. Attenzione, perché si gira una scena. E nessuno può passare.

I docenti più intransigenti della facoltà maledicevano il preside, che aveva acconsentito a quella azzardata, seppur momentanea, trasformazione in un set cinematografico. E ora che cosa succede?, si chiedevano, quei cavalli legati agli alberi distruggeranno tutto? Di contro, i più ottimisti si lasciavano trasportare dall’entusiasmo.

Catania ha ospitato Faenza e il suo set nel suo stile, col caos di sempre, senza troppi formalismi. Il passatempo preferito dalle ragazzine assiepate per ore intere ai margini delle transenne, in attesa di rapire uno sguardo di Alessandro Preziosi, era un suo autografo.

Felicità immensa per chi si guadagnava un po' di euro alla giornata, facendo la comparsa. Almeno una fulminea stretta di mano a Faenza è riuscito a strappargliela. Prima che riprendesse a girare altri film, a Praga e altrove.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 17 novembre 2008

Zenga versus Varriale: una bagarre non troppo sportiva

A voler essere onesti, non si è mai visto un giornalista che s’impiccia dei fatti di casa propria. A meno che non abbia raggiunto, professionalmente parlando, la pace dei sensi. Perché di norma, ogni buon giornalista che si rispetti i fatti degli altri deve in qualche modo pur  farseli. Anche a costo di prendersi in faccia parolone e parolacce d’ogni sorta.


 E se Enrico Varriale conducesse Stadio Sprint attenendosi al monito di parlare di calcio e farsi i fatti propri sulla carriera degli allenatori, ma soprattutto a quello di pensare alla propria famiglia, tutte cose  che,  senza troppe carinerie né manierismi, gli ha suggerito di fare  in diretta Walter Zenga (che, per carità, in fatto di calcio, da ex portiere ad allenatore del Catania, se ne intende, ma quanto a giornalismo forse un po’ meno), la Rai lo avrebbe già rimpiazzato con un altro suo collega, e già da un bel pezzo. 


 Certo, che Zenga fosse uno che non le manda a dire, è facile intuirlo da ciò che dice e da come lo dice. E persino dal piglio vagamente incazzato che sfoggia prima, durante e dopo ogni uscita pubblica.


 Ma a tutto c’è un limite. E varcare il confine per entrare in un campo da gioco che non ti appartiene, arrivando ad insinuare che Varriale, anziché parlare della gente quando questa non è presente, debba  invece chiedersi chi l’ha messo lì e come mai ce lo fanno stare, vuol dire andare troppo al di là di cìò che gli compete, come ex giocatore, ma soprattutto oggi come allenatore. 


Questa uscita non ce la saremmo aspettata da chi sta allenando la squadra etnea in modo esemplare, sfoggiando doti da cavallo di razza. E invece, nel corso della puntata, i toni non solo scendono, ma a un certo punto addirittura precipitano. Varriale cerca di difendersi chiamando in causa il presidente della Lega Calcio. Vola un “maleducato” che rimbalza manco fosse un’agilissima pallina da ping pong.


 Poi, come se non bastasse, Zenga sfodera dal cilindro un malefico presagio: “Continui così e vedrà quanti allenatori parleranno con lei”. La replica del giornalista non si fa attendere: “Lei mi sta minacciando, stia attento a quello che dice”.


 Volete sapere com’è andata a finire?  Che Pietro Lo Monaco, amministratore delegato del Catania, si è affrettato ad annunciare provvedimenti nei confronti dell’allenatore, che sarà sanzionato. 


 L’acceso “botta e risposta” non è sfuggito neppure a Massimo De Luca, direttore di Rai Sport,  che ha tenuto a precisare che le affermazioni di Zenga nei confronti di Varriale sono davvero inaccettabili.


 Ora, viene da chiedersi: se vale la legge della reciprocità, perché mai Varriale dovrebbe farsi i fatti di casa propria, pur intervistando per professione e vocazione decine e decine di allenatori e invece Zenga  può tentare di farsi in diretta televisiva, solo in virtù di una vecchia polemica personale,  quelli di Varriale e della sua carriera? 


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)