domenica 4 gennaio 2009

Il gioco solitario di un destino assassino

Giocava col muro della terrazza di casa. A palla assassina, tutti i pomeriggi, dalle due alle sette. Cinque ore di gioco intenso e ininterrotto col muro, suo inseparabile compagno. Ci parlava, lo insultava, poi ci faceva la pace. E s’inventava perfino le sue risposte, manco fosse un compagno di giochi in carne e ossa. Tuta grigia e ai piedi due peluche di labrador per pantofole. Antonio aveva da poco compiuto otto anni. “La mamma, che fine ha fatto?”, chiese Manuela, appena arrivata da Milano, dove si era trasferita da un anno per frequentare un corso di specializzazione in marketing. L’aria pungeva sulla pelle come un ago. Le dita delle mani affusolate erano quasi viola. Le guance avevano assunto una tonalità rosa pallido. “Allora, Antonio, rispondi o no?”, ripetè per la seconda volta Manuela, con un filo di irritazione nella voce.

“Oh, ma che vuoi? Non vedi che sto giocando? Uffa, uffa”, rispose Antonio, con un lieve imbarazzo di solito estraneo a un bambino della sua età. “La mamma? Piange tuttii giorni”, rispose a un tratto, mentre scagliava contro il muro la piccola palla di gomma gialla con tutta la forza che possedeva nelle sue piccole e fragili braccia.

“Ma che fai? Parli da solo?”, disse Manuela, cercando di assecondarlo per farsi raccontare come mai la madre piangesse tutti i santi giorni. “Certo che ci parlo, lui è il mio migliore amico”. “Ma dai, non puoi mica parlargli come fosse una persona?”, fece notare Manuela mentre il vento le accarezzava i lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle. Aveva voglia di abbracciarlo e di mollargli un bacio sulla guancia sinistra. “Sì, sì, lo vuoi capire o no? Lui è il mio migliore amico”, continuava a ripetere Antonio, tra un salto e l’altro. Sembrava un grillo.

Manuela provò un grande senso di tenerezza, che le salì fin su alla bocca dello stomaco. Antonio viveva in quella casa accanto alla sua da quand’era nato. L’aveva cresciuto la nonna Rita , una signora di settant’anni, che tanto aveva sofferto nella vita. Era stata lasciata dal marito quando i tre figli erano piccoli. E aveva lavorato giorno e notte per poterli campare. Aveva visto morire una figlia di cancro al seno e oltre ai figli le era toccato allevare anche i nipoti. Tutti prima o poi finivano in quella casa, ricettacolo delle anime afflitte, di chi aveva subito almeno un grave torto, di chi per circostanze varie e azzardate si era ritrovato con le pezze nel sedere.

Come Enrica, la madre di Antonio, ultima nipote di nonna Rita, lasciata dal marito per un’altra e ora caduta in depressione. “E papà?”, azzardò Manuela. “Viene a prendermi un giorno sì e uno no. Mi porta col motorino a casa sua. Mi ha fatto conoscere anche l’altra tipa con cui sta ora”, prese a raccontare Antonio, tra un lancio e l’altro della palla contro il muro.

Nessun amico nelle vicinanze, nessun parco giochi col verde dove potersi allenare e sprigionare tutta la sua fantasia a contatto con la natura. Solo quella stretta e lunga terrazza di cemento grigio e mattonelle marroni. Uno spazio di appena trenta metri quadrati in cui muoversi. “La nonna non mi fa uscire. Si spaventa!”, disse con una smorfia.

“Ma senti un po’, e tua sorella Michela che fa di bello?”, chiese Manuela, con gli occhi incollati alla palla, che ne seguivano con fedeltà assoluta ogni singolo movimento di rimbalzo. “Boh, chi la vede? E’ partita per un posto lontano”. A questa risposta di Antonio, Manuela decise di bussare alla porta e salutare la nonna del bambino.

“Come va? Tutto bene?”, chiese con tono preoccupato, come se stesse avvicinandosi al fuoco. “Macché, tutto male, tesoro mio. Tu invece come stai lassù? Tutto bene? Qui non cambia niente. Anzi, tutto peggiora. Enrica è depressa, i soldi non bastano più, Antonio me lo cresco da sola”, disse la signora Rita, vestita di nero come a lutto. “E Michela?”, si affrettò a chiedere Manuela, che nel frattempo era entrata in cucina.

Un profumo di mandarini rinfrescava l’atmosfera di quella casa, dove si avvertiva un insopportabile senso di vuoto e di rassegnazione. Al centro del tavolo quadrato di legno di faggio marrone scuro c’era un piatto di ceramica decorato con frutta di stagione. Di fronte, sulla parete color crema un paio di crepe si erano allargate e l’intonaco si era staccato dal muro, lasciando intravedere una macchia di muffa che sembrava volersi estendere amacchia d’olio e invadere tutta la stanza.

“Lo vuoi sapere dov’è finita Michela, amore mio? In galera. L’hanno presa un mese fa. Spacciava marijuana. Si era fissata. Voleva soldi che io non potevo darle per andare a Roma, fare qualche provino per la televisione. Una pazza, una pazza senza un briciolo di razionalità. Irresponsabile fino al collo. Povera lei. E ora chi ci va a trovarla? Per me può marcire lì, dietro le sbarre. Io non ce la faccio più”. Le ultime parole della signora Rita, come filtrate da un amplificatore, risuonarono nella testa di Manuela che le prese subito la mano tra le sue e gliela strinse forte. “Le voglio bene, davvero”, le disse trattenendo il fiato. Le campane suonarono, erano le sei del pomeriggio. Di un freddo pomeriggio d'inverno. Un chiacchiericcio indistinto arrivava dalla strada. Ci si preparava alla passeggiata serale.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

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