domenica 29 giugno 2008

Ma che c'azzecca il magnaccia?

"Caro Beppe, ci sono momenti nella vita delle nazioni in cui i cittadini devono fare delle scelte. Momenti in cui non si può più fare finta di niente e continuare a credere che, in fondo, nulla veramente cambierà. Le leggi che continuamente vengono proposte dal nuovo Governo sono un attentato alla democrazia. Cosa distingue un primo ministro di una democrazia da un dittatore? Il vero tratto distintivo è l’impunità assoluta del dittatore. Quando Silvio Berlusconi l’avrà ottenuta l’Italia sarà, a tutti gli effetti, una dittatura". Il leader dell'Italia dei valori, il battagliero ex pm molisano Antonio Di Pietro è seriamente preoccupato. E ora ha deciso di rivolgersi a Beppe Grillo. Il suo umore si attorciglia come cartavelina appallottolata tra le mani. Gli occhi gli escono fuori dalle orbite, il timbro della voce si alza di tono e si fa rauco e concitato. Il "dipietrichese", vulgata personal-popolare che ne ha fatto negli anni un esemplare più unico che raro, s'infiamma, colorandosi di espressioni che definire idiomatiche sarebbe eufemistico. Il solito giustizialismo contornato di moralismo e fermezza salta ancora una volta fuori con un balzo felino, vomitando sul premier Silvio Berlusconi un ruspante allarmismo. Ma quale lotta di potere tra politica e giustizia? Altro che conflitto d'interessi! "La sicurezza dei cittadini, tanto sbandierata in campagna elettorale da Berlusconi e dalla Lega, è sacrificata all’interesse del presidente del Consiglio", scrive Di Pietro nell'accorata lettera indirizzata al comico genovese. E, a sorpresa, in anteprima assoluta, annuncia: "L’otto luglio a Roma dalle ore 18:00 in Piazza Navona, in contemporanea con l’iter di approvazione della legge sulle intercettazioni, l’Italia dei Valori insieme a esponenti della società civile ha indetto una manifestazione per la libertà di espressione e per la giustizia". Proprio mentre Walter Veltroni sonnecchia all'ombra del Pd, stiracchiandosi in attesa di idee più brillanti da mettere in campo per ripartire, Di Pietro sembra farne le veci e risvegliare i toni dell'opposizione. Un fiume in piena, la sua filippica, che offusca del tutto la dichiarazione veltroniana, peraltro prevedibilissima, che "il dialogo con l'opposizione si è interrotto". Ma c'è di più. La ruvida protesta va avanti a oltranza da almeno un paio di giorni. E ieri ha raggiunto il suo momento più alto, sublime, quando l'ex pm se ne esce con un parolone grosso, attribuendo al premier che segnala telefonicamente a Saccà qualche starletta depressa in crisi di astinenza da esibizioni televisive in Rai, l'appellativo di "magnaccia". Chiedere scusa? Non se ne parla nemmeno. E a nulla è valsa la preghiera del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ad abbassare i toni. Di Pietro non ci sta e scalpita. E' fatto così. Non usa mezzi termini. Anzi, ne inventa sempre di nuovi, per rinverdire il giardino della nostra amata lingua. E, quando si parla di giustizia, s'infervora, alza la voce, si anima, gesticola, suda, si fa pallido, cambia perfino i connotati del volto. Come quando con la toga nera, in tribunale, negli Anni Novanta ha fagocitato un'intera classe politica senza neppure passarsi mezza mano sulla coscienza. Ha ripulito le mani dei politici, sbattendoli in galera, ma soprattutto consegnando all'opinione pubblica un'immagine della Prima Repubblica da urlo e sberleffo. Ma in quel caso, non era colpa sua. I politici gli avevano semplicemente lanciato un assist che lui ha subito calciato. Perché il suo motto sembra essere "la legge è uguale per tutti". Ma se sei un uomo politico e vieni colto con le mani nel sacco, le manette scattano prima, e senza remissione di peccato. Di Pietro è inflessibile. Peccato che a un certo punto abbia deciso di tradire la giustizia con la politica, scendendo in campo in quel lontano 1996, quando Romano Prodi lo chiamò nel suo governo come ministro dei Lavori pubblici, anche se l'avventura durò soltanto sei mesi. Ma era solo l'inizio di un'avventurosa carriera politica. Con Berlusconi sempre nel mirino. Infatti, gli accesi botta e risposta col premier non sono una novità per l'ex leader del pool milanese di "Mani pulite". Chi non ricorda quando, durante una puntata di Porta a porta, lo stesso Silvio Berlusconi mise in dubbio la validità della laurea conseguita da Di Pietro, sostenendo che gli era stata data dai servizi segreti? Per tutta risposta Antonio Di Pietro ha pubblicato sul suo blog la pergamena del titolo di studio, con tanto di commento polemico: "Io parlo con i fatti, non con menzogne o allusioni. Lo dimostra la laurea in Giurisprudenza conseguita il 19 luglio 1978. Lo stesso anno in cui il Presidente del Consiglio si iscrisse alla P2". Replica secca, per uno abituato ad affondare sempre il dito nella piaga e a esprimersi fuor di metafora e non proprio come ci insegna l'Accademia della Crusca. Ma, tornando ai fatti dell'ultima ora,visto che-ad un'attenta lettura- non c'è nulla di nuovo sotto il cielo delle intercettazioni pubblicate in questi giorni dai giornali- siamo proprio sicuri che stavolta la piaga sia davvero sanguinante? O non si tratta invece dell'ennesima messa in scena shakespeariana del "molto rumore per nulla"?

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 26 giugno 2008

Le ragioni dei vinti

Tutta colpa di quei calci di rigore che, come un boomerang, si sono abbattuti su Roberto Donadoni, spazzandolo via in brevissimo tempo dal ruolo di commissario tecnico della Nazionale. Senza troppi giri di parole, in una giornata in cui il tempo ha corso veloce, la Figc non perdona e assesta il colpo mortale, per finire la sua vittima. Dura lex, sed lex. E lasciando a casa eleganza e ragionevolezza, per bocca del presidente Abete, la Federcalcio dichiara "esaurito il rapporto contrattuale alla naturale scadenza", sebbene il contratto prevedesse altri due anni, ma con una clausola che permetteva di far decadere l'accordo stesso entro 10 giorni dall'uscita dell'Italia dall'Europeo. La Figc dunque non perde tempo e, in un battito di ciglia, rimuove dall'incarico il ct azzurro, che da oggi se ne starà in panchina. Certo, c'è stato un incontro tra Abete e Donadoni, e con esso un bilancio dell'attività svolta in questi due anni. Ma poi, subito il ben servito. Guarda caso, con l'immancabile e solita formula di rito tipica di chi ti sta fottendo col sorrisetto sulle labbra. Cioè, per rendere meno amaro il boccone, il comunicato della Figc si affretta a precisare qualcosa di fondamentale, anzi di determinante: " Nel confermare a Donadoni sincera stima personale, apprezzamento per la serietà e il qualificato impegno professionale che hanno contraddistinto il suo lavoro alla guida della Nazionale, ecc. ecc.". Ovvero: sì, certo, sei stato bravo, però (chissà perché, in questi casi un però c'è sempre), ti rispediamo in panchina con un sonoro calcio d'angolo. E lui? Che reazione ha avuto il mister dal capello riccio e brizzolato, dal fascino bergamasco essenziale e discreto, dagli occhi neri e penetranti? L'avevamo lasciato a bordo campo, con la fronte corrugata, un po' sudato ma tonico e coi nervi saldi, pronto a scandire con le labbra le astute mosse suggerite durante il gioco ai suoi ragazzi, con aria familiare, carica d'affetto. Ebbene, lo ritroviamo con l'umore sotto i piedi, un'espressione spenta e insieme meravigliata. Ma soprattutto, con poche parole, essenziali, ma cariche di dignità e correttezza: "Dispiace che un calcio di rigore abbia determinato questa situazione. In questi due anni la mia Italia ha fatto anche qualcosa di positivo, un'ultima partita non può cancellarlo". Questo il laconico commento. Già, davvero impossibile cancellare con un colpo di spugna un cursus honorum di tutto rispetto, per uno come lui, partito da Cisano Bergamasco, dove è nato il 9 settembre 1963, che arrivò al Milan dall'Atalanta per espresso volere di Silvio Berlusconi. Ha vinto tutto correndo lungo la fascia destra negli anni tra il 1986 ed il 1996. Ed in rossonero tornò nel '97, dopo la breve parentesi ai Metrostars di New York, prima di chiudere indossando la maglia dell'Al-Ittihad (Emirati Arabi). I trofei col Milan riempiono un lungo elenco: cinque scudetti dall'88 al 96; tre Coppe dei Campioni ('89, '90, '94); due Intercontinentali ('89, '90); tre Supercoppe Europee ('89, '90, '95) e quattro Supercoppe Italiane ('89, '92, '93, '94). In maglia azzurra Donadoni vanta 63 presenze (con 5 reti) e una maledizione legata ai rigori, la stessa che lo ha perseguitato da ct, nell'eliminazione della sua Italia ad Euro 2008: nel 1990 è lui a sbagliare uno dei rigori decisivi nella semifinale del 3 luglio contro l'Argentina; ad Uusa '94 non riesce a vincere il Mondiale, battuto nella finale con il Brasile, sempre dal dischetto.
Insomma: un rigore, un destino. Che continuerà a brillare perché Roberto Donadoni è un vero campione. E con la sua pacata reazione ha dato, senza volerlo, un' emblematica lezione di stile. Soprattutto a quelli della Federcalcio.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 24 giugno 2008

Il conservatorismo di sinistra ha detto sì

Un tuffo nella Capitale e... Appena atterrata, soffermo lo sguardo su un cartellone che annuncia la "Festa dell'Unità". Incredibile, la laica preghiera del direttore Antonio Padellaro in un recente editoriale, proprio dalle colonne del quotidiano che dirige, quello fondato da Antonio Gramsci, è stata ascoltata. Il quartier generale del Pd ha ubbidito, affidandosi ai cattivi umori espressi da Padellaro, fedele interprete di un malcontento che veniva dal basso. D'altronde, non potevano fare altrimenti in casa Pd, gli ex Ds, specie ora che si sono apparentati agli ex Dc, gente di poche parole, ma di sani principi. E ribattezzare la Festa in "democratica" avrebbe solo confermato che il requiem intonato rischiava di innescare una miccia pericolosa tra i nostalgici incalliti, pronti a fare di tutto per difendere il proprio credo politico. Tant'è che l'operazione si è presto rivelata un flop, magari perché siamo in Italia, e qui dalle nostre parti ci vuole tempo ad abituarsi ai cambiamenti. E così, anche se i Ds non esistono più, anche se si sono camaleontizzati in una nuova creatura, un ibrido che stenta ancora ad avere un'identità politica chiara e precisa, anche se si è formato un nuovo partito, i tradizionalisti, i nostalgici, gli affezionati alla festa non hanno mollato la presa e si sono impuntati, ottenendo stavolta un risultato ben visibile. Tutto sommato, non avrebbero poi tutti i torti, visto che per rinsaldare ogni unione un pizzico di sano tradizionalismo non guasta. E allora, l'unione innanzitutto. E le nomenclature giuste, anche. Infatti, se è vero che i Ds non ci sono più, per lo meno la tanto amata festa, quella storica, sempre uguale a se stessa, fatta di concerti, dibattiti, proiezioni cinematografiche e decine e decine di stand e di volontari, non poteva proprio rischiare di essere ribattezzata "Festa democratica". Sarebbe stato un oltraggio troppo pesante alla memoria, all'identità, alla storia del Pci di un tempo. E avrebbe annullato del tutto l'effetto-recupero, seppur velato e impercettibile, del rinnovato "Veltroni-Style", da ex buonista a uomo col broncio, deciso e incazzato.

E no, proprio no. Assolutamente no. Il popolo di sinistra, di questa sinistra smaccatamente e per precisa strategia politica antiberlusconiana, a vocazione maggioritaria, risorta all'ombra della quercia ma ancora un bel po' claudicante, che ora sta "a ferro e fuoco" con l'ala massimalista e radicale e che ama definirsi spesso laica, democratica e progressista quel tanto che basta, proprio non lo avrebbe accettato. E per mantenere vivo, anzi rinverdire, il consenso dopo le recenti pesanti sconfitte elettorali alle politiche e ancor più alle amministrative a Roma, "i capi" hanno pensato bene di puntare sul recupero della tradizione. E già, perché certe tradizioni non si possono dissolvere come polvere al vento. Eppure, viene da chiedersi: ma come? Non è nato un nuovo partito? Non è cambiato tutto? L'intera campagna elettorale non era stata combattuta all'insegna della parola "cambiamento"? Che fine ha fatto il cambiamento? Beh, con le nomenclature non si scherza. E i colonnelli del Pd sanno bene che il popolo diessino resta assai legato a questo storico appuntamento, che lo stesso Padellaro, sempre in quell'editoriale dall'emblematico titolo "Feste de L'Unità, il nome è tutto", non esitò a definire in questi termini: "Le Feste dell’Unità sono le Feste dell’Unità e non basterebbe una intera biblioteca per raccontare, spiegare, esprimere la quantità di sentimenti, di passioni, di valori che questo nome suscita. Ma dire « Festa dell’Unità » è andare oltre il puro significato identitario o politico. È quella cosa lì, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Festa dell’Unità è la cosa e il luogo. Anzi, è stato scritto non un luogo fisico ma una dimensione dell’essere. Un nome che definisce se stesso, come avviene per tutti i marchi universalmente riconoscibili, evocativi, e che nessuno si sognerebbe di cambiare".

Insomma, un marchio indelebile, eterno, immutabile. Altro che innovazione, neologismi, progressismi d'ogni sorta. Un sano conservatorismo non nuoce neppure al popolo che si è autoincoronato erede del Socialismo. Dunque, bando alle ciance, la tanto attesa "Festa dell'Unità", espressione più completa del vecchio che si fonde armonicamente (si spera) col nuovo, avrà un ricchissimo cartellone di concerti, incontri, dibattiti, dal 24 giugno fino al 27 luglio. E per chi, come la sottoscritta, volesse andare a farci un salto, se non altro per respirare che aria tira, dispiacerà non accontentare, almeno su questo, il platonico Padellaro che sembra essere volato nell'iperuranio quando arriva a scrivere che "questa festa non è un luogo fisico, ma - addirittura- una dimensione dell'essere". Eh, no, il luogo fisico c'è, eccome. Ed è anche di tutto rispetto: le Terme di Caracalla.


"Saremo il baluardo della Notte Bianca, nel momento in cui la giunta Alemanno ha deciso di svuotarla", assicurano gli organizzatori. Il messaggio scelto per i manifesti e' "Ciao, bella!", che compare accanto a una ragazza che si stiracchia sul letto mentre si risveglia. Guardato al contrario lo slogan diventa "Bella ciao", il titolo del celebre canto partigiano: "E' un richiamo- dicono dal Pd- ai valori del nostro partito e della nostra Costituzione, di cui quest'anno ricorre il sessantesimo anniversario".

Alla Festa prenderanno parte, nello spazio dibattiti, tutti i big del partito: dal segretario Walter Veltroni (22 luglio), a Francesco Rutelli (17 luglio), da Massimo D'Alema (3 luglio) a Pierluigi Bersani (23 luglio), fino ai capigruppo di Camera e Senato, Antonello Soro e Anna Finocchiaro (16 luglio). Spazio anche ai leader del territorio come il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti (12 luglio), e il presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo. Si parlerà anche della Costituzione con il presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e di esteri con Piero Fassino, di Aldo Moro e dei 40 anni che ci separano dal '68 romano. Nell'area della festa, che si estende su 25.000 metri quadrati, ci saranno 30 associazioni di volontariato e no profit, 10 punti di ristoro (7 gestiti dai volontari del Pd tra biologico, bisteccheria, fiaschetteria e pizza al taglio), uno spazio concerti allestito per 5.000 persone e una libreria (gestita da Rinascita). Tra i concerti in programma (alcuni saranno gratuiti, altri avranno un prezzo "politico"), band di rilievo nazionale e gruppi emergenti locali: Fabri Fibra (30 giugno), Modena City Ramblers (8 luglio), Gossip e Battles (9 luglio) e Shaggy.


Ora, resta solo da verificare se gli ex margheritiani, ospiti d'onore, affronteranno l'avvenimento con lo stesso coinvolgimento emotivo degli ex diessini, ospitali padroni di casa. Peccato che, per accorgersene, non basterebbe la presenza del più bravo tra i medium esistenti in tutto il pianeta. Ma poco importa. Tanto, alla fine, la prova del nove sarà questa: l'unione tra Ds e Margherita si farà più salda in futuro o finirà per essere anch'essa lo specchio dei tempi, con crisi di coppia dietro l'angolo e magari pure un divorzio traumatico all'orizzonte? Non è mai troppo tardi per chiederselo. Infatti, anche se è scoppiata l'estate, è passato il tempo in cui ci si poteva concedere il lusso di recitare la parte, per dirla con Antonello Venditti, dei "comunisti al sole".

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 21 giugno 2008

Sale la febbre del folk

Carlo Muratori, un musicista folk? Macché. Un musicista e basta. E a 360 gradi. Eclettico, dinamico e moderno, proprio come la sua idea di Sicilia, che poi è quella più vera, quella che più ci piace osservare e che vediamo crescere a vista d'occhio. Muratori sfata i luoghi comuni, le costruzioni letterarie. E dice no ai cliché, compreso quello che lo vorrebbe un menestrello con le toppe e una chitarretta di tre lire in mano. Anche questo sembrerebbe far parte di quel concetto di sicilitudine che Leonardo Sciascia definiva «la sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell'arte». E ora, dopo secoli di sfrontato autonomismo, a quanto pare, per allinearci al resto d'Italia, a parte il ponte sullo stretto, resta solo da sciogliere un ultimo nodo: sarà vero che il siciliano doc è inguaribilmente fatalista?...

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

Per saperne di più, leggi l'intervista pubblicata da "La Sicilia" il 19/06/2008,

http://giornale.lasicilia.it/giornale/1906/CT1906/CR/CR09/navipdf.html

mercoledì 18 giugno 2008

Maturità indiscreta



È la solita storia. Un copione già scritto, trito e ritrito. E, francamente, non se ne può più dei soliti indignati, dei reduci dell'ultima ora, dei pentiti che si battono il petto. Stamane è partita la maturità 2008: 500 mila studenti alla carica per lasciarsi dietro le spalle un capitolo di vita. Ore otto in punto: tutti lì, tra i banchi di scuola, in quell'interminabile istante prima di assaporare la temuta traccia. E, puntuale come un orologio svizzero, la fuga di notizie sui forum studenteschi. Una gara a colpi di indiscrezioni, conferme, smentite, che si sono rincorse a velocità supersonica fino a tarda mattinata. Cioè fino a quando si è avuta la certezza: eccoli! Montale, la condizione femminile, la Costituzione. La fuga di notizie è prassi ormai degli ultimi anni, probabilmente da quando il web si è incoronato come principale mezzo di diffusione di massa. E che massa! Concitata, accecata dal "furor" senecano della copiatura indispensabile, necessaria e, si spera, appagante quanto basta. Coraggio ragazzi, mancano appena un paio d'ore e poi tutto sarà finito. Per lo meno per stamattina. Per lo meno per l'italiano. Chi ama tradurre i classici o far di conto, dovrà attendere con ansia l'alba di domani. Ma, vi prego, non indignamoci più di tanto se copiare non è mai abbastanza, se circolano i soliti pizzini, se le copie alla fine entrano, se il prof. di turno è impegnato ad aiutare, mentre fa la guardia. Tanto, male che vada, ciascuno avrà tempo di dimostrare quanto vale o quanto è abile ad affabulare, a fregare, a bluffare. La maturità, dopo tutto, è soltanto un passaggio obbligato.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 12 giugno 2008

Se una rondine non fa primavera...


... E se, come teneva a precisare Aristotele, una sola azione virtuosa non rende virtuoso l'uomo che la compie, Mara Carfagna di strada ne dovrà ancora percorrere tanta. E dovrà macinare centinaia di chilometri, con fatica, fiato corto, e tanta, tanta grinta e determinazione. Perché alla nostra bella ministra per le Pari Opportunità, che il quotidiano popolare tedesco "Bild" non ha esitato a definire "la ministra più bella del mondo", i soliti noti hanno impresso un sigillo, che ha tutto il sapore di uno stigma, un marchio impresso a fuoco. Speriamo solo che quel marchio, che la relega miseramente a ex starletta tivù con uno spessore intellettuale di poco superiore a quello della gommapiuma, non sarà indelebile. E, in breve tempo, la fascinosa ministra riuscirà a scrollarselo via di dosso, per il resto dei suoi giorni. Sì, sarà pur vero che Mara Carfagna ha un passato ingombrante, lo scheletro del mondo dello spettacolo nell'armadio, qualche foto in posa senza veli, in cui mette in mostra tutte le sue grazie ( "Evviva Dio!", direbbero i signori maschietti). Ma ci sarà pur diritto, in questo Paese, di "redimersi", di rinascere a nuova vita, di indossare nuovi panni, di alzarsi un bel giorno e dimostrare, anzitutto a se stessi e poi al resto del mondo, che "oltre alle gambe c'è di più", per dirla con Sabrina Salerno e Jo Squillo, o- tanto per citare Anna Tatangelo, una che di queste cose ne sa qualcosa- che "essere una donna non vuol dire riempire solo una minigonna"? Ce ne sarà il diritto? Oppure dobbiamo rassegnarci a morire come siamo nati, chiudendo nel dimenticatoio il "tutto scorre" che il buon Eraclito ci aveva propinato, e a bagnarci nello stesso fiume per tutta la vita? Assurda pretesa, e quanto mai irreale, visto che nella vita accade spesso di cambiare, di scoprire lati inediti di noi stessi, di leggere nell'immagine riflessa dal nostro specchio fedele qualche carattere nuovo tra le pagine della nostra biografia, ancora tutto da decifrare. E allora, che ben vengano le folgorazioni sulla via di Damasco. E lunga vita alle redenzioni del corpo e dell'anima. E alla Carfagna in rigoroso tailleur grigio perla.

Elena Orlando

sabato 7 giugno 2008

I gemelli diversi

Scrittori si nasce, giornalisti si diventa? Chissà... I due mestieri sembrerebbero viaggiare su due binari paralleli. Ma in realtà è solo apparenza. Nella sostanza, potrebbero ben accomodarsi su due piani perfettamente sovrapponibili. E' quello che è accaduto, quasi senza accorgersene, a Elvira Seminara, giornalista de "La Sicilia", che ieri al Coro di Notte dell'ex monastero dei Benedettini, sede della facoltà di Lettere dell'Università di Catania, ha presentato il suo romanzo d'esordio edito da Mondadori. Con lei c'erano: Pietrangelo Buttafuoco, il preside della facoltà Enrico Iachello e l'attrice del Teatro Stabile Mariella Lo Giudice.

Non ne siete convinti? Provare, per credere. E vi assicuro che non è affatto un'"indecenza". Vedi http://giornale.lasicilia.it/giornale/0706/CT0706/CR/CR07/navipdf.html

Esile come un’anguilla, sulfurea e candida allo stesso tempo, scivola nella melma dei suoi numerosi tormenti, riemergendo pallida e disinvolta. Si chiama Ludmila, “con una sola elle”. Arriva dall’Ucraina. E piomba come una insidia nauseabonda nella vita di una coppia borghese dal ménage coniugale asmatico e sofferto. I suoi occhi sono azzurri, ma di un azzurro “eccessivo e spettrale”. La sua belle zza, “iniziale, originaria”, apre tra moglie e marito una voragine. La luce ammaliante e generosa della terra di Sicilia illumina il suo corpo gracile e malizioso, dai contorni adombrati di perverso. Tra le pagine intense e calde de “L’indecenza” (Mondadori, pagg. 181, € 17,00), si consuma un amore condito di sadismo. Ma anche il compromettente dialogo tra un Occidente sempre più venduto ad uno sfrenato consumismo e l’Europa dell’Est, con le sue brave ragazze affamate di amore, di lavoro e di un comodo tetto sotto cui dormire. “L’ho scritto in tre mesi, ma è come se l’avessi partorito in dieci anni”, confessa Elvira Seminara, giornalista e scrittrice, al suo romanzo d’esordio. “All’inizio, non credevo di riuscire a scrivere un romanzo. Finora avevo sempre scritto solo racconti di breve respiro. Ma poi, in maniera del tutto imprevedibile, man mano che scrivevo mi sono accorta che venivano fuori una serie di cose da raccontare. E il respiro si è via via allungato. E’ come se il tempo del racconto che avevo in mente si fosse dilatato fino a estendersi su tutta la storia. Del resto, più che all’ispirazione, io credo alla cospirazione. E in tutto questo, la natura ha avuto una parte davvero importante, diventando anch’essa protagonista”. Una natura dinamica, cangiante, che attraverso la “personificazione”, spalmata con cura e senza parsimonia all’interno di ciascuna descrizione, l’arricchisce, rivestendola di un abito regale. Così, le “foglie molli, sfinite, bagnate e irsute, che mugolavano nel vento”, sembrano commentare ad ogni passo, come il coro delle tragedie greche, le vicende narrate. E con esse, il dolore della moglie per quel figlio che non ha mai avuto, il suo legame ambiguo con Ludmila, fatto di affetto e insofferenza, ritrosia e generosità, l’istinto protettivo del marito, la misteriosa e malevola riverenza di Ludmila, sempre pronta a estrarre, come una spada dalla guaina, una parola vecchia e complicata da quel suo vocabolario del 1952. In copertina è Ferdinando Scianna a immortalare un istante dei sensi in cui prende forma tra le pareti di una stanza, attraverso una donna mora in sottoveste, la sensualità più carnale che, seppur discreta e accennata, pervade l’intero romanzo. Ipnotica e avvolgente, “L’indecenza” trascina il lettore più distratto nell’abisso profondo della dimensione onirica su cui si muovono disinvolti i personaggi. Non a caso, è la stessa lettura a suggerire ad Alessandro De Filippo e a Carmelo Emmi il video “Dream is destiny”, un viaggio in un sogno-incubo, dal cinema sperimentale, al cinema commerciale, ai videogiochi, che al Coro di Notte dell’ex monastero dei Benedettini ha introdotto la presentazione del romanzo. Difficile stabilire se a Elvira Seminara, per la riuscita dell’opera, abbia giovato più l’essere giornalista o l’essere scrittrice. “E’ una questione complessa, che mi sono posta tante volte. Sicuramente il fatto di essere giornalista mi ha aiutato a osservare la realtà in una maniera spietata”, spiega l’autrice, appena arrivata al Coro di Notte, qualche minuto prima di entrare in sala. “Lo scrittore e il giornalista sono due mestieri che non coincidono. Però si aiutano a vicenda, ne sono convinta”. Ma, in fondo, perché si scrive un romanzo? Quali sono le motivazioni che spingono a farlo? “Nel mio caso, è quasi un’urgenza fisiologica. Io la penso come Pavese: scrivere vuol dire parlare da soli e con la gente”. Il linguaggio, come sempre nello stile dell'autrice, è sciolto, snodato, e avvolge il romanzo di una soffice piacevolezza, dalla prima pagina all’ultima. “Direi che è una lucida follia a fagocitare con forza la realtà, che nel libro diventa un’unica cosa coi personaggi, trascinandoli in un enigma irrisolto e, proprio per questo, straordinariamente appassionante”, commenta il preside della facoltà di Lettere, Enrico Iachello. “C’è un gioco di complicità in perfetto stile Hitchcock”, scandisce Pietrangelo Buttafuoco. Che aggiunge: “Una parte rilevante della storia è rappresentata senza alcun dubbio dal duello che si sviluppa tra le due donne. Ludmila da una parte, la moglie dall’altra. Ma la natura ha un ruolo di primo piano. Svela agli occhi del lettore il lato dionisiaco della vicenda”. Un exploit emotivo, per l’attrice Mariella Lo Giudice: “L’indecenza suscita così tante emozioni che non si legge d’un fiato, bensì in apnea”.
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) "La Sicilia", 7/06/2008

venerdì 6 giugno 2008

Le isole fortunate


Cari amici,

oggi vi faccio dono dell'immagine di uno scorcio di
mare cristallino di San Vito Lo Capo. E di una
poesia tra le più belle di Pessoa, di cui mi sono
subito innamorata, alla prima lettura. Chissà se
accadrà anche a voi...


Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E' la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.


E solo se, mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.


Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando,
tace la voce, e solo c'è il mare.

Fernando Pessoa

giovedì 5 giugno 2008

Terra ca nun senti...

...ca nun voi capiri
ca nun dici nenti
vidennumi muriri!

Terra ca nun teni
cu voli partiri
e nenti cci duni
pi falli turnari. (Testo di una canzone di Rosa Balistreri)

Sabato 31 maggio, a Catania, nello splendido scenario di piazza Università, proprio di fronte al Palazzo Centrale, si è tenuto uno splendido concerto, organizzato da Carmen Consoli per rendere omaggio all'indimenticata Rosa Balistreri. Tanto si è detto, tanto si è scritto. Ma, una su tutte, scelgo la riflessione di Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea all' Università di Catania. Che mi pare calzi a pennello, soprattutto perché ci emoziona.

La lezione di Carmen
di Luciano Granozzi (Pubblicato in http://www.step1magazine.it/v2_open_page.php?id=4362)

martedì 3 giugno 2008

Ma la storia è davvero ciclica?

Cari amici, chissà se Polibio, fedele amante e accanito sostenitore dell'andamento ciclico della storia, non avesse davvero ragione. Una cosa è certa: il Sessantotto, vuoi o non vuoi, appassiona ancora e continua a far parlare di sé. A Roma, a Catania e in ogni dove. Perfino ora che i comunisti sono rimasti clamorosamente a bocca asciutta, fuori dal Parlamento e dai giochi di potere e attraversano una crisi esistenziale profonda. Come aveva saggiamente profetizzato Nanni Moretti...

Che cosa significa oggi essere comunisti? L’interrogativo è di quelli che inquietano, specie se si ripensa al recente risultato elettorale. E dire che se lo poneva già nel flashback di una Tribuna politica, il profetico Nanni Moretti di “Palombella rossa”, film del 1989 da lui diretto e interpretato, in cui il “girotondino” veste i panni di Michele Apicella, deputato trentacinquenne dell’allora Pci, giocatore di pallanuoto in crisi profonda per aver perso la memoria, che però via via riaffiora, attraverso una serie di immagini del suo passato che come flash tempestano la sua mente. Un comunista in crisi, che anticipa la crisi del comunismo, il crollo di un’ideologia, la fine di un’epoca . E lo fa senza troppe cautele e, anche grazie al surreale linguaggio dell’arte, senza peli sulla lingua, specie quando arriva a definire fascista lo stesso Enrico Berlinguer, affondando il dito nella piaga di un partito già allora claudicante, incerto, indeciso, che pecca della mancanza di una forte identità politica. I panni sporchi, insomma, Moretti non li lava in casa, ma semmai li stende nell’agorà del grande schermo, a portata di mano. E pensare che proprio in quell’anno sarebbero cambiate molte cose negli equilibri della scacchiera politica mondiale. E il germe della profezia sarebbe inevitabilmente esploso in un’epidemia di dimensioni planetarie. Sull’onda lunga di una sconvolgente marea che inneggiava turbolenta alla contestazione e al cambiamento, “Palombella rossa” ha aperto la stagione estiva (dal 1 giugno al 30 settembre) dell’Arena Argentina, storico cinema catanese riaperto nei primi Anni ’80 dalla cooperativa Azdak, attualmente gestito dall’associazione Cinestudio, che da quasi 30 anni propone al suo pubblico il meglio della produzione cinematografica italiana e internazionale. Ed è stato il primo di una serie di “Echi dal ‘68”, un ciclo di appuntamenti che ogni lunedì riproporrà in chiave italiana, attraverso “Escalation” di Roberto Faenza, “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio”, “Sovversivi” di Paolo e Vittorio Taviani, “Teorema” di Pier Paolo Pasolini e “I cannibali” di Liliana Cavani, gli anni “caldi” del cambiamento, del ribellismo generazionale, di un certo protagonismo giovanile, della rivoluzione politica e culturale, che proprio nel cinema ha trovato una valida e visibile forma d’espressione. “Mostriamo con ironia e affetto un’altra Italia, quella che oggi è stata sconfitta alle ultime elezioni, ma che resta profondamente radicata nella cultura del nostro Paese”, sottolinea Fabio Gaudioso, docente di Storia e socio di Cinestudio. “Certo, l’aspetto più in ombra è stato quello della violenza, usata in parte come arma di repressione, in parte come arma di riscatto sociale. Comunque sarebbe un grave errore bollare il ‘68 in un certo senso come padre degli anni di piombo”. Tra il pubblico, c’è chi del ’68 ha ricordi decisamente più personali. “Per me quell’anno è stato bellissimo, perché ho conosciuto mio marito. Ed è stato un vero colpo di fulmine”, rivela Anna, casalinga. E c’è invece chi al ’68 deve la formazione di una coscienza critica, come Michele, di professione bancario: “Erano gli anni in cui lessi per la prima volta “L’uomo a una dimensione” ed “Eros e civiltà” di Marcuse. L’aspetto più negativo secondo me era una certa forma di intolleranza per chi non la pensava proprio in quel modo”. E c’è infine chi non risparmia qualche severa bacchettata all’attuale sinistra: “Hanno perso perché non sono in grado di esprimere una classe dirigente preparata, capace di interpretare i bisogni della gente”, sostiene Aldo, avvocato. E aggiunge: “Questo film l’ho già visto, annuncia la parabola discendente di un’epopea che si lascia dietro tante lacerazioni. Ma è sempre un’emozione rivederlo. Chissà perché, Nanni sa usare sempre il giusto modo di esprimersi”. Ma stavolta la risposta sembra esserci. Ed è quella che, verso la fine del film, Moretti mette in bocca a se stesso: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”.

Elena Orlando, "La Sicilia", 3/06/2008

domenica 1 giugno 2008

Quattro chiacchiere con Ferdinando Scianna

Un interminabile istante. Un attimo di eterno, immortalato in una frazione di secondo. Negli scatti fotografici di Ferdinando Scianna è racchiuso il mondo. “Del resto, in una foto c’è vita e morte insieme. Non è come un disegno. Se lei ci pensa, accade così: quella persona che si è deciso di fotografare era lì, ti stava davanti in quel momento. Faceva dei gesti ben precisi. Magari, stava scrivendo proprio come sta facendo lei adesso. Credo che fotografarla sia un po’ come strappare l’immagine di una persona e immobilizzarla in un attimo di eterno. Un fotografo apre una finestra sul mondo perché rappresenta immagini tratte dalla realtà. Proprio come fanno gli scrittori, osservando i gesti e ascoltando con attenzione le parole che la gente usa nei propri discorsi. E poi c’è il rapporto con la memoria e con l’identità. Noi, proprio grazie alla rivoluzione copernicana della fotografia, dopo 200 anni siamo stati i primi a riuscire a vedere com’eravamo da bambini”. Appena arrivato al Coro di Notte, dove insieme al professore Antonio Di Grado e al poeta Angelo Scandurra ha ripercorso la storia della fotografia di ritratto, partendo dalle avventure di Veronica, che ironicamente ne è il mito fondante, Ferdinando Scianna si sofferma a scherzare con sottile ironia, tipicamente siciliana, sui suoi doloretti (“Ormai sono pieno di dolori e, ahimè, le donne mi guardano con una certa diffidenza. Sarà meglio che mi dedichi ai miei solitari, con le carte che ho accumulato in questi anni”). Però, a sorpresa, annuncia una grande mostra a Parigi, che ripercorrerà i suoi 42 anni di carriera. Iniziati nei lontani Anni Sessanta.

Lei nasce a Bagheria nel 1943. All'Università di Palermo si dedica agli studi, poi interrotti, di Lettere e Filosofia. Nel 1963, all’età di vent’anni, incontra Leonardo Sciascia con il quale pubblica il primo dei numerosi libri poi fatti insieme: Feste religiose in Sicilia, che l’anno successivo ottiene il prestigioso premio Nadar. Com’era Leonardo Sciascia?
“Senza alcun dubbio è stato l’uomo più importante della mia vita. La nostra amicizia è durata 28 anni. Per me è stato un maestro, un amico. Credo che il suo tratto caratterizzante fosse questo: essere sempre se stesso in qualunque occasione. Non si preoccupava mai di come appariva. Lui era. Sempre e comunque. E lo manifestava in ogni cosa che faceva: mentre interveniva in Parlamento e quando mangiava il baccalà con le olive. E aveva un’integrità davvero straordinaria”.

Poi si trasferisce a Milano dove dal 1967 lavora per il settimanale L'Europeo come fotoreporter, inviato speciale, poi corrispondente da Parigi, dove vive per dieci anni. Introdotto da Henri Cartier-Bresson, entra nel 1982 nell'agenzia Magnum. E, alla fine degli Anni Ottanta, sfonda nel campo della moda. Il suo approccio originale, una sapiente miscela di moda e reportage, le consente di collaborare immediatamente con le riviste di moda più famose, sia in Italia che all’estero, come ad esempio Vogue. Che cos’è per lei la sensualità?
“Guardi, la sensualità e l’erotismo riguardano il mondo. Le faccio un esempio: non è che il mio scatto si fa sensuale perché sto fotografando una donna. La sensualità è anche in una foto che immortala un paesaggio o che ritrae una persona mentre mangia una mela. E poi, le confesso una cosa: non ho mai pensato di fotografare le donne per dare sensualità ai miei scatti. Le fotografo perché mi interessano e basta”.

Richard Avedon diceva: “Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legata alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi”. A lei accade la stessa cosa?
“Mah, guardi, io la penso come Borges. Considero perdute o quantomeno sprecate le giornate in cui mi sono dimenticato di essere felice”.

C’è un’immagine della Sicilia, magari legata alla sua infanzia a Bagheria, che lei si porta dentro, quando gira il mondo?
“La nostalgia non mi appartiene. Per me è mollezza, roba da adolescenti. Vivo abbastanza il presente. In questo momento sto lavorando sul paesaggio della pianura padana. E mi sto accorgendo di come sia straordinariamente piatto rispetto al nostro, che invece è straordinariamente vario. L’immagine della Sicilia per me è racchiusa nell’esortazione di mia madre, che mi diceva: “infilati il cappellino, che il sole t’ammazza!”. Ed è una foto, come avrebbe detto Bufalino, piena di luce e di lutto, che poi è il segno della nostra presenza dialettica nel mondo”.

Se avesse a disposizione un solo aggettivo per descriversi, quale userebbe?
“Beh, ne userei due, che si contraddicono. Direi razionale e appassionato. Diciamo pure che sono appassionato, ma ho sempre bisogno di ricondurre la mia passione alla geometria. Non a caso, “La geometria e la passione” sarà forse il titolo del mio nuovo libro”.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), "La Sicilia", 2/06/2008