giovedì 30 ottobre 2008

Su facebook ci metti la faccia

Con quel volto un po’ così, quell’espressione un po’ così… in fin dei conti, su facebook ci puoi stare. Ti ci puoi accomodare, puoi aprirti un profilo, elencare i tuoi  gusti, gli hobby, le passioni, gli orientamenti politici, perfino credenze, superstizioni, allergie e quant’altro serva a parlare (e a far parlare) di te. 

Puoi contattare gli amici di un tempo, gli ex compagni di scuola di cui pensavi di esserti liberato per sempre, personaggi famosi che invidi perché vorresti la loro stessa popolarità, politici importanti da cui speri che ti arrivi qualche benedizione che, dati i tempi, non fa mai male. Su facebook puoi perfino lanciarti in imprese sociali, creando gruppi d’ogni genere, sensibilizzando l’opinione pubblica, cercando di orientare gusti e tendenze (chessò, fondiamo il club della melanzana alla parmigiana oppure aiutiamo i bambini del terzo mondo, senza dover per forza andare in Africa). E, quando non hai da fare e proprio non ti si fila nessuno, puoi sempre chattare (ebbene sì, la chat è il male del secolo) con chi vuoi, sugli argomenti più disparati (Che si fa stasera? Cinema, pizza, aperitivo o letto?).

Eh già, gli amici veri, quelli meno veri e quelli di letto. Tutti lì, su facebook. Il social network (a voler essere precisi, è così che si chiama) più in voga del momento,  fondato il 4 febbraio 2004 da un ragazzino di appena 19 anni: un certo Mark Zuckerberg, studente ad Harvard. Lo scopo era quello di riabbracciare, seppur virtualmente, s’intende, un vecchio amico di corso di un college americano.  

E da lì è partito il passaparola che ha allargato il social network a macchia d’olio. Ormai stare su facebook va di moda.  E nessuno può sottrarsi alle mode, fossero pure forzate e imposte dai più. Certo, nessuno ti obbliga, per carità. Ma se ci sta uno come Barack Obama, il primo politico in assoluto ad aver capito l’importanza di una rete sociale di queste dimensioni per acchiappare qualche consenso in più, scimmiottato molto bene in Italia da Daniele Capezzone e da molti altri politici di casa nostra (cliccando su Silvio Berlusconi, compaiono ben 12 profili con foto), se ci sta uno schivo e solitario come Franco Battiato, che se un fan anche solo per sbaglio prova ad avvicinarglisi, come minimo lo fulmina con un’occhiataccia, allora esserci diventa quasi un must. 

Un dovere morale, si potrebbe dire, nei confronti di tutti quelli che ti conoscono, ma soprattutto che, per loro disgrazia, potrebbero conoscerti. Perché su facebook, l’amicizia, ovvero  quel legame naturale che, per fortuna, ciascuno è libero di gestirsi come vuole, puoi richiederla. Semplice: fai appunto richiesta e, se ti va bene, dopo qualche giorno, se sei stato accettato, stringi amicizia (proprio così) col tuo nuovo amico/a che va subito a infoltire il tuo esiguo o numeroso gruppetto di amici. Tutti in fila. Anzi,  tutti in lista. E la stessa cosa possono farla gli altri con te. Tanto per dire, se ti adocchia qualcuno/a, sei spacciato. L’unica via di scampo è rifiutare. Ma per così poco… si finisce quasi sempre con l’accettare. Non si discrimina nessuno.

Ma attenzione: se hai fatto tardi la sera, se non hai proprio una bella cera, nessun problema. Su facebook a parlare per te sono le foto che scegli con molta cura. Puoi essere venuto male se ti “taggano” in qualche album, ma quelle del tuo profilo sono tutte foto carine, a meno  che tu non sia un masochista di professione. Tutto è virtuale, ovvio. Baci e strette di mano, compresi (forse il virtuale ha quasi rimpiazzato lo scambio più vero e autentico tra le persone, che è appunto quello reale?...).

Ci sono perfino i poke (gli  affettuosi, si spera, buffetti sulla guancia) e ogni volta che qualcuno fa il compleanno, puoi rompergli le scatole perché facebook comincia ad avvisarti della ricorrenza con un bel pacchetto in bella vista qualche giorno prima. 


E, per finire: se qualcuno, affetto per caso o di proposito dalla sindrome del fu Mattia Pascal avesse deciso di cambiare famiglia e città, di rifarsi il guardaroba e sparire per un po’ da tutto e da tutti, ma avesse malauguratamente scordato di “suicidarsi” sul facebook,  si guardi le spalle. Prima o poi, qualche vecchia conoscenza potrebbe sempre rifarsi viva. 


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it) 

mercoledì 29 ottobre 2008

Diego forever

C’è un momento nella vita di ognuno in cui ci si spoglia per sempre delle vesti di soldato, magari semplice gregario, ma pur sempre combattente, forsennato e isterico, incredulo e appassionato. E si passa a indossare i panni meno sgualciti e molto più stirati di comandante.

Cioè, in poche parole, si passa dall’altra parte della barricata, dove si decide, si prende in mano il timone, ci si assume una consistente dose di responsabilità. E’accaduto a Diego Armando Maradona, uno dei calciatori di maggior talento della storia calcistica di tutti i tempi, e in particolare del secolo scorso. Re assoluto e incontrastato del Napoli, sospeso a metà tra storia e leggenda, realtà e sogno. Un eroe per tanti, quasi un semidio. Una carriera intensa, come la sua vita, turbolenta e sopra le righe. Al centro di tutto, un temperamento irruento e passionale dentro e fuori dal campo da gioco. Il successo e poi, l’inesorabile discesa. Col dramma della droga e i numerosi problemi di salute. E poi ancora la difficile risalita, mai più ad alti livelli.

C’è chi lo ha adorato, quasi fosse una divinità (in realtà, in un certo era come se lo fosse), chi ne ha avuto pena e compassione. Un fatto è certo: ora il “pibe de oro” mette a segno un goal importante: diventa l’allenatore dell’Argentina. Con l’obiettivo di riportare la squadra sul tetto del mondo ai prossimi campionati mondiali in Sudafrica nel 2010.

La Federazione argentina, prima della decisione, ha riflettuto a lungo. E così, alla fine, il sorpasso con Carlos Bianchi, ex ct della Roma, che alcuni sondaggi davano per favorito, è avvenuto davvero. Proprio in area di rigore: quella del suo quarantottesimo compleanno. Spesso la vita ricomincia davvero a cinquant'anni. Auguri Diego, siamo con te!

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 25 ottobre 2008

Caro Walter, a volte i conti non tornano

Il leader del Pd deve avere qualche problemino con le cifre. Se infatti due più due fa quattro, un operaio che, secondo Veltroni, guadagnerebbe oggi in Italia qualcosa come 25 mila euro l’anno, ovvero più di 2000 euro al mese, ha tutte le ragioni per stare sull’orlo di una crisi di nervi. Magari, si potrebbe dire. Se così fosse, gli operai, di questi tempi, potrebbero quantomeno dormire con un occhio.

Il bello è che il segretario del Partito democratico ne è sicuro, e lo grida a gran voce davanti alla platea di elettori ma soprattutto di simpatizzanti e curiosi arrivati a Roma da tutta Italia, che hanno deciso di trascorrere un sabato pomeriggio a sventolare bandiere al Circo Massimo.

Peccato però che Veltroni abbia trascurato un particolare a dir poco fondamentale: quelle cifre non esistono se non nel suo immaginario, visto che un operaio nel nostro Paese guadagna meno della metà di quella cifra. Ma non colpevolizziamolo più di tanto. Il poveretto come fa a sapere come stanno davvero le cose. Lui l’operaio non solo non l’ha mai fatto, ma non ci ha mai neppure pensato. Lui nella vita si occupa di tutt’altro. Fa l’opposizione. Che a conti fatti significa cercare ogni occasione buona per vomitare il suo disprezzo contro Berlusconi, la sua ricchezza, le sue tv. “Sapete come vuole educarci il nostro premier? Con la televisione!”, dice. E immediatamente scatta l’applauso.

Però non sfugge, sul palco retrostante, proprio alle spalle di Veltroni, l’espressione compunta e trattenuta di Massimo D’Alema, in prima fila insieme all’intero quartier generale dei democratici (Melandri, Rutelli, Franceschini e perfino l’orfano i Prodi, Sircana). D’Alema, chissà perché, ogni tanto abbassa gli occhi e china il volto. Come quando a un certo punto Veltroni sferra duri attacchi al premier e insiste sulla necessità che alcune banche si distacchino dalla politica.

Berlusconi despota, Berlusconi reazionario, Berlusconi pericolosamente filo-fascista. “Ma noi siamo un Paese molto meglio di chi lo governa. Lo ripete fino allo sfinimento, il leader del Pd. E non dimentichiamoci - aggiunge - che siamo all’opposizione pro tempore”, scandisce dal pulpito col suo volto serafico e rassicurante.

Prima di lui, su quello stesso pulpito era appena salito Rosario Crocetta, il sindaco di Gela, temerario nella sua lotta alla criminalità. Viva Falcone, viva Borsellino, Saviano siamo tutti con te. Si esulta, si applaude, si incita. L’atmosfera è calda, il clima da stadio. Tutt’intorno si sventolano le bandiere. Ma dei palloncini colorati non c’è traccia. E stavolta nemmeno del tormentone nevrotico e ormai superato del conflitto di interessi, che sembra essere sparito una volta per tutte dalla vulgata piddina.

Sono le sei del pomeriggio. Come si dice a Roma, s’è fatta na certa. E come se non bastasse ognuno deve organizzarsi la serata (è sabato!) e nel cielo a nord s’intravedono nuvoloni grigi e minacciosi. Il corteo finisce tra le graffianti note di “People have the power” di Patty Smith. Ormai nessuno se la sente di rispolverare l’antiquata "Canzone popolare" di Ivano Fossati.

Evviva, il dissenso è stato canalizzato. Il corteo di manifestanti defluisce lentamente. I veltroniani e i dalemiani sono stati contati. C’è chi dice due milioni, c’è chi dice 200 mila. Ma del resto, come si diceva all’inizio, il Pd non sa fare tanto bene i conti. E, mentre si cammina in fila indiana, con le bandiere in mano e gli striscioni avvolti sulle spalle, qualcuno più realista commenta: “Speriamo bene. Noi abbiamo dato un bel segnale. Adesso tocca a loro, ai dirigenti, mettersi all’opera. Speriamo che non facciano come al solito, cioè che se ne fregano”. Chi vivrà, vedrà.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 22 ottobre 2008

Quel nome che mi piace tanto

Ognuno ha il nome che si ritrova. Gliel’hanno affibbiato fin dalla nascita mammà e papà. Magari è brutto, insopportabile, pesante come un macigno. Magari ha il sapore di antico o è profondamente antiquato. Magari invece è bello e suona bene. Perché ogni parola che si rispetti ha un suono che si rispetti. Come fosse un fraseggio musicale più o meno armonico.

Spesso quella del nome è una scoperta affascinante. Specie quando si attende un figlio. Come lo chiamiamo?, si chiedono con insistenza i genitori per il nascituro. Che nome gli appiccichiamo addosso? Quello della nonna (se femmina) oppure del nonno (se maschio)? Teniamo viva la tradizione di famiglia o ci lanciamo in un rispolvero creativo e inebriante? Lo scegliamo a caso oppure lo cerchiamo su internet?

Beh, da oggi la Cassazione mette a freno la fantasia. Nessuno potrà più sbizzarrirsi sulla scelta dei nomi. Tant'è che la Suprema Corte ha confermato il cambiamento d'ufficio del nome di battesimo imposto da una coppia di Genova al primogenito. Il bimbo non potrà chiamarsi "Venerdi", come avrebbero voluto la mamma Mara e il papà Roberto. Si chiamerà Gregorio. E non è che questa repentina inversione di tendenza abbia fatto particolarmente piacere ai due genitori che, senza successo, hanno cercato di insistere sulla legittimità della scelta del nome Venerdì.

Ma la giustizia non è uguale per tutti, se sull’ "Oceano” degli Agnelli e sulla “Chanel” di Totti nessuno ha fatto una piega. Ma si sa, Mara e Roberto sono persone comuni e per loro la regola vale, eccome. E si applica fino in fondo.

Per carità, nessuna discriminazione. Ma se vi capita di stringere la mano ad una certa Asia, prima di muovere delle critiche, accertatevi quantomeno che si tratti della celebre attrice, figlia di Dario Argento.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 16 ottobre 2008

Mischiarsi la pelle, le anime, le ossa?

E dopo la separazione dei beni, è la volta della separazione delle classi. Il leghista Cota la sua proposta l’ha fatta, anche se è stata da molti considerata indecente. Anche se ha incassato un bel no dall’opposizione, dai sindacati e persino dal mondo cattolico.

Ma ormai, quel che è fatto è fatto. Nel senso che la mozione che introduce nelle scuole italiane le cosiddette “classi d’inserimento” per i figli degli immigrati che non masticano ancora bene la nostra lingua è stata approvata dalla Camera.

Peccato però che il provvedimento, giudicato da Veltroni, manco a dirlo, “intollerabile”, non abbia conquistato le simpatie neppure dell’ala destra del Pdl, tant’è che Alessandra Mussolini, in qualità di presidente della commissione bicamerale per l’Infanzia, ha deciso di scrivere al ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, la cui fama è balzata in vetta alle classifiche degli ultimi sondaggi, chiedendole con urgenza un incontro. E anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno chiede "una pausa di riflessione".

La maggiore perplessità che accomuna tutti i dissidenti e gli scettici sul provvedimento leghista è che l’integrazione vada così a farsi benedire. E se Veltroni dal canto suo rispolvera la sua vena buonista e nostalgico-sentimentale a cui ci aveva abituato nei mesi scorsi, ricordando agli italiani quando eravamo noi, un tempo, gli emigranti con la valigia di cartone in cerca di ospitalità e accoglienza, il settimanale cattolico “Famiglia cristiana”, per bocca del suo direttore, don Sciortino, lancia un vero e proprio grido d’allarme: “Le classi ponte per gli studenti stranieri complicano l’integrazione e puntano all’espulsione degli immigrati”.

Preoccupata anche l'Anci, l'associazione dei comuni italiani. Fabio Sturani, sindaco di Ancona e suo vicepresidente, fa notare che "in Italia sono circa 690.000 gli studenti stranieri presenti nelle nostre scuole che rappresentano oltre 190 diverse nazionalità. Nessuno mette in dubbio che per i minori stranieri ci sia necessità di un sostegno scolastico, ma questo si deve aggiungere alla normale programmazione delle attività e soprattutto deve essere inserito in quadro, concreto, di pari opportunità e di sostegno all'integrazione".

E già, l’integrazione. Tanto facile a dirsi, ma così difficile a farsi. Non è che quasi quasi sarebbe meglio quella del ghetto, che di certo non richiede nessuno sforzo, se non quello di starsene ciascuno per conto proprio? Se fosse coì, vorrebbe dire che siamo proprio un popolo di sfaticati.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 13 ottobre 2008

Cari compari, vi scrivo...

...Così mi distraggo un po’. E siccome siete molto lontani, più forte vi scriverò. Sembra aver strappato le parole di bocca a Lucio Dalla, Vincenzo Santapaola, figlio maggiore del famoso Nitto. Una lettera accorata, la sua, piena di sentimento. E per farla leggere ha scelto le colonne del quotidiano “La Sicilia” del 9 ottobre, a pag.37.

Dettaglio fondamentale: il pluripregiudicato in questione è detenuto al 41 bis, in un carcere del Nord Italia, dove le misure di massima sicurezza impediscono qualsiasi contatto con l’esterno.

Ma a tutto c’è un rimedio. E l’ingegno suggerisce a Enzuccio di far recapitare al direttore del giornale cittadino la missiva. Al centro di tutto, una preghiera rivolta alla gente per sensibilizzare l’opinione pubblica: “Vi prego, consideratemi una persona normale". Mica facile per uno il cui ultimo arresto risale al 3 dicembre del 2007 nel corso della cosiddetta “operazione Plutone”, che portò in carcere 70 persone accusate di associazione mafiosa, rapine, traffico di droga ed estorsioni (allora i magistrati ipotizzarono che Enzo stesse riorganizzando il clan catanese, sfaldatosi dopo l'arresto del padre, che tuttora sconta l'ergastolo).

Qualche riga più in giù, il pathos cresce. Santapaola junior esprime tutto il suo disagio, manifestando di sentire il fiato al collo dei suoi nemici. E si ribella al peso di un cognome che ha già segnato da un pezzo il suo destino : “C'è gente che con pregiudizio mi giudica e mi considera in base a ciò che si è detto e scritto su di me, additandomi come un criminale.... C'è gente che crea leggende sul mio conto e sui miei familiari. Ci sono altri che usano il mio nome in modo scellerato per i loro loschi interessi, per vanto, per ignoranza. Questi ultimi sono quelli che più mi danneggiano e che contribuiscono in modo determinante a far sì che il «mito Santapaola» resti sempre in vita mio malgrado”.

Colpevole? Macché. "Mi trovo indagato perché nel corso di alcuni colloqui, intercettati nel carcere di Catania, un detenuto parla di un tale «Enzuccio» (che l’Autorità giudiziaria ha ritenuto essere la mia persona) e raccomanda a un congiunto di prendere contatto con lui (incidentalmente osservo che, anche a concedere che i due parlino di me, tale incontro, come provato in atti, non è mai avvenuto)".

Dunque un abuso del proprio cognome da parte di “ignoti personaggi”. Il Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) sta indagando “per verificare con quali modalità sia stato possibile che la lettera di una persona detenuta al 41 bis sia stata pubblicata sul quotidiano".

Intanto il direttore de “La Sicilia” ha fatto sapere che la missiva gli è stata consegnata dai due legali di Vincenzo Santapaola, Francesco e Giuseppe Strano Tagliareni. Ed è subito scoppiata la polemica sul perché il giornale non avesse riportato neppure un paio di righe di commento alla missiva. Semplice: il direttore non è uno che sottovaluta i suoi lettori e avrà diplomaticamente pensato che il fatto si commentava da solo.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

domenica 12 ottobre 2008

Un nome per non dimenticare

Nomen omen, dicevano i latini. E se è vero che il nome rivela l’essenza delle cose, perché mai togliere quello di Pio La Torre, il segretario siciliano del Pci ucciso dalla mafia nel 1982, all’aeroporto di Comiso (Rg)? Quel nome è un segnale importante per la Sicilia e per la lotta alla mafia, per la memoria storica e per la civiltà del nostro Paese.

Ecco allora che la manifestazione, organizzata dal centro studi e di iniziative culturali "Pio La Torre", guidata da Vito Lo Monaco, a cui hanno aderito 20 mila personalità della cultura, del sindacato e dell'associazionismo tra cui Andrea Camilleri, il regista Giuseppe Tornatore e il leader della Cgil Guglielmo Epifani, e che ha chiamato a raccolta oltre duemila persone contro la decisione dell’amministrazione comunale di ritirare la delibera del misfatto non ha certo bisogno di spiegazioni, né tantomeno di giustificazioni.

Perfino il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha voluto sottolineare che "la scelta di Comiso consente di richiamare in un luogo appropriato l'impegno politico e sociale dell'onorevole La Torre, appassionatamente schierato a favore della pace e della distensione internazionale, e al tempo stesso per il progresso economico, sociale e civile della Sicilia".

La decisione repentina e inspiegabile del sindaco Giuseppe Alfano (Pdl-An) di cancellare la delibera della precedente giunta e ripristinare il vecchio nome dello scalo “Vincenzo Magliocco” ( il generale che, durante il fascismo, ha bombardato l’Etiopia con gas e armi chimiche) non è piaciuta a molti. Men che meno a Franco La Torre, figlio dell’ex leader Pci: “è stata offesa la memoria di mio padre, la gente presente qui testimonia che Pio La Torre ha fatto del bene a questa terra".

Una scelta inaccettabile, secondo il leader del Pd Walter Veltroni, che sulla lotta alla mafia ha ribadito la necessità di un impegno bipartisan. Per il segretario regionale del Pd, Francantonio Genovese, "bisogna impedire che quel che è accaduto a Comiso si possa ripetere altrove oltraggiando eroi caduti nella lotta alla mafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino".

Contrarietà all'iniziativa del sindaco anche dal fronte politico opposto. Secondo il vicepresidente della regione siciliana, Titti Bufardeci (Pdl): "Non si può cancellare la storia, credo si dovrà tenere conto della mozione unitaria che il parlamento regionale discuterà per ripristinare l'intitolazione dell'aeroporto a Pio La Torre".

Perché la mafia si combatte anche così, sensibilizzando l’ opinione pubblica. Per non dimenticare chi per combatterla, ci ha rimesso la vita.
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)
Nella foto: i funerali di Pio La Torre e il titolo del quotidiano L'Ora di Palermo

mercoledì 8 ottobre 2008

Non chiamatele veline

Il monito arriva dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che nelle virtù interiori e nelle qualità intellettuali delle veline ha sempre creduto. E non solo perché il programma che ha fatto della velina un’icona femminile presto divenuta il simbolo di un’intera generazione è uno dei più seguiti della sua rete regina (Striscia la notizia di Antonio Ricci, in onda tutte le sere su Canale 5 e campione di ascolti), ma soprattutto perché il Cavaliere è stufo di un’equazione semplicistica e demodè che si ostina a relegare le veline nell’angolino buio di ragazze sculettanti senza qualità né cultura, angolino che poi altro non è che l’anticamera del ghetto squallido e opaco delle oche giulive senza neuroni in zucca che ancheggiano come le vamp davanti alla telecamera.

Insomma, in poche parole il premier invita caldamente a smetterla coi soliti stereotipi. E’ ora di finirla con l' uso e troppo spesso l'abuso di un termine che Berlusconi definisce “denigratorio, discriminatorio e un po’ razzista, nonché decisamente poco femminista e secondo il quale una bella ragazza dovrebbe essere necessariamente sciocca e incolta”.

Le veline sono donne intelligenti. Vedi, per esempio, la ex di Bobo Vieri, Elisabetta Canalis, una che è riuscita a capitalizzare al massimo l’esperienza televisiva con Greggio e Iacchetti, senza per questo rinunciare poi a sforzarsi di cambiare veste, provando in tutti i modi a fare l'attrice. E già, perché chi fa la velina finisce poi inevitabilmente col portarsi dietro un’etichetta impressa come un marchio targato a fuoco sulla pelle: sei una ex velina. Ricordatelo sempre...
Che tradotto in vulgata comune, sta a significare: calma, bella, dove vuoi arrivare? Guarda che eri una che fino a poco tempo fa sgambettava in silenzio, senza proferire parola. Una, per intenderci, tutta sorrisi e fru fru. Appunto.

Antonio Ricci, mente diabolica di Striscia, a cui l'audace ironia e l'intelligenza di certo non mancano, rispose provocatoriamente a questo cliché, con: “veline, fan tutti le veline”. Il riferimento, neppure troppo celato, era alla miriade di politici, giornalisti, giudici, monaci, socioeconomisti, tutti lì pronti a fare a pugni per apparire in tv. Ecco, proprio a voler fare di tutta l’erba un fascio, saranno pur loro i fratellastri delle veline, o no? il tasso di probabilità è molto alto.

Beh, di certo sono di gran lunga preferibili le veline, quantomeno per la salute pubblica e il benessere collettivo. Tra Bruno Vespa, Clementina Forleo e Vladimir Luxuria (solo per citarne alcuni) oppure Melissa Satta, Veridiana Mallmann, Miriana Trevisan, Cristina Quaranta, Roberta Lanfranchi, Laura Freddi, Alessia Merz (solo per citarne alcune) chi è meglio vedere in tv (col massimo rispetto per tutti, s'intende)? Decisamente le seconde. A meno che qualcuno non possieda, oltre che uno sfrenato moralismo, anche un gusto dell’orrido spietato, che non perdona.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 7 ottobre 2008

La moviola segreta: quel disco inciso per sempre

"Alle volte nemmeno dieci moviole riescono a chiarire certi episodi". Parola di Urbano Cairo. Anche se il giudizio un po' "tranciant" risale a un anno fa, il presidente del Toro solleva un dubbio: che la tanto declamata moviola non sia del tutto infallibile. Non più inventio divina, dunque.

Sta di fatto che, odiata o amata che sia, - nelle analisi post-partita - è davvero un elemento irrinunciabile. Spesso deus ex machina che scende dall'alto a sciogliere quei nodi difficilmente districabili che rischiano di fare appallottolare come un foglio di giornale le più azzardate analisi dei commentatori spesso abituati ad arrovellarsi su se stessi. Spesso la moviola finisce per essere un'arma a doppio taglio: mette alla gogna i colpevoli, ma allo stesso tempo scagiona i presunti tali da colpe che non hanno, da falli mai commessi, da fuori gioco inesistenti, e così via. E attorno a sé scatena fiumi d'inchiostro e ispira decine e decine di agoni verbali fatti di serrati e animati botta e risposta televisivi.

Che la moviola fosse conosciuta anche a chi non è un patito del calcio, lo si sapeva. Ma forse non tutti sanno che la moviola ha perfino a che fare con la letteratura. La sua storia inizia già nel 1930, quando compare nella nostra lingua come "apparecchiatura per il montaggio cinematografico, che permette di fermare la pellicola in qualunque momento e di farla scorrere avanti e indietro a diverse velocità".

A questo impiego accennano illustri personaggi del nostro panorama letterario. Come Carlo Levi ne «L' orologio» (1950), Mario Soldati nel romanzo «Le due città» (1964), Pier Paolo Pasolini nella raccolta di scritti postumi «Le belle bandiere» (1977).

Ma da dove deriva il termine "moviola", ovvero, per dirla con Aldo Grasso, quell'"implacabile occhio tecnologico" capace di far tremare le vene ai polsi a giocatori, arbitri, allenatori e presidenti di squadra? Le origini sono anglo-americane, per l'esattezza da "movieola", che a sua volta deriva da "movie" (in inglese: pellicola, film). Ma andando ancora più a ritroso nel tempo, si scopre che la parola in questione affonda le sue radici nel verbo latino di seconda coniugazione "movere".
L'impiego della moviola per rivedere e analizzare le riprese degli avvenimenti sportivi più controversi risale al 1967. Galeotto fu l'intervento del giornalista Carlo Sassi nello storico programma Rai "Domenica sportiva".
A partire da quel momento, è stato quasi impossibile resistere al fascino della moviola. Eppure ce n'è una ancora più irresistibile. E' la "moviola segreta" che è in noi, ovvero la nostra memoria. E stavolta niente effetti collaterali come discussioni o risse. Perfino gli eterni dibattiti se vietarla, sospenderla o usarla senza risparmio sembrano essersi dissolti nel vento.
Perché l'incantevole effetto immediato che produce questo tipo di moviola, appunto quella segreta, è uno solo: "il passato si alza subito intorno, la vita trascorsa riappare, come un disco inciso una volta per sempre". Parola di Eugenio Montale.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su http://www.alessandrorosina.it/

mercoledì 1 ottobre 2008

Emanuele Filiberto pop: ci è o ci fa?

Il principe ha detto no. E, per la verità, nessuno dei comuni mortali se lo sarebbe mai aspettato. Sarà che Emanuele Filiberto di Savoia, classe 1972, figlio di Marina Doria e di Vittorio Emanuele, nonché nipote dell’ultimo re d’Italia, Umberto II, più che un uomo fino a ieri era un semidio, a metà strada tra l’umano e il divino. Sarà che attorno a lui si era formata un’aura di etereo e di immateriale. Sarà che non lo si era mai visto così, in carne e ossa, a tenere banco nella giuria di un programma televisivo più populista che popolare, con una modesta e timida parvenza chic. Eppure, alla fine il principe azzurro si è ribellato al suo destino da bravo ragazzo.
E lo ha fatto così, coi suoi incantevoli occhi blu, la sua soffice voce pacata, il suo perbenismo d’alto rango, la sua espressione flemmatica e rassicurante, il suo sorriso appena accennato.

E per farlo, ha scelto il Ballo delle debuttanti, lo show della domenica sera che lo vede ormai lanciatissimo. Tanto che neppure la conduttrice Rita Dalla Chiesa e una scatenata Platinette (per fortuna che c’è lei ad evitare che qualcuno possa sprofondare nel sonno…) riescono più a domarlo.
Ebbene sì, l’ultimo di casa Savoia ci ha preso gusto al vezzo della ribellione, mentre è lì a cavalcare la tigre di una giuria mezza stranita per i modi poco educati delle sue cortigiane, ben vestite e scalmanate.

Ma partiamo dall’inizio. In origine fu ancora lei, la signora Mediaset, l’istrionica Maria De Filippi in c’era una volta anche Costanzo. E’ tutto merito suo se l'alveo materno di Canale 5 ha partorito un altro reality show, senz’altro quello più effeminato della nuova stagione televisiva. Eccolo lì, Il ballo delle debuttanti, in onda tutte le domeniche in prima serata. Le protagoniste? Tante, tantissime, troppe femminucce sgallettate in calore, in attesa di piazzarsi in qualche angolo televisivo.

Attenzione, perché per rendere il gioco più accattivante, sempre la De Filippi ha avuto la brillante idea di dividere le lady in questione, acerbe e acide, in due squadre: le finte pop, un po’ rocchettare, un po’ maleducate e le false chic, mezze perbeniste e forzatamente retrò.

E il principe?
Sta in mezzo? Macché! Altro che centrista e moderato. Lui ha già scelto da tempo. Cresciuto sotto l’egida di una famiglia che qualche capitolo di storia del nostro Paese l’ha scritto davvero, imbrigliato nei rigidi dettami di un’educazione che ormai gli sta stretta (quella che, se sbagli magari lanciandoti addosso un solo tortello al ragù, proprio non perdona) ha già preso una posizione netta e precisa: finge spudoratamente di essere pop. Per partito preso, per rinnovare la sua immagine, per prostrarsi con umiltà dinanzi alla plebe affamata che tanto ha sofferto e che continua ancora a soffrire, e mostrare un volto rinnovato, dimostrando di saper essere vicino a chi gli è e gli sarà sempre lontano mille miglia.

E non occorre un’acuta capacità di osservazione per notare che Emanuele Filiberto farebbe carte false per scrollarsi via di dosso quel manto regale ormai divenuto un pesante fardello, talmente pesante da farlo risultare ai più anacronistico e antiquato, e di cui in fondo quasi quasi si vergogna anche.

No, lui sente assolutamente il bisogno di dire no a tutto questo e di riscattare una volta per tutte la sua immagine. In poche parole, il principe ha un disperato bisogno di snobbare i riti e i vezzi regali. E di farlo subito, prima che sia troppo tardi e la sua immagine venga compromessa per sempre.

Basta, basta, Emanuele Filiberto è un Savoia, d'accordo, ma del suo cognome così pesante e della sua famiglia non ne può più. E tra un po’ perfino della mesta mogliettina Clotilde Courau, che in barba a chi non ci avrebbe scommesso neppure una pizza, non solo si è fatta maritare, ma gli ha dato pure due splendide figlie.

Basta, adesso però basta. Il principe ha voglia di altro, di molto altro. Per esempio, di scorrazzare in giro vestito come gli pare, di fare il maleducato, come la maggior parte delle persone dimostra di essere, di adeguarsi senza riserve al fascino bruto e animalesco dell’uomo “servaggio”, che cammina per strada sputando per terra, noncurante delle buone maniere.

E guai se qualche ragazzetta gli dice che è chic, perché il principe si offende, fa perfino finta di arrabbiarsi sul serio e per un interminabile attimo prende la parola e alza pure il tono di voce.

E’ il momento in cui le acide maestrine di bon ton propongono alle ragazze, che nel corso del programma devono dimostrare di sapersela cavare in svariate situazioni sociali con destrezza ed eleganza, di mangiare un gelato. Che sia al gusto di fragola o di cioccolato, come si mangia un gelato? Beh, se è un cono, si lecca, il principe su questo non ha dubbi. Macché, gli rispondono indignate le maestrine, che invece impongono alle ragazze di usare il cucchiaino.

E no, il principe insiste, stavolta proprio non gli va giù. Scalcia, sbraita, non può fare a meno di inveire: “Andiamo, ma fatemi il piacere…Avete mai visto mangiare un cono col cucchiaino?”, ripete allo sfinimento Emanuele Filiberto, aspettando l'applauso. Incredibile, questa sì che è roba d’altri tempi. Poco male, tanto il principe in questa sua nuova veste inedita e performance favolistica, di certo, suo malgrado (per non fargli montare la testa, certe cose è meglio dirgliele subito), continuerà ad essere ancora una volta se stesso: ovvero molto chic, un filo snob e pochissimo pop.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)