Cari amici, chissà se Polibio, fedele amante e accanito sostenitore dell'andamento ciclico della storia, non avesse davvero ragione. Una cosa è certa: il Sessantotto, vuoi o non vuoi, appassiona ancora e continua a far parlare di sé. A Roma, a Catania e in ogni dove. Perfino ora che i comunisti sono rimasti clamorosamente a bocca asciutta, fuori dal Parlamento e dai giochi di potere e attraversano una crisi esistenziale profonda. Come aveva saggiamente profetizzato Nanni Moretti...
Che cosa significa oggi essere comunisti? L’interrogativo è di quelli che inquietano, specie se si ripensa al recente risultato elettorale. E dire che se lo poneva già nel flashback di una Tribuna politica, il profetico Nanni Moretti di “Palombella rossa”, film del 1989 da lui diretto e interpretato, in cui il “girotondino” veste i panni di Michele Apicella, deputato trentacinquenne dell’allora Pci, giocatore di pallanuoto in crisi profonda per aver perso la memoria, che però via via riaffiora, attraverso una serie di immagini del suo passato che come flash tempestano la sua mente. Un comunista in crisi, che anticipa la crisi del comunismo, il crollo di un’ideologia, la fine di un’epoca . E lo fa senza troppe cautele e, anche grazie al surreale linguaggio dell’arte, senza peli sulla lingua, specie quando arriva a definire fascista lo stesso Enrico Berlinguer, affondando il dito nella piaga di un partito già allora claudicante, incerto, indeciso, che pecca della mancanza di una forte identità politica. I panni sporchi, insomma, Moretti non li lava in casa, ma semmai li stende nell’agorà del grande schermo, a portata di mano. E pensare che proprio in quell’anno sarebbero cambiate molte cose negli equilibri della scacchiera politica mondiale. E il germe della profezia sarebbe inevitabilmente esploso in un’epidemia di dimensioni planetarie. Sull’onda lunga di una sconvolgente marea che inneggiava turbolenta alla contestazione e al cambiamento, “Palombella rossa” ha aperto la stagione estiva (dal 1 giugno al 30 settembre) dell’Arena Argentina, storico cinema catanese riaperto nei primi Anni ’80 dalla cooperativa Azdak, attualmente gestito dall’associazione Cinestudio, che da quasi 30 anni propone al suo pubblico il meglio della produzione cinematografica italiana e internazionale. Ed è stato il primo di una serie di “Echi dal ‘68”, un ciclo di appuntamenti che ogni lunedì riproporrà in chiave italiana, attraverso “Escalation” di Roberto Faenza, “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio”, “Sovversivi” di Paolo e Vittorio Taviani, “Teorema” di Pier Paolo Pasolini e “I cannibali” di Liliana Cavani, gli anni “caldi” del cambiamento, del ribellismo generazionale, di un certo protagonismo giovanile, della rivoluzione politica e culturale, che proprio nel cinema ha trovato una valida e visibile forma d’espressione. “Mostriamo con ironia e affetto un’altra Italia, quella che oggi è stata sconfitta alle ultime elezioni, ma che resta profondamente radicata nella cultura del nostro Paese”, sottolinea Fabio Gaudioso, docente di Storia e socio di Cinestudio. “Certo, l’aspetto più in ombra è stato quello della violenza, usata in parte come arma di repressione, in parte come arma di riscatto sociale. Comunque sarebbe un grave errore bollare il ‘68 in un certo senso come padre degli anni di piombo”. Tra il pubblico, c’è chi del ’68 ha ricordi decisamente più personali. “Per me quell’anno è stato bellissimo, perché ho conosciuto mio marito. Ed è stato un vero colpo di fulmine”, rivela Anna, casalinga. E c’è invece chi al ’68 deve la formazione di una coscienza critica, come Michele, di professione bancario: “Erano gli anni in cui lessi per la prima volta “L’uomo a una dimensione” ed “Eros e civiltà” di Marcuse. L’aspetto più negativo secondo me era una certa forma di intolleranza per chi non la pensava proprio in quel modo”. E c’è infine chi non risparmia qualche severa bacchettata all’attuale sinistra: “Hanno perso perché non sono in grado di esprimere una classe dirigente preparata, capace di interpretare i bisogni della gente”, sostiene Aldo, avvocato. E aggiunge: “Questo film l’ho già visto, annuncia la parabola discendente di un’epopea che si lascia dietro tante lacerazioni. Ma è sempre un’emozione rivederlo. Chissà perché, Nanni sa usare sempre il giusto modo di esprimersi”. Ma stavolta la risposta sembra esserci. Ed è quella che, verso la fine del film, Moretti mette in bocca a se stesso: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”.
Elena Orlando, "La Sicilia", 3/06/2008
martedì 3 giugno 2008
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