mercoledì 19 maggio 2010

Renzo Bossi, il Peter Pan della politica nordista. E non chiamatelo raccomandato. Al massimo, trota

Meglio un giorno da trota che cento da delfino. Renzo Bossi, il figlio del senatur,
amorevolmente definito dal papà “la sua trota” gioca a fare il duro, il puro, l’antitaliano, il politico, quello che ce la fa. A sostenere il peso di un padre che lo guida mano per mano nella selva dorata della politica, che lo candida a soli 22 anni al consiglio regionale della Lombardia. A professare una sola fede, quella per il federalismo. A cambiare le carte in tavola, smentendo di aver nominato Eliana Cartella, che sarebbe stata vista con Mario Balotelli, come sua fidanzata, a riprendersi da una sonora tripla bocciatura alla maturità che fece insorgere l’Italia intera, e a recuperare agli occhi dell’opinione pubblica iscrivendosi misteriosamente in un’Università straniera.

Il padre lo ha definito la sua trota, è vero. Meglio che delfino. La trota naviga in acque dolci e tranquille, non è soggetta a complessi d’inferiorità tipici del rapporto allievo-maestro, né tantomeno a ritorsioni dell’ultima ora, accetta di buon grado i rimproveri e le pacche sulle spalle e pure qualche sberla. E così l’erede politico del leader fondatore della Lega Nord, ovvero il suo amato figlioletto, con fare disinvolto, timbro impostato, rinnega l’Italia e inneggia alla Padania, ma poi dimostra disinvoltura nel godere dei privilegi offerti da Roma ladrona, come quando in tempi non sospetti accettò di fare l’assistente parlamentare, per intenderci il cosiddetto “portaborse”, del deputato europeo della Lega Francesco Speroni e pare che si mettesse in saccoccia qualcosa come 12.000 euro, che non fanno mai male.

Il figlio del senatur è giovanissimo ma ha già le idee molto chiare: alla consegna del tapiro d’oro da parte di Valerio Staffelli di Striscia la notizia ha risposto sicuro di sé e pronto a difendere la sua privacy. Ora, dopo essersi schermito da parecchie critiche e qualche sberleffo, con la stessa espressione del padre stampata in faccia, un volto da vero guerriero, affina le armi e punta sul carattere. Ergendosi a paladino dei “figli di…” inevitabilmente raccomandati (non è colpa loro, poverini), favorevoli ad assecondare le poche bizze di un destino già tracciato, ma sforzandosi di dimostrare a tutti i costi che le proprie qualità. Oltre gli sponsor. Per fare schiattare così d’invidia la folta schiera dei denigratori. Se poi si bruciano le tappe e si arriva alla ribalta viaggiando su una corsia preferenziale senza troppi esami da superare, poco importa. C’è sempre tempo per dimostrare qualità e merito. Non è questa la priorità. L’Italia non è certo un Paese meritocratico. E la Padania neppure.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

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