venerdì 30 gennaio 2009

Su Alessandro Rosina, qualche fraintendimento di troppo

Di questi tempi, nei confronti di Alessandro Rosina i giornalisti non hanno proprio il bavaglio spalmato di miele. Se ne sono accorti un po’ tutti. Soprattutto i lettori, che leggendo qualche giornale non avranno esitato a notare lo stravolgimento dei fatti, delle interpretazioni, delle frasi riportate male. Eppure ogni bravo cronista che si rispetti dovrebbe rispettarlo, il diritto di cronaca, riverirlo e onorarlo tutti i giorni della sua vita. E invece pare che ultimamente si finisca per scivolare sulla fatidica buccia di banana. Ed eccoli lì, il fraintendimento, il malinteso, la mala fede. E Rosina viene gettato, senza pensarci su due volte, in pasto ai pescecani, nel cinico e spietato tritacarne dei media.

Ma ripartiamo da dove la storia ha avuto inizio. Riferendosi alle ultime contestazioni in campo, in un’intervista a un noto quotidiano nazionale, il capitano del Toro si rivolge ai tifosi con queste parole: «Bisognerebbe aspettare la fine della partita». I giornalisti invece riferiscono: «Rosina: non sono un tifoso del Toro». In realtà Rosina aveva semplicemente detto: «Contestare dopo solo 23 minuti di gioco è sbagliato. Io faccio il giocatore. I tifosi facciano i tifosi». Come dire: qualche volta la distinzione dei ruoli serve.

Ecco, si può anche capire male, per carità. Nessuno è infallibile. A maggior ragione i giornalisti, bombardati da centinaia di notizie al minuto. Ma il dubbio sorge: che cosa avrà fatto pensare al giornalista in questione di sentirsi in dovere di andare un po’ più in là, attraversando il filo spinato, fino a ritrovarsi nel campo minato dell’irrealtà, della menzogna, della costruzione mediatica di qualcosa che poi di fatto non esiste?

Gettare Rosina in pasto all’opinione pubblica è già di per sé assai rischioso. Lo è ancor di più se lo si getta senza scrupolo nell’acqua bollente. Se poi lo si fa per fare notizia a tutti i costi, sollevare un inutile vespaio, fomentare sterili polemiche e creare qualche problemino d’immagine, tutto diventa semplicemente assurdo.

Ma siccome la verità, di per sé, messa a confronto con l’errore, trionfa e Locke ne era fermamente convinto, Rosina tiene a precisare che le sue parole sono state fraintese. E tutto torna più chiaro. Resta il fatto che chi fa informazione e dà le notizie dovrebbe quanto meno sforzarsi di essere preciso e obiettivo. Se poi fosse anche leale e onesto, beh, sarebbe tutta un’altra storia.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

martedì 27 gennaio 2009

Gli illustri “sinistri” della storia

Una storia scritta al rovescio, quella di chi «non può fare cose diritte». Che, nonostante un giudizio, implacabile e sferzante, espresso all’inizio del XII secolo e ripreso dallo storico dell’arte Pierre- Michel Bertrand, riabilita alla grande la categoria dei mancini. Altro che individui malefici o degenerati, maleducati o delinquenti, vili e subalterni. I mancini sono esseri speciali, d’eccezione. Tutto merito di Barack Obama, il nuovo presidente degli Stati Uniti, telegenico, bene intenzionato e soprattutto mancino, ma rigorosamente di successo. Facile allora la grande smentita, che fa subito crollare l’immenso castello di sabbia che ha voluto bollare chi usa la mano sinistra, manco fosse una condanna o un flagello, come creatura di per sé “sinistra”, oscura, sgradevole, riservando alla destra tutti gli onori, tutti i privilegi, tutte le nobiltà. Una rivalsa in piena regola, che ha tutto il sapore di un eccesso nel senso opposto, di una sbracata glorificazione con tanto di scettro e corona. A dirla tutta, dati alla mano, di grandi mancini, o meglio, di mancini di un certo spessore, ce ne sono stati davvero tanti.

Nella storia, in effetti, abbondano i casi di mancini di straordinario successo: da Giulio Cesare a Michelangelo, da Napoleone Bonaparte a madame Curie, da Ronald Reagan a Bill Clinton, da Albert Einstein a Anthony Kennedy, da Bill Clinton a Bill Gates, Paul McCartney a David Bowie. Per non parlare di Jimi Hendrix, mancino che si era fatto fare una chitarra su misura. Tra i contemporanei, usano la sinistra il principe William, futuro re d'Inghilterra, e le attrici Angelina Jolie e Nicole Kidman. Celebri i tiri "mancini" dei giocatori di tennis che hanno fatto storia e vinto tornei, da McEnroe all’astro nascente Nadal. Pura casualità? Forse.

Ad ogni modo, a riabilitare e legittimare la categoria c’è una storia illustre alle spalle. La sinistra poi cresce in tutto il mondo. E non in senso politico, ma sempre riguardo all’uso della mano. Tant’è che una recente indagine c’informa che il mancinismo, secondo alcuni studiosi condizione ereditaria, secondo altri legato all’età della madre (far figli in età avanzata ne aumenta la probabilità), coinvolge circa l’11 per cento della popolazione mondiale.
E se per Cesare Lombroso il sinistrismo era indice di regredimento mentale, la pedagogista Maria Montessori considerava i mancini possibili geni. Altri studiosi mettevano in risalto la presunta correlazione fra mancinismo e idiozia, strabismo, balbuzie ed ogni altro difetto. E un certo dottor Fliess, grande amico di Sigmund Freud, rilevava che, laddove esiste mancinismo, il carattere opposto sembra prevalere e alla fine i gay mancini sono in maggior numero rispetto ai destri.
Però, una cosa è certa. Proprio a non voler essere moderati e bipartisan, ma molto accorati, i mancini stanno dalla parte del cuore. Quindi, perché no, potrebbero essere il volto migliore dell’umanità. Forse.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it )

lunedì 26 gennaio 2009

Il portafoglio si svuota a stomaco pieno

Piatto ricco, mi ci ficco. Ma un italiano su cinque, dopo l’abbuffata al ristorante, resta a bocca asciutta. E soprattutto col portafoglio scarno. Manco avesse fatto la dieta “a zona” di Berry Sears. È quanto rivela il Codacons, che ha stilato una classifica delle principali lamentele ricevute dai consumatori sui ristoranti italiani. E se un piatto di cannelloni o di filetto in crosta lascia un retrogusto amaro, tutta colpa del rapporto con i prezzi delle portate, ritenuti eccessivi. A lamentarsi è il 45 per cento di quelli che abitualmente mangiano fuori casa. Segue poi l’insoddisfazione da servizio, che investe il 25 per cento dei clienti, che lamenta scarsa cortesia e disponibilità del personale. L’ 8 per cento invece si lagna delle “fregature”, sempre in agguato anche tra le pagine chiare e le pagine scure del menu. E in questo caso a farne le spese più che il portafoglio è l’intero apparato digerente. Il restante 4 per cento reclama infine scarsa igiene, assenza di parcheggi, tavoli troppo ravvicinati. Insomma, inghiottire certi bocconi non piace più a nessuno. Specie a chi non ha la pazienza di Oscar Wilde, che a tavola avrebbe perdonato chiunque.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 22 gennaio 2009

Nichi Vendola, mancato leader di una sinistra sul viale del tramonto

La notizia la ha annunciata al Tg3. Anche se una profonda insoddisfazione politica nei confronti di Rifondazione comunista, Nichi Vendola se la porta dentro da qualche tempo. Ma ora la corda per troppo tempo tirata si è rotta. E il governatore della Puglia lascia il suo partito. O meglio quel che resta di un partito che già qualche giorno fa il dimissionato direttore di “LiberazionePiero Sansonetti ha definito ormai morto. Lontani i tempi in cui Rifondazione proponeva un percorso politico di una sinistra d’ispirazione europea, movimentista e pacifista. Una sinistra forte, con un progetto serio, pronta a guardare al futuro e che invece oggi è finita per ripiegarsi su se stessa e restare imprigionata nei suoi limiti. Un regresso in piena regola, testimoniato anche dal crollo del consenso, dalla perdita di fiducia della classe operaia, l’elettorato per antonomasia di Rifondazione, che non si sente più rappresentato.

Non a caso, la spia rossa di questa crisi è stata la storica scomparsa di Rifondazione dal Parlamento. Fuori dai giochi, con un potere di contrattazione ormai quasi nullo. Poi Fausto Bertinotti che, dinanzi alla sconfitta epocale, fa autocritica e si dimette. Gli succede Paolo Ferrero.
Per la successione, più volte si era fatto il nome di Nichi Vendola, senza però mai arrivare alla concretezza del ruolo che gli sarebbe spettato quasi di diritto. Perché Vendola fa politica sul serio e la fa in mezzo alla gente. Si batte da sempre contro le mafie e per il riconoscimento dei diritti civili di tutti, omosessuali compresi, è un uomo che scalda la piazza e ascolta le richieste della gente comune, lavora sodo e possiede il carisma necessario a risollevare le sorti di un partito asmatico e claudicante.

E invece no. Non è accaduto. E Vendola, autore della mozione sconfitta all’ultimo congresso, vittima inconsapevole del perverso meccanismo delle correnti interne al partito, viene ripetutamente messo in minoranza e relegato in un angolo con possibilità d’azione molto limitate. Un ruolo, questo, che proprio non gli si addice. E lui, perfettamente consapevole, alla fine ha preso l’unica decisione che c’era da prendere. Se ne va perché «vivere da separati in casa mi pare un non senso», dice.
Sabato Vendola riunirà a Chianciano i sostenitori della sua mozione al congresso e darà l’annuncio ufficiale. «Credo che chiuderemo una stagione politica, faremo i conti con questa crisi travolgente della sinistra che c'è in Italia. Con tante compagne e compagni di Rifondazione c'è oggi un corto circuito, non solo della politica, ma pure del linguaggio. Parlo di fronte a compagni e compagni che hanno investito sulla mia persona, ma non chiedo un reclutamento: ognuno deve fare i conti con la propria coscienza».

Un epilogo triste, che lascia un certo amaro in bocca. Ed è un vero peccato. Perché è un evidente segno di miopia. Vendola infatti avrebbe aiutato Rifondazione a riprendere un nuovo cammino, a risorgere dalle macerie, a essere più credibile nei confronti degli elettori e a riconquistare il consenso.
E invece no. Non è successo. Perché accade quasi sempre che chi ha davvero qualità nel nostro Paese resta quasi sempre ai margini, chi ha carisma viene visto con un certo sospetto. Molto meglio se sei un mediocre. Non dai nell’occhio e non dai fastidio, non spaventi perché sei più facilmente manovrabile. Ecco, allora sì che ti viene concesso lo spazio necessario per avanzare.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

Il sacro furore del mito: un fuoco che brucia ancora

Viveva per Amore e Psiche. Da quando aveva letto che « Vi erano in una città un re e una regina. Questi avevano tre bellissime figliole. Ma le due più grandi, quantunque di aspetto leggiadrissimo, pure era possibile celebrarle degnamente con parole umane; mentre la splendida bellezza della minore non si poteva descrivere, e non esistevano parole per lodarla adeguatamente».
Quelle poche righe risuonavano nella sua testa come il violino nel valzer viennese. E Lucrezia ormai non faceva altro che immaginare. Immaginava tutte le notti il signore dell’amore e del desiderio e Psiche, “simplex et curiosa”, la sua accecante bellezza, la sua pelle di luna, il suo sguardo d’angelo. Si svegliava non appena l’orologio a pendolo della sala da pranzo con un secco rintocco spezzava in due il denso silenzio della notte. Apriva gli occhi e saltava giù dal letto. Per riprendere ancora una volta tra le mani quel libro di Apuleio con i corpi dei due amanti avvinghiati l’uno all’altro in copertina, così come li scolpì Antonio Canova. Era arrivata a pagina venti della favola che le aveva regalato Paolo per il suo ventunesimo compleanno. Gliel’aveva impacchettato con cura, quel libro, che ora le sue avide mani avevano già consumato.

Nell’oscurità della sua camera da letto, le sembrava di trovarsi tra le mura di quel castello in cui Amore aveva imprigionato la bella principessa e di sentire il vento di Zefiro sfiorarle il corpo con lieve delicatezza. Leggeva intensamente, quasi a voler scolpire con gli occhi ogni singola parola, ogni frase, ogni virgola di quel magico libro rischiarato dalla tenue luce gialla della lampada sul comò.
Poi, finalmente il momento tanto atteso: quello in cui, Psiche, pronta a tutto per istigazione delle sorelle, decide di vedere a tutti i costi il volto del suo amato. Quella goccia che cade dalla lampada le sarà fatale. Ma le prove che l’attendevano dovevano ancora arrivare. Nel frattempo a Lucrezia restavano ancora quattro ore di sonno e altre dieci pagine da leggere.

«Mi spieghi una volta per tutte a che servono i miti classici? Dai, sinceramente proprio non lo capisco. Che senso hanno queste storielline incredibili? Adesso ci pensano anche i greci e i latini a farci la morale?».
«Dai, Paolo, quante paranoie… Era semplicemente il loro modo di spiegare tante cose importanti. La conoscenza, l’esistenza di Dio, l’invidia e la miseria degli esseri umani, le improvvise tempeste ».
«Ah, certo Lux, non ne dubito. Ma se invece ogni cosa impariamo a spiegarcela noi?». «Impossibile. Non tutto ciò che ci circonda è spiegabile con la ragione».
«Ma che dici? Io a leggere la favoletta di Apollo e Marsia oppure di Orfeo ed Euridice o peggio pensare che piove perché Zeus si è arrabbiato e ha tuonato, mi viene da ridere».
«Ehy, ehy, aspetta un attimo. Guarda che era così allora, nel loro mondo, tra la loro gente. Noi oggi viviamo nel III Millennio! E cambia tutto. Ed è tutta un’altra storia…».
«Certo, tant’è che ogni notte vai a rifugiarti tra quelle pagine che ti ho regalato perché non ne potevo più di sentirtene parlare. E ci perdi pure mediamente tre ore di sonno!».
«E allora? È forse un delitto? Paolo, io faccio quello che mi pare».
«No, Lux. Tu ti rifugi incondizionatamente in un passato che nobiliti ma che in realtà non sai neppure tu stessa com’era davvero. Fuggi dal mondo, dalla vita di tutti i giorni e dal presente».
Quella sera Paolo e Lucrezia, che stavolta non lesse neppure una sola riga di quel libro, bruciarono per tutta la notte la loro incontenibile passione. Proprio come Amore e Psiche…

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

lunedì 19 gennaio 2009

La piroetta imperfetta di una magica ballerina volante

Quel giorno le venne peggio del solito. Girò talmente veloce su se stessa da sembrare una trottola, anziché una ballerina di danza classica. Appena un paio di giri e perse l’equilibrio. Puntò il piede sinistro per terra e si fermò. La piroetta non le era riuscita. E non era neppure colpa di quella lieve tensione al ginocchio che l’assillava da giorni. Stavolta era venuta a mancare la concentrazione. E Paola se ne accorse, eccome.
“Ma dove credi di arrivare andando avanti di questo passo? Eh, me lo spieghi? Una brava ballerina dev’essere sempre concentrata. L’equilibrio del corpo e della mente vanno di pari passo. E' come la sintonia che si stabilisce in un passo a due perfettamente riuscito. E poi, il talento va coltivato. Con rigore e disciplina. Devi allenarti sodo, Martina, provare e riprovare fino alla nausea. Fino a quando non avrai più fiato e forza e starai per piegarti su te stessa come un giunco. Quando sei qua dentro, l’orologio devi buttarlo via dalla finestra. Il tuo unico pensiero dev’essere sentire il tuo corpo e accorgerti dei messaggi che ti manda. Ma soprattutto non accontentarti mai, dico mai. Lo capisci? Non sei mai abbastanza brava. Non sei mai arrivata alla meta. Ce n’è sempre un’altra dopo. E’ questo che ti deve entrare in testa. Puoi dare molto di più, fare molto meglio sempre e in qualsiasi momento. Chiaro?”.

Paola su certe cose era molto severa. E aveva il piglio intransigente dei veri grandi maestri, quelli che riescono sempre a tirar fuori il meglio dagli allievi perché sanno bene come farlo. Insegnava danza classica da vent’ anni, per l’esattezza da quando ne aveva ventotto. Fino a quell’età si era soltanto esibita nella scuola dove aveva mosso i primi passi da ballerina. Era diventata il punto di rifeimento per molti. E anche per Martina, che all’arte di Tersicore si era appassionata un po’ per gioco. Ma a un mese dall’inizio, quell’attività iniziava a farsi seria. Quattro ore di intenso lavoro alla sbarra per due giorni a settimana. “Il tutù che hai portato ieri ti calza a pennello. Ti avvolge come la corolla di un girasole. E poi è anche rosa, il tuo colore preferito. Dove l’hai preso?, le chiese Mary, l’ assistente di Paola. “Ah, sì, l’ho comprato la settimana scorsa”, rispose distrattamente Martina, mentre s’infilava le scarpe a punta, allacciandole con precisione fin sopra i polpacci.

“E’ inutile, non ce la farò mai. Paola ha ragione. Ormai sono innamorata della mia imperfezione a tal punto da non volermene più sbarazzare per nessuna ragione al mondo”. – “Dai che non è vero” – la rassicurò Mary, mentre si sistemava il body di acrilico color avorio, facendolo scivolare leggermente sui fianchi appena accennati di un corpo esile e scolpito, ma pieno di energia. “E invece sì”, ribattè Martina che nel frattempo aveva sciolto i lunghi capelli ondulati e indossato in fretta una fascia fucsia e la calzamaglia di lana. “Eppure danzare mi piace ogni giorno di più. Mi emoziona, mi fa sognare. Passo dopo passo, mi sento leggera, è come se mi librassi in volo e uscissi fuori dalla materia, per attraversare l'etere come la luce e il suono. Non so come dire... E poi m'intriga vedere fino a che punto il mio corpo può arrivare, i risultati che può raggiungere. Anche se ho le gambe troppo lunghe e sulle punte non raggiungerò mai quel magico equilibrio che tu e Paola avete già raggiunto da tempo”. “Dai che non è vero. Stasera vieni a casa mia. Ti farò vedere in un dvd Svetlana Zakharova ne “La Bayadère”. E’ un dono per gli occhi e per l’anima. Vedrai che risorgerai a nuova vita”. - “No, dai, lo sai che è il mio mito? Ma come facevi a saperlo? E’ guardandola che mi sono innamorata della danza. Ok, a stasera”.
Mary balzò a passo felino nell’altra stanza, quella a fianco con le pareti verde pastello, riservata alle allieve che avevano superato i vent’anni d’età.
Martina invece riprese ad allenarsi alla sbarra, con “Fields of Gold" di Sting nella testa e tanta voglia di una fetta di torta di mele. Meglio non pensarci. L’attendevano altre due ore di arabesque e di piroette imperfette.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

venerdì 16 gennaio 2009

L’aurea brevitas conquista la “Giovane Holden”

Sarebbe meglio non abusare troppo della pazienza dei lettori, anche quelli più indulgenti. Ecco perché la casa editrice viareggina “Giovane Holdenlancia il progetto “Leggi spesso? Leggi sottile”, un’affannosa ricerca di testi brevi da pubblicare senza alcun costo a carico dell’autore. L’idea non sarebbe male, considerando il fatto che – come ha sottolineato Miranda Biondi, responsabile della casa editrice - un’indagine Istat del 2006 evidenziava che venti milioni e 300 mila persone, nei dodici mesi precedenti all’intervista, non avevano letto neanche un libro.


Libri sottili, di poche pagine, con un prezzo simbolico di pochi euro, per invogliare a leggere, fuggendo dalla fobia del “polpettone” di trecento pagine e passa. Peccato però che se la storia narrata acconsente, per lo scrittore dilungarsi è uno spasso. I personaggi prendono il sopravvento, i dialoghi s’infittiscono, la trama si arricchisce di una serie di digressioni che si espandono come i rivoli di un fiume. E chi scrive resta vittima inconsapevole di tutto questo. Quando ciò accade, l’importante è non perdersi per strada, dimenticando da dove si è partiti e dove si vuole andare. E non perdere mai troppo di vista la condizione di disagio in cui, a causa dei ritmi frenetici della vita moderna, il lettore è sempre più spesso costretto a trovarsi. La mancanza di tempo libero, la stanchezza accumulata dopo una giornata di lavoro, e magari pure un paio d’ore di traffico cittadino, che rischiano di far andare il cervello in tilt.


Se poi, nonostante tutto, un libro tra le mani si prende, ma proprio non si riesce ad andare fino in fondo, non c’è gusto. Perché arrivare all’ultima pagina è d’obbligo. L’importante allora è seguire alcune indicazioni utili per gli elaborati, che la “Giovane Holden” ha già prontamente diffuso: saggi o racconti, poesie o ricette potranno contare un massimo di 32 pagine e dovranno essere inviati dagli scrittori alla casa editrice entro il 31 marzo 2009. La casa editrice pubblicherà, dopo un'accurata selezione dei testi più meritevoli, dai 10 ai 30 libri che verranno distribuiti in tutta Italia. I testi arriveranno gratuitamente anche nelle biblioteche, negli alberghi, negli stabilimenti balneari della Versilia e soprattutto nelle scuole. I volumi verranno messi in vendita a un prezzo che si aggirerà tra i 2,50 e i 4 euro.


È probabile che l’iniziativa, con la quale si spera di lanciare qualche giovane talento, verrà accolta con più entusiasmo da autori esordienti, piuttosto che da scrittori conosciuti, meno disposti a piegarsi per forza alla brevitas di cui Seneca e Tacito furono i maestri. Loro sì che sapevano sparare frasi brevi come un mitra. E se perdevano qualche parola di troppo per strada, non ne facevano un dramma.


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

giovedì 15 gennaio 2009

La miss finta alternativa

La signorina è schizzinosa, di quelle con la puzza sotto il naso. Raramente soddisfatta, seleziona le persone con cui scambiare quattro chiacchiere con molta cura. Ha i capelli rossi, lunghi fin sotto la schiena. L’espressione sarcastica e un sorrisetto beffardo. Critica il mondo, eccetto se stessa. Veste Liu Jo e a giorni alterni D&G. Non molla mai il tacco e quando cammina fa rumore.

Quasi mai entra nel merito, ma adora fermarsi sempre sulla soglia. Meglio non lasciarsi attraversare troppo da sensazioni che potrebbero mostrare la sua fragilità e soprattutto la sua vera indole capricciosa. Legge di continuo i giornali, sta sempre sulla notizia. E’ esterofila fino in fondo. Ascolta i Pink Floyd e gli Afterhours. Non ama la musica italiana, è troppo mediocre. E’ ricercata, preferisce non confondersi coi più, uscire sempre con le stesse persone, frequentare gli stessi posti.

E’ una “figlia di...” e lo sa benissimo. Critica il sistema, ma non si spoglia neppure per un attimo dei suoi privilegi. Propone modelli alternativi, senza crederci mai fino in fondo. Perché se fosse autentica, saprebbe benissimo come agire e che cosa fare. Si riempie la bocca di belle parole che raccoglie il vento. Sputa nel piatto dove mangia e s’infastidisce se qualcuno le rivolge insistenti attenzioni e premure. “Che vuole questo/a?”, pensa diffidente.

Le accadde anche col suo professore, uno per cui il cognome che porti ha un certo peso. Uno che, se sei dell’ambiente, ti dedica il suo tempo e ti regala la sua confidenza. Altrimenti non va al di là di qualche falso sorriso di circostanza. Uno che aveva deciso di corteggiarla e si era buttato a capofitto su di lei. “Andiamo a cena?” – “Sì, no, boh...”. La signorina non cede facilmente. Fa la preziosa e si fa cercare. E soprattutto, quando sta in compagnia, parla di tutto e di niente. Meglio non mettersi mai troppo a nudo.

E’ puritana, certe cose la scandalizzano. L’immoralità la fa indignare. “Oggi il presidente ha detto che vuole riscrivere la storia. E’ un’affermazione davvero inaccettabile”. Scandisce bene ogni parola e preferisce dialogare solo con chi riesce a dominare molto bene e le dà sempre ragione. Se le rompi il giocattolo si arrabbia. Si compiace della propria scrittura cervellotica e attorcigliata come una vite.

“Perché parli di lui così alle spalle?” – gli chiese un giorno la sua collega Magda. “Perché non mi piace, è davvero brutto. E poi non sa fare nemmeno il suo mestiere. Parliamoci chiaro, le cose stanno proprio così. Di lui non ho un briciolo di stima”. Magda non conosceva a fondo né la signorina né il suo professore. Non era ancora entrata nel loro mondo e certe confidenze le erano negate. Ma provò una strana sensazione. Si voltò, s’infilò il cappotto e si arrotolò la sciarpa intorno al collo. E mentre camminava, tra sé e sé pensò: “Strana la vita. Se quell’uomo avesse ascoltato anche una sola di queste parole, sarebbe stata una coltellata dritta nel petto”. Le dispiaceva. Ma non era affar suo. Per fortuna nel suo immaginario entrambi erano finalmente usciti di scena. Lei ora aveva altro a cui pensare...

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

mercoledì 14 gennaio 2009

In “Four Single Fathers”, tutte le “ansie da prestazione” maschili

Già è difficile essere padre. Una missione spesso infestata da scontri generazionali, dove non si sa mai dosare fino in fondo severità e permissivismo. Perché se frusti fai troppo male e se dispensi di continuo caramelle fai male lo stesso. Figuriamoci poi se tocca esserlo da single perché si è stati abbandonati, una relazione è finita male, la donna che si pensava quella della vita non si è poi rivelata la persona giusta.

Gabriele Muccino
lo racconta in una fiction, “Four Single Fathers” (la regia è di Paolo Monico), in onda il 15 gennaio in prima serata su Canale 5, che segna un ritorno, seppur momentaneo, sul piccolo schermo, dopo l’esordio alla regia in “Un posto al sole” e alcuni spot.

La storia è vista dalla parte degli uomini. E il tv movie appare l’ alter ego a testa in giù di “Sex and the City”, dove si raccontano aspirazioni e capricci delle signorine americane in carriera. Stessa ambientazione, ancora una volta negli States (le riprese sono state fatte a Boston e a New York). Ma stavolta si racconta il mondo maschile. Perché la sfiga è bisex, assale sia femmine che maschi. E allora ecco quattro newyorkesi di origini italiane, Jacopo, Dom, Ennio e Gorge legati tra loro dalla comune scuola dei figli, la prestigiosa International School, e dalle comuni sventure coniugali. Testimoni involontari dei rispettivi conflitti sentimentali e matrimoniali e della difficile gestione del rapporto con la prole, i quattro intrecciano un legame di solidale complicità in attesa che le loro mogli o ex mogli decidano di perdonarli per gli errori commessi.

Il genere è quello della romantic comedy, tanto cara al nuovo corso anti-ansiogeno di Giancarlo Scheri, direttore Fiction di Mediaset. Tra gli interpreti: gli stranieri Francesco Quinn, Lenny Venito, Joe Urla e l’italianissimo Alessandro Gassman, che racconta: «Il mio personaggio è Jacopo, uno sciupafemmine, il classico e incallito donnaiolo che però inesorabilmente capitola nel momento in cui si innamora veramente, trasformandosi in un vero e proprio uomo zerbino. Ma in fondo sarà un cambiamento in meglio perché cambierà stile di vita e abitudini».

E già, prima o poi tutto cambia. Non solo per Jacopo. L’importante è che i figli, una volta tagliato il cordone ombelicale, non si dimentichino troppo dei loro genitori.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su www.alessandrorosina.it. 

martedì 13 gennaio 2009

Grande Fratello 9, ovvero l'umana commedia dei tipi "socialmente utili"

Prima era affare di Menandro. Poi, il testimone passò nelle mani di Plauto. Le maschere della commedia antica ritornano in scena. Anzi, sul palcoscenico televisivo, quello fatto di luci bianche che ti accecano, di tempi stretti dalle pause pubblicitarie, di belle donne e di paillettes, di copioni da seguire, finti applausi e auditel.

E così è ripartito, tra critiche e dibattiti, il Grande Fratello, il reality di Canale 5 ormai giunto alla sua nona edizione. A condurlo, per la quarta volta ancora Alessia Marcuzzi. Nella casa più spiata, dove tutto è a portata di tutti e le carte sono scoperte, l’unico bluff che resta è la scommessa interiore con se stessi. Peccato che qui non si possa bluffare. Chi riuscirà tra i magnifici quindici a superare indenne i venti dell’odio, dell’invidia, le correnti avverse, la competizione più aspra? Chi riuscirà a tenere testa a una telecamera che ti segue implacabile ogni giorno, in ogni angolo, perfino il più recondito? Ma soprattutto chi riuscirà a non vendersi l’anima per il gioco dell’apparire e per far colpo a tutti i costi sul pubblico?

Sarebbe un prezzo troppo caro, questo. Eppure è il prezzo della celebrità, il pedaggio che si paga per entrare tra color che non si dimenticano e accaparrarsi, in un battito di ciglia e senza corsi di specializzazione o master di approfondimento, la patente per entrare nel dorato mondo dello show biz. Nella casa del Grande Fratello, come in qualsiasi reality, la quotidianità si fa teatro, la realtà diventa finzione, strategia, spettacolo.

Quest’anno si punta sui tipi “socialmente utili” dell’umana commedia, un tempo menandrea e plautina. La punta d’eccellenza spetta a Ferdi, rom montenegrino di 21 anni, sbarcato in Italia da nove anni con un gommone, oggi cuoco a Pesaro. Una storia di stretta attualità, di sana immigrazione, cominciata male e finita bene. Va di scena anche la disabilità. E già si annuncia nella prossima puntata l'ingresso del ragazzo cieco Gerri, 31 anni, che lavora all'aeroporto di Fiumicino. C’è perfino il maggiordomo di casa Savoia. Si chiama Fabrizio e ha 31 anni. E poi Daniela, 35 anni di Roma, la “pasionaria” diventata nota per aver sventolato un cappio durante le proteste di Alitalia e Cristina, 21 anni e una sesta misura di reggiseno.

Ma il Grande Fratello non è solo questo. È soprattutto un meccanismo perverso. Tutti lì, impegnati a raccontare qualcosa di interessante, a impacchettare un’immagine buona per essere commentata, a inventarsele tutte pur di entrare nell’immaginario collettivo e magari, perché no, pretendere di passare pure alla storia. L’equazione è più o meno questa: quanto più t’inventi qualcosa di sensazionale, tanto più il pubblico ti vota e tu resti nella casa.

Un meccanismo perverso. Ma alla perversione non c'è mai fine. E nessuno sarà mai disposto a mollare, a tapparsi le orecchie, a non spiare e poi criticare. Ormai la partita si sta giocando: tentare di scoprire tutto di tutti. Senza accorgersi che in realtà si finisce per scoprire solo quello che l’altro di volta in volta decide con cura che noi scopriamo.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su www.alessandrorosina.it.

domenica 11 gennaio 2009

Il sapore pallido di un amore anorgasmico

Da quando è successo, niente tra noi è stato più come prima. E ora non mi è rimasto altro che il desiderio inappagato di lui che ormai non oso più chiamare neppure per nome. Lui che mi ha lasciato l’amaro in bocca, riempiendo di lacrime le mie lunghe notti insonni con la faccia sul cuscino e lo sguardo perso nel vuoto. Lo sapevo da qualche mese, me l’aveva rivelato il suo più caro amico. “Mirko sta con un tipo”. Innamorato perso di uno che nessuno aveva mai visto in faccia. Un rapporto turbolento, fatto di tira e molla continui.
Ultimamente, quando c’incontravamo anche con gli altri alle solite riunioni organizzative del gruppo in vista delle elezioni, le sue isterie turbavano sempre più spesso i lineamenti soffici e delicati del suo volto femmineo. E sapevamo che era tutta colpa di quel tipo misterioso.
Mirko non era molto alto, era magro, senza un filo di pancia. I capelli castani gli scendevano appena sotto le orecchie. Gli occhi piccoli e celesti non stavano mai fermi. Le occhiaie nell’ultimo periodo si erano fatte più profonde. Dormiva un paio d’ore a notte. Mirko aveva il pallino della politica. O meglio, della carriera politica. E rincorreva disperatamente un seggio per le Europee. Ma stavolta l’accordo c’era e il seggio era sicuro.

Quando la sera uscivamo tutti insieme, al termine di quelle interminabili riunioni, si allontanava di continuo dal gruppo per parlare al telefono. Ma non solo di accordi, di seggi e di strategie per le campagne elettorali. Ogni telefonata durava anche più di mezz’ora. Poi tornava tra noi, ma faceva in modo che nessuno gli chiedesse mai niente. Quello spazio segreto era suo e basta.
Io nell’attesa restavo con gli altri, ma la mente era lì con lui. Avrei pagato oro per ascoltare che cosa diceva al telefono. Dal primo istante che lo vidi, percepii in lui qualcosa di strano, di diverso. La sua sensibilità, la sua dolcezza non erano comuni. Riusciva a leggermi negli occhi prima ancora che pronunciassi una parola. Quelle poche volte che in qualche modo lo facevamo, a modo nostro, certo, ma quasi lo facevamo, mi baciava con discrezione, come a non voler mai invadere il mio corpo e la mia persona. In un certo senso facevamo l’amore. E lo facevamo per ore, senza mai stancarci. Poi mi stringeva la testa tra le sue mani così forte da farmi male. Ho sempre pensato che fosse il suo modo per scaricare una certa rabbia che aveva con se stesso. Ma un attimo dopo erano baci e carezze dappertutto. E a lungo.
“Non guardarmi così”, mi diceva. Non reggeva i miei occhi incollati ai suoi. Lo infastidivano parecchio. Ormai nel nostro gruppo di amici lo sapevano tutti. Io ero innamorata persa di lui. E lui ogni tanto mi dava il contentino, ma amava l’altro. Quel tipo che nessuno di noi aveva mai visto.
Perché io e lui ci avvicinassimo, seppur con una certa approssimazione, al concetto tradizionale di coppia, c’era qualcos’altro da dire, da capire bene a fondo. Come quando quella volta mi chiamò al telefono nel cuore della notte con una certa insistenza. Voleva che lo raggiungessi. Io invece non volevo. Ormai sapevo tutto, o quanto meno ciò che bisognava sapere. Lui non sarebbe mai stato mio. Ma era dell’altro. Perché tra me e l’altro, aveva già scelto da un pezzo.
Eppure aggrottai le sopracciglia e cominciai ad agitarmi. Il cuore mi rimbalzava nel petto. Sentivo un gran caldo. “Vieni, stanotte ti voglio”. “Dai… Smettila con questa storia. Sei patetico. Che cosa vuoi da me? Lasciami in pace!”, risposi con la voce roca. Eppure lo volevo anch’io, quell’incontro. Saltai giù dal letto e lo raggiunsi quasi subito. Era da poco passata l’una di notte e le strade in città erano semideserte. Il motore della macchina parcheggiata sotto casa era così freddo che impiegò un po’ ad accendersi. Un sottile strato di ghiaccio rivestiva le vie del centro e bisognava frenare piano, per evitare di sbandare con l’auto. Bussai alla sua porta con desiderio misto a gioia. Ma in fondo era solo masochismo. Puro masochismo.

In quella stanza si respirava fumo di sigaretta misto a odore di cannella. Niente era in ordine. Le tende ingiallite dalla polvere, il telefono bianco del comodino spostato sulla scrivania, fogli di giornale sparsi qua e là per terra, e sul comodino un posacenere stracolmo di cicche.
Lui cominciò a spogliarmi con violenza. Non mi lasciò neppure il tempo di accorgermi che sul letto c’era un ragazzo biondo, con gli occhi verdi. Sguardo malizioso, strafottente. Spalle larghe, ventre scolpito, aria sicura di sé. Qualche istante dopo, capii che l’altro era lui, e ora finalmente mi stava davanti. Il suo amore di sempre era lì, accanto a me. Era completamente nudo e mi guardava. O meglio, guardava lui e me che ci rotolavamo sul letto. A un certo punto, mirko voltò la testa verso di lui e con un rapido cenno del capo lo invitò ad avvicinarsi. “Che fai, Mirko? Dai, smettila”, sussurrai a stento. In realtà speravo ancora con tutta me stessa che l'altro se ne andasse e mi lasciasse da sola con lui.

E invece mi ritrovai con tutti e due che mi accarezzavano dovunque e contemporaneamente, come se stessero eseguendo una sinfonia di Beethoven a quattro mani sul mio corpo, che era la loro tastiera. E io, con gli occhi socchiusi, non riuscivo a svincolarmi da loro. Il ritmo di quelle carezze si faceva sempre più incalzante e io non avevo più un solo indumento addosso. Finché lui mi chiese di donarmi a entrambi. Era l’unico modo per godere tutti insieme. Ricordo solo che mi alzai di scatto, come se mi avesse attraversato una scossa elettrica. M’infilai pantaloni e felpa e corsi verso la porta, che chiusi dietro di me con forza. Come a voler chiudere per sempre quel capitolo doloroso e oscuro della mia vita. Come a voler rimuovere per il resto dei miei giorni quell’ amore anorgasmico, quella brutta storia. E lasciarmela una volta per tutte alle spalle. Ma una domanda continuò a violentarmi la testa per un bel po’ di tempo. Si può amare a tal punto da accettare che lui ti tradisca con un altro?

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 10 gennaio 2009

Quel messaggio nella bottiglia, che arriva dal mare...

Nella vita c’è chi parte e c’è chi resta. Chi sceglie di non vivere neppure una vita e chi invece decide di provare a viverne tante. Chi, come Paola (Egle Doria), si rinchiude in casa per fare compagnia all’anziana madre nel buono e nel cattivo tempo. E chi invece, come la sorella Alice (Giovanna Criscuolo), fugge via dalla propria famiglia per liberarsi da una gabbia che le impedisce di emanciparsi e di provare a realizzare i propri sogni.

“La fotografia” di Totò Calì è anzitutto il dramma della famiglia calato nella contemporaneità della sua profonda crisi. Sulla scia del filone drammaturgico statunitense che va da Eugene O’ Neill e Lars Norén a Sam Shepard, e di quel conflitto spiegato da Dennis Welland in termini di lotta tra due forze antagoniste all’interno della cellula domestica: quella centripeta e quella centrifuga, con la sua tendenza all’evasione e alla disgregazione dei legami familiari (lo storico John Demos designò la moderna famiglia mononucleare come “hothouse family”, ovvero famiglia-serra, a denunciarne la natura asfissiante).

Lo spazio scenico in cui si muovono i personaggi esprime - più che con giochi scenografici, esclusivamente con la forza della parola - la profonda lacerazione del focolare domestico, ora non più porto sicuro in cui rifugiarsi quando il mondo intorno vuole troppo o altro, ma quasi una trappola attraversata da feroci tensioni, ipocrisie di fondo da cui volersi liberare con forza (emblematico il dialogo intenso e drammatico in cui Alice non può non ricordare a Paola, che invece si ostina a non vedere la realtà e a conservare una sua idea di famiglia lieta e candida, la vicenda dello zio Gaspare che consumava ogni notte la sua relazione segreta con la zia). Ed è proprio Paola, col vestito della madre addosso, che corre ad attaccare ai rami dell’albero genealogico, che la sua coscienza ha dipinto su una tela, le foto ingiallite dei parenti. In attesa dell’ultima foto, desiderio espresso dalla madre sul suo diario prima di morire. L’ultima foto con tutti i parenti insieme. Uno scatto che non c’è e non ci sarà.

Dalla riflessione sulla famiglia, a metà spettacolo, se ne snoda un’altra di carattere sociale: un convincente Massimo Leggio, insieme al suo pupazzo Franco Bellia, fa notare al pubblico del Teatro Tezzano come i potenti di oggi, sempre più buffoni e ciarlatani, abbiano rubato il mestiere ai veri professionisti della satira di costume, voce del popolo.

Mentre l’orchestra di sei elementi, in un angolo del palco, suona e canta in dialetto siciliano l’amore che, se è troppo, soffoca e distrugge, nel video proiettato sullo sfondo scorrono le immagini di corpi seminudi e senza forze, che cercano invano di staccarsi dagli scogli del mare, dalle proprie radici. Alice, vestita di bianco, alla fine si ritrova sola come Paola e ritorna anche lei al punto di partenza, di nuovo su quella spiaggia dove aveva trovato la foto come un messaggio nella bottiglia. Non si può fuggire da se stessi e dai propri ricordi. Eppure lancia nel mare la sua bottiglia. Perché anche le illusioni hanno una strada da percorrere.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 10/01/2009

venerdì 9 gennaio 2009

Nicola Costa: "Interpretare Beethoven? Un rapimento esistenziale"

Ci vorrebbe Beethoven a risollevare le sorti di una scena artistica fiacca e sempre più affollata di “senza talento”. Ma per fortuna c’è stato. E con la sua musica ha segnato un’epoca.
Nicola Costa, attore-regista e drammaturgo catanese che ha già conseguito importanti riconoscimenti come il Premio letterario europeo per la nuova drammaturgica nel 2002 a Piediluco (Terni) con “Elgema” e nel 2003 a Venezia il Premio nazionale “I Fiumi” con “La Porta”, ha deciso di far rivivere a teatro il grande genio tedesco.

Dopo il successo di critica e pubblico riportato dalla precedente messa in scena al Teatro Nazionale di Budrio (Bologna), con sette minuti di applausi, Costa approda ora al Teatro del Tre diretto da Gaetano Lembo, dove il 9 gennaio alle 21 (con replica sabato 10 alla stessa ora e domenica 11 alle 18) debutterà con Dear Ludwig, ovvero “sogni, passioni, amori e frustrazioni di L. Van Beethoven”, una ricostruzione storica intensa della vita del compositore di Bonn che, insieme ad Haydn e Mozart, è considerato il padre del classicismo musicale viennese.
Lo spettacolo, costruito come un puzzle, con oltre due anni di studio e di ricerca, sarà accompagnato da alcune tra le più celebri sonate per pianoforte: Al chiaro di Luna, Patetica e Appassionata.

Si racconta Beethoven nella sua dimensione più intimistica e privata, e quindi meno conosciuta. Quella dei suoi rapporti contraddittori coi familiari, con Dio, con la malattia che lo rese sordo a soli trentuno anni. Ma si racconta anche l’emblematica contestazione rivolta a Napoleone quando questi si autoproclamò imperatore, la stima palesemente espressa nei confronti di Mozart e Goethe, sino al testamento di Heiligenstadt del 1802 fedelmente riportato senza alcuna riduzione del testo.

Ad affiancare Nicola, in scena nei panni di Ludwig, gli allievi dell’Accademia di recitazione del Teatro del Tre di Catania diretta da Gaetano Lembo (Daniele Sapio nel ruolo dell’amico Wegeler, Melania Puglisi in quello dell’amata Teresa, Dario Cocciante nella veste del fratello Johann, Simona Manuli, Gianmarco Arcadipane, Anna Patanè, Ornella Falsaperla e Brunella Manuli).

“Vado a letto alle due del mattino e mi risveglio alle due e cinquanta, pensando che siano trascorse già sei ore. Bethoven ti fa questo effetto, è un rapimento esistenziale”.

Che cosa interessa oggi al pubblico di Beethoven?

“Credo tutta la sua vita, vissuta come un’opera d’arte, che ho scoperto grazie a Dario Forturello, che mi ha invogliato a sfogliare le pagine del suo diario personale scritto centocinquant’anni fa. Mentre lo sfogliavo, la carta mi si spezzava tra le mani. Nessun drammaturgo, neppure il più fantasioso, avrebbe potuto creare con le sue mani un palcoscenico così variegato”.

Che rapporto aveva Beethoven col mondo?

“Un rapporto piuttosto scorbutico, direi. Nel suo testamento scritto venticinque anni prima della sua morte, scrive “O uomini che mi giudicate caparbio, astioso e misantropo, voi mi fate torto perché non conoscete la causa segreta di ciò che vi sembra rancore e odio verso di voi. Naturalmente, si riferiva alla sordità, che lo rendeva parecchio irascibile”.

Prima d’ora conosceva bene il compositore tedesco oppure ne aveva soltanto sentito parlare?

“Beethoven lo conoscevo, sì, ma scolasticamente. La sa una cosa? Nelle conferenze in giro per le scuole, ho scoperto una cosa tristissima: purtroppo c’è ancora gente che non sa chi sia Beethoven e questo la dice lunga sulla condizione artistica e culturale che abbiamo oggi in Italia”.

Nel vestire i panni del genio di Bonn non le è pesato il confronto?

“Il confronto terrorizza. E credo che faccia questo effetto a qualsiasi attore, per quanto bravo possa essere. Ma io gli sono molto grato. E credo che anche lui sia grato a me per avergli restituito qualche attimo di vitalità in un secolo che è disposto a dimenticare tutto”.

Elena Orlando (elyotl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 9/01/2009

giovedì 8 gennaio 2009

Genova accoglierà il Toro forte e superba

Via del Campo dove l’aria è spessa e carica di sale, quella dei tipi strani, delle mille razze, delle mille comari e della povertà […]” .
E’ solo un frammento di Genova nell’anima, nelle canzoni e tra le corde della chitarra di Fabrizio De André, che ne ha cantato l’incarnato pallido e quello più roseo, la profondità e la frivolezza, le contraddizioni della società del benessere e del boom economico anni ‘60, l’anarchia, l’etica, le donne e l’amore. E poi gli emarginati, i vinti, gli scrittori e gli chansonniers, la libertà e perfino la superbia.

E’ a Genova che il Torino giocherà sabato contro la squadra della città. Nella Genova dove si passeggia per gli intricati vicoli, lungo gli ombrosi caroggi, attraverso le piazze racchiuse tra le mura che all’improvviso esplodono verso la solenne cortina di antichi palazzi.

Genova ti accoglie con la voce rotta di chi ha un filo di emozione in gola. Come una bella ragazza negli occhi e nel cuore. Le sue stradine si snodano come i rivoli di un ruscello e conducono per mano verso le piazzette che sbocciano come fiori, incorniciate dai gioielli dell’architettura medievale e rinascimentale, che convivono con la modernità delle costruzioni più recenti.

L’aria di Genova è salata, ha il sapore del mare. Ti attraversa i polmoni e ti entra nella pelle. Proprio in via del Campo, magico scrigno dei dialetti, chiusa tra la medievale Porta dei Vacca e piazza Fossatello, si avverte il chiacchiericcio indistinto della gente che la popola. Mentre alle spalle si snoda la zona dei vicoli angusti e privi di luce come via Prè.

Lungo via del Campo, che nel 1660 fu sede del primo ghetto ebraico genovese, si distingue il Palazzo della famiglia Piccamiglio e al numero 3 l’edicola a colonnine di marmo con una Madonna del XIV secolo e il davanzale in ferro battuto del XVII secolo.

Genova è passato e presente insieme: portali, affreschi, timpani, edicole e fregi da un lato; locali, pub, ristoranti e gallerie d’arte pronte a corteggiare in modo schietto e diretto il popolo della notte che sceglie il centro storico, dall’altro.

Anche questa è Zena, scattante e disinvolta come un acrobata di lungo corso, parte del triangolo industriale, capitale europea della cultura nel 2004, col suo incantevole acquario che ha chiuso il 2008 con circa 1.215.000 visitatori.

Anche questo è il capoluogo ligure, oggi importante centro turistico, scientifico e universitario, col porto che è tornato competitivo rispetto a quello francese di Marsiglia-Fos per il primato del trasporto mercantile nel mediterraneo.

Imbiancata dalla neve oppure no, Genova accoglierà il Toro a testa alta, coraggiosa, forte e superba. Come quando, recita un’iscrizione medievale sull’antica Porta Soprana, “scaccia lontano col suo valore i dardi nemici”. Di oggi, di ieri, di sempre.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su www.alessandrorosina.it

martedì 6 gennaio 2009

"E' triste sentirsi soli nella nostra casa, nel nostro mondo..."


Tutto comincia da una fotografia. L’ultimo desiderio espresso da un’anziana madre di ottant’anni su una delle pagine del suo diario prima di morire è fare una foto con tutti i parenti, che riunisca tutta la famiglia. Peccato però che quell’allegra e unita famiglia ormai non esista più. E forse in realtà non è mai esistita.

Dal 6 al 10 gennaio, al Teatro Tezzano è di scena “La fotografia”, l’ultimo lavoro teatrale di Totò Calì, da lui scritto e diretto, per il quale ha curato anche le musiche. Lo spettacolo si arricchisce di video e una colonna sonora suonata dal vivo.

E’ la storia di due sorelle, Alice (Giovanna Criscuolo) e Paola (Egle Doria). L’una fugge via da giovane, l’altra rinuncia a tutta la sua vita per restare accanto alla madre. Due percorsi opposti, che però approdano alla stessa meta: entrambe si ritrovano sole.

Pier Paolo Pasolini diceva che “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”.
“La solitudine è qualcosa che ti porti dentro, come testimonia questa storia, indipendentemente dal fatto che ti trovi a vivere mille esperienze oppure rimani a casa. E’ qualcosa che si può vivere serenamente oppure, se ci si sente rifiutati da una certa società, in modo drammatico. Tutto dipende da come si è stati abituati a viverla”.

Lei che rapporto ha con la solitudine?
“La vivo con una certa rilassatezza, nel senso che è un momento in cui ti confronti con te stesso e ti chiedi molte cose. Ma lo spettacolo. Oltre alla solitudine, parla anche dell’amore e di come a volte, quando ce n’è troppo, possa diventare addirittura terrificante”.

Il mare è sempre presente nella storia, attraverso il meccanismo del flashback. Alice confida al mare le sue angosce e dal mare si attende delle risposte, magari attraverso la suggestiva forma del messaggio nella bottiglia…
“Il mare è il luogo in cui si lanciano e si raccolgono i messaggi. Non a caso, alla fine, Alice lancia le sue bottiglie in acqua, perché le illusioni non debbono mai morire”.

Viviamo invece in tempi tutt’altro che illusori, ma molto prosaici, di totale disincanto. Come scandisce Alice in scena, tempi in cui molti guardano il mondo, però pochi sono davvero capaci di osservarlo.
“Direi che viviamo in tempi in cui, come sottolinea marcatamente la maschera interpretata da Massimo Leggio, insieme al pupazzo del ventriloquo Franco Bellia, tutti sono buffoni e ciarlatani e, di conseguenza, chi lo è per mestiere, si sente paradossalmente rubare la scena”.

Con le sue vignette lei si diverte a fotografare il mondo politico in forma di satira, esasperando gli aspetti più paradossali della realtà. Per le sue opere teatrali invece da chi trae ispirazione?
“Non seguo nessun modello in particolare. Traggo sempre spunto da me stesso e da tutto ciò che mi circonda. E’ un momento di crisi. Economica, sì, ma soprattutto dei sentimenti. E’ questa la crisi che mi soffermo a raccontare nello spettacolo”.

E’ cambiato il modo di vivere i sentimenti?
“Assolutamente sì. Siamo cambiati noi. La società liquida in cui viviamo impone di vivere in modo diverso. I rapporti si creano e si sfaldano con estrema facilità. Tutto scorre via veloce e dietro di sé non lascia traccia. Siamo nell’era del mordi e fuggi”.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 6/01/2009

domenica 4 gennaio 2009

Il gioco solitario di un destino assassino

Giocava col muro della terrazza di casa. A palla assassina, tutti i pomeriggi, dalle due alle sette. Cinque ore di gioco intenso e ininterrotto col muro, suo inseparabile compagno. Ci parlava, lo insultava, poi ci faceva la pace. E s’inventava perfino le sue risposte, manco fosse un compagno di giochi in carne e ossa. Tuta grigia e ai piedi due peluche di labrador per pantofole. Antonio aveva da poco compiuto otto anni. “La mamma, che fine ha fatto?”, chiese Manuela, appena arrivata da Milano, dove si era trasferita da un anno per frequentare un corso di specializzazione in marketing. L’aria pungeva sulla pelle come un ago. Le dita delle mani affusolate erano quasi viola. Le guance avevano assunto una tonalità rosa pallido. “Allora, Antonio, rispondi o no?”, ripetè per la seconda volta Manuela, con un filo di irritazione nella voce.

“Oh, ma che vuoi? Non vedi che sto giocando? Uffa, uffa”, rispose Antonio, con un lieve imbarazzo di solito estraneo a un bambino della sua età. “La mamma? Piange tuttii giorni”, rispose a un tratto, mentre scagliava contro il muro la piccola palla di gomma gialla con tutta la forza che possedeva nelle sue piccole e fragili braccia.

“Ma che fai? Parli da solo?”, disse Manuela, cercando di assecondarlo per farsi raccontare come mai la madre piangesse tutti i santi giorni. “Certo che ci parlo, lui è il mio migliore amico”. “Ma dai, non puoi mica parlargli come fosse una persona?”, fece notare Manuela mentre il vento le accarezzava i lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle. Aveva voglia di abbracciarlo e di mollargli un bacio sulla guancia sinistra. “Sì, sì, lo vuoi capire o no? Lui è il mio migliore amico”, continuava a ripetere Antonio, tra un salto e l’altro. Sembrava un grillo.

Manuela provò un grande senso di tenerezza, che le salì fin su alla bocca dello stomaco. Antonio viveva in quella casa accanto alla sua da quand’era nato. L’aveva cresciuto la nonna Rita , una signora di settant’anni, che tanto aveva sofferto nella vita. Era stata lasciata dal marito quando i tre figli erano piccoli. E aveva lavorato giorno e notte per poterli campare. Aveva visto morire una figlia di cancro al seno e oltre ai figli le era toccato allevare anche i nipoti. Tutti prima o poi finivano in quella casa, ricettacolo delle anime afflitte, di chi aveva subito almeno un grave torto, di chi per circostanze varie e azzardate si era ritrovato con le pezze nel sedere.

Come Enrica, la madre di Antonio, ultima nipote di nonna Rita, lasciata dal marito per un’altra e ora caduta in depressione. “E papà?”, azzardò Manuela. “Viene a prendermi un giorno sì e uno no. Mi porta col motorino a casa sua. Mi ha fatto conoscere anche l’altra tipa con cui sta ora”, prese a raccontare Antonio, tra un lancio e l’altro della palla contro il muro.

Nessun amico nelle vicinanze, nessun parco giochi col verde dove potersi allenare e sprigionare tutta la sua fantasia a contatto con la natura. Solo quella stretta e lunga terrazza di cemento grigio e mattonelle marroni. Uno spazio di appena trenta metri quadrati in cui muoversi. “La nonna non mi fa uscire. Si spaventa!”, disse con una smorfia.

“Ma senti un po’, e tua sorella Michela che fa di bello?”, chiese Manuela, con gli occhi incollati alla palla, che ne seguivano con fedeltà assoluta ogni singolo movimento di rimbalzo. “Boh, chi la vede? E’ partita per un posto lontano”. A questa risposta di Antonio, Manuela decise di bussare alla porta e salutare la nonna del bambino.

“Come va? Tutto bene?”, chiese con tono preoccupato, come se stesse avvicinandosi al fuoco. “Macché, tutto male, tesoro mio. Tu invece come stai lassù? Tutto bene? Qui non cambia niente. Anzi, tutto peggiora. Enrica è depressa, i soldi non bastano più, Antonio me lo cresco da sola”, disse la signora Rita, vestita di nero come a lutto. “E Michela?”, si affrettò a chiedere Manuela, che nel frattempo era entrata in cucina.

Un profumo di mandarini rinfrescava l’atmosfera di quella casa, dove si avvertiva un insopportabile senso di vuoto e di rassegnazione. Al centro del tavolo quadrato di legno di faggio marrone scuro c’era un piatto di ceramica decorato con frutta di stagione. Di fronte, sulla parete color crema un paio di crepe si erano allargate e l’intonaco si era staccato dal muro, lasciando intravedere una macchia di muffa che sembrava volersi estendere amacchia d’olio e invadere tutta la stanza.

“Lo vuoi sapere dov’è finita Michela, amore mio? In galera. L’hanno presa un mese fa. Spacciava marijuana. Si era fissata. Voleva soldi che io non potevo darle per andare a Roma, fare qualche provino per la televisione. Una pazza, una pazza senza un briciolo di razionalità. Irresponsabile fino al collo. Povera lei. E ora chi ci va a trovarla? Per me può marcire lì, dietro le sbarre. Io non ce la faccio più”. Le ultime parole della signora Rita, come filtrate da un amplificatore, risuonarono nella testa di Manuela che le prese subito la mano tra le sue e gliela strinse forte. “Le voglio bene, davvero”, le disse trattenendo il fiato. Le campane suonarono, erano le sei del pomeriggio. Di un freddo pomeriggio d'inverno. Un chiacchiericcio indistinto arrivava dalla strada. Ci si preparava alla passeggiata serale.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

sabato 3 gennaio 2009

Uto Ughi stona su Giovanni Allevi. E suona strano

I denigratori ci sono sempre. E prima o poi devi farci i conti. Gente schizzinosa, a cui non va mai bene niente, ipercritica su qualsiasi cosa e su chiunque, sempre pronta a trovare in ogni circostanza il pelo nell’uovo, a minare la personalità altrui, a scaricare sugli altri i propri complessi. Se hai qualche qualità, chi appartiene a questa categoria cerca di minimizzare, di far finta di niente. E, nei peggiori casi, appunto di denigrarti.

Non è il caso di Uto Ughi, probabilmente uno dei massimi violinisti italiani, con una solida carriera alle spalle e un’esperienza musicale di tutto rispetto. Però viene da chiedersi: non sarà un attacco oltre misura quello che Ughi ha riservato a Giovanni Allevi - che dischi ne vende parecchi, sta sempre in classifica e a ogni concerto registra il tutto esaurito - quando dice che il suo concerto natalizio promosso dal Senato non lo ha soddisfatto e che Allevi è “un nano non solo in confronto a Horowitz e a Rubinstein, ma anche rispetto a Mina e Modugno?

L’anno scorso mi capitò di intervistare Giovanni Allevi per il quotidiano “La Sicilia”. Era venuto a Catania per incontrare gli allievi del conservatorio musicale “Vincenzo Bellini”. Ricordo che mi colpì subito la sua straordinaria e generosa voglia di comunicare. E di farlo “alla pari”, senza (s)manie di grandezza né narcisismi insopportabili. Non faceva altro che ripetere: “Dovete tirare fuori ciò che avete dentro attraverso la musica e non aver paura di quello che vi dicono gli altri”. E lo faceva con una semplicità vera e autentica, come se fosse uno di loro.

Ho sempre considerato il coraggio una delle doti più grandi di chi si affaccia al pubblico. E Giovanni Allevi coi suoi riccioli scomposti di coraggio ne ha da vendere. Perché ha saputo reinterpretare la musica classica in chiave contemporanea, facendole parlare il linguaggio dei nostri tempi. Ed è andato avanti anche quando qualche insegnante (l’ennesima testa di rapa miope e imbalsamata come le mummie dell'antico Egitto) al conservatorio di Milano lo ha scoraggiato in tutti i modi. Anche quando i classicisti duri e puri lo hanno snobbato. Come si usa fare in Italia di fronte a chi mostra di avere qualità e carattere, nonché l’intelligenza per poter turbare certi equilibri subdoli e precari.

E' possibile che si ragioni sempre per categorie, per compartimenti-stagni, per il mantenimento dello status quo, per nascondere la polvere sotto il tappeto, e si fugge a gambe levate da ogni forma di reale sperimentazione perché si ha paura di rischiare e di mettersi in gioco e si storce il naso alle gradevoli contaminazioni e innovazioni che ci vengono proposte? Del resto, stessa sorte era toccata a Luciano Pavarotti e al suo "Pavarotti & friends", un raffinato e audace mix di musica classica e pop che riscontrava un buon successo di pubblico. E ad Andrea Bocelli, buono per cantare pop ma non un certo tipo di lirica. E poi ci lamentiamo se a popolare i teatri d'opera sono soltanto gli over settanta...

Allevi è un grande e lo dimostra ogni volta che compone e si esibisce al pianoforte. E suona strano che un altro grande come Ughi cavalchi la tigre malata della denigrazione pubblica e gratuita. Suona talmente strano da far avvertire nella melodia una brutta stonatura.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)