domenica 1 giugno 2008

Quattro chiacchiere con Ferdinando Scianna

Un interminabile istante. Un attimo di eterno, immortalato in una frazione di secondo. Negli scatti fotografici di Ferdinando Scianna è racchiuso il mondo. “Del resto, in una foto c’è vita e morte insieme. Non è come un disegno. Se lei ci pensa, accade così: quella persona che si è deciso di fotografare era lì, ti stava davanti in quel momento. Faceva dei gesti ben precisi. Magari, stava scrivendo proprio come sta facendo lei adesso. Credo che fotografarla sia un po’ come strappare l’immagine di una persona e immobilizzarla in un attimo di eterno. Un fotografo apre una finestra sul mondo perché rappresenta immagini tratte dalla realtà. Proprio come fanno gli scrittori, osservando i gesti e ascoltando con attenzione le parole che la gente usa nei propri discorsi. E poi c’è il rapporto con la memoria e con l’identità. Noi, proprio grazie alla rivoluzione copernicana della fotografia, dopo 200 anni siamo stati i primi a riuscire a vedere com’eravamo da bambini”. Appena arrivato al Coro di Notte, dove insieme al professore Antonio Di Grado e al poeta Angelo Scandurra ha ripercorso la storia della fotografia di ritratto, partendo dalle avventure di Veronica, che ironicamente ne è il mito fondante, Ferdinando Scianna si sofferma a scherzare con sottile ironia, tipicamente siciliana, sui suoi doloretti (“Ormai sono pieno di dolori e, ahimè, le donne mi guardano con una certa diffidenza. Sarà meglio che mi dedichi ai miei solitari, con le carte che ho accumulato in questi anni”). Però, a sorpresa, annuncia una grande mostra a Parigi, che ripercorrerà i suoi 42 anni di carriera. Iniziati nei lontani Anni Sessanta.

Lei nasce a Bagheria nel 1943. All'Università di Palermo si dedica agli studi, poi interrotti, di Lettere e Filosofia. Nel 1963, all’età di vent’anni, incontra Leonardo Sciascia con il quale pubblica il primo dei numerosi libri poi fatti insieme: Feste religiose in Sicilia, che l’anno successivo ottiene il prestigioso premio Nadar. Com’era Leonardo Sciascia?
“Senza alcun dubbio è stato l’uomo più importante della mia vita. La nostra amicizia è durata 28 anni. Per me è stato un maestro, un amico. Credo che il suo tratto caratterizzante fosse questo: essere sempre se stesso in qualunque occasione. Non si preoccupava mai di come appariva. Lui era. Sempre e comunque. E lo manifestava in ogni cosa che faceva: mentre interveniva in Parlamento e quando mangiava il baccalà con le olive. E aveva un’integrità davvero straordinaria”.

Poi si trasferisce a Milano dove dal 1967 lavora per il settimanale L'Europeo come fotoreporter, inviato speciale, poi corrispondente da Parigi, dove vive per dieci anni. Introdotto da Henri Cartier-Bresson, entra nel 1982 nell'agenzia Magnum. E, alla fine degli Anni Ottanta, sfonda nel campo della moda. Il suo approccio originale, una sapiente miscela di moda e reportage, le consente di collaborare immediatamente con le riviste di moda più famose, sia in Italia che all’estero, come ad esempio Vogue. Che cos’è per lei la sensualità?
“Guardi, la sensualità e l’erotismo riguardano il mondo. Le faccio un esempio: non è che il mio scatto si fa sensuale perché sto fotografando una donna. La sensualità è anche in una foto che immortala un paesaggio o che ritrae una persona mentre mangia una mela. E poi, le confesso una cosa: non ho mai pensato di fotografare le donne per dare sensualità ai miei scatti. Le fotografo perché mi interessano e basta”.

Richard Avedon diceva: “Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legata alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi”. A lei accade la stessa cosa?
“Mah, guardi, io la penso come Borges. Considero perdute o quantomeno sprecate le giornate in cui mi sono dimenticato di essere felice”.

C’è un’immagine della Sicilia, magari legata alla sua infanzia a Bagheria, che lei si porta dentro, quando gira il mondo?
“La nostalgia non mi appartiene. Per me è mollezza, roba da adolescenti. Vivo abbastanza il presente. In questo momento sto lavorando sul paesaggio della pianura padana. E mi sto accorgendo di come sia straordinariamente piatto rispetto al nostro, che invece è straordinariamente vario. L’immagine della Sicilia per me è racchiusa nell’esortazione di mia madre, che mi diceva: “infilati il cappellino, che il sole t’ammazza!”. Ed è una foto, come avrebbe detto Bufalino, piena di luce e di lutto, che poi è il segno della nostra presenza dialettica nel mondo”.

Se avesse a disposizione un solo aggettivo per descriversi, quale userebbe?
“Beh, ne userei due, che si contraddicono. Direi razionale e appassionato. Diciamo pure che sono appassionato, ma ho sempre bisogno di ricondurre la mia passione alla geometria. Non a caso, “La geometria e la passione” sarà forse il titolo del mio nuovo libro”.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), "La Sicilia", 2/06/2008

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