Più che un’inaugurazione coi santi crismi universitari, si tratta di un incontro con la città e i suoi immigrati che si realizza a cena. Un po’ come a una cena di lavoro, tra una portata di kisir (l’insalata di grano) e di mercemek (polpettine di lenticchie rosse), che Adeel Abbas - rifugiato politico afghano di 25 anni a cui i talebani hanno ucciso nella sua stessa casa e in un colpo solo il padre e il fratello minore - e Inci Sarica, 23 anni e due grandi occhi neri, di Iznir (Turchia), in tuta grigio fumo e scarpe da tennis ( entrambi volontari dell’associazione Multi Kulti) hanno preparato con cura da metà pomeriggio.
“In Afghanistan non si può vivere”, dice Adeel mentre allinea in fila indiana sul tavolo ovale gli ultimi piatti di portata. Eppure la speranza di un dialogo vivo e costruttivo, di uno scambio culturale vero e autentico esiste ancora. “La facoltà di Lettere vuole dare questo segnale”, sottolinea il preside Enrico Iachello: “Finiamola con lo stereotipo degli sbarchi di Lampedusa. Gli immigrati che vivono a Catania e nel nostro Paese da anni e ne fanno parte integrante non devono rappresentare un problema per la nostra sicurezza, ma un’importante risorsa”. Gli fa eco la vicepreside Maria Dora Spadaro, che richiama la tradizione storica tutta siciliana dell’incontro e dello scambio tra i popoli.
La serata, organizzata in collaborazione con la Casa dei popoli, nata qualche anno fa da un’idea di Antonio Di Grado, allora assessore alla cultura della giunta Bianco, ha riscontrato il consenso del comune di Catania e dell’assessorato alla famiglia.
“E’ un fatto nuovo e significativo per Catania. In un momento di assoluta difficoltà per la pace nel mondo dobbiamo rinnovare la nostra capacità di integrare varie culture”, spiega il primo cittadino Raffaele Stancanelli. “Gli immigrati costituiscono una risorsa e insieme un’opportunità”, precisa l’assessore comunale alla Famiglia Marco Belluardo.
In prima fila, Mufid Abu Touq, imam della moschea di Catania dal 1981, testa alta e schiena dritta, stringe tra le mani il suo rosario. “Catania è accogliente, io ci ho trascorso gli anni più belli della mia vita”, dice. Al suo fianco siede il reverendo Seelananda, con la sua tunica color arancio e l’inseparabile watapata, il ventaglio che è segno di potere in Sri Lanka. Il sovrintendente al Teatro Massimo “Vincenzo Bellini”, Antonio Fiumefreddo, pone l’accento sulla sottile e significativa differenza tra “tollerare” (“è un po’ come sopportare) e “accogliere”, e aggiunge: “Quale occasione più diretta per parlarsi che quella di cenare tutti insieme?”. Del resto, si sa : i più grossi affari sono stati conclusi quasi sempre a tavola.
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 30/12/2008
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