“La fotografia” di Totò Calì è anzitutto il dramma della famiglia calato nella contemporaneità della sua profonda crisi. Sulla scia del filone drammaturgico statunitense che va da Eugene O’ Neill e Lars Norén a Sam Shepard, e di quel conflitto spiegato da Dennis Welland in termini di lotta tra due forze antagoniste all’interno della cellula domestica: quella centripeta e quella centrifuga, con la sua tendenza all’evasione e alla disgregazione dei legami familiari (lo storico John Demos designò la moderna famiglia mononucleare come “hothouse family”, ovvero famiglia-serra, a denunciarne la natura asfissiante).
Lo spazio scenico in cui si muovono i personaggi esprime - più che con giochi scenografici, esclusivamente con la forza della parola - la profonda lacerazione del focolare domestico, ora non più porto sicuro in cui rifugiarsi quando il mondo intorno vuole troppo o altro, ma quasi una trappola attraversata da feroci tensioni, ipocrisie di fondo da cui volersi liberare con forza (emblematico il dialogo intenso e drammatico in cui Alice non può non ricordare a Paola, che invece si ostina a non vedere la realtà e a conservare una sua idea di famiglia lieta e candida, la vicenda dello zio Gaspare che consumava ogni notte la sua relazione segreta con la zia). Ed è proprio Paola, col vestito della madre addosso, che corre ad attaccare ai rami dell’albero genealogico, che la sua coscienza ha dipinto su una tela, le foto ingiallite dei parenti. In attesa dell’ultima foto, desiderio espresso dalla madre sul suo diario prima di morire. L’ultima foto con tutti i parenti insieme. Uno scatto che non c’è e non ci sarà.
Dalla riflessione sulla famiglia, a metà spettacolo, se ne snoda un’altra di carattere sociale: un convincente Massimo Leggio, insieme al suo pupazzo Franco Bellia, fa notare al pubblico del Teatro Tezzano come i potenti di oggi, sempre più buffoni e ciarlatani, abbiano rubato il mestiere ai veri professionisti della satira di costume, voce del popolo.
Mentre l’orchestra di sei elementi, in un angolo del palco, suona e canta in dialetto siciliano l’amore che, se è troppo, soffoca e distrugge, nel video proiettato sullo sfondo scorrono le immagini di corpi seminudi e senza forze, che cercano invano di staccarsi dagli scogli del mare, dalle proprie radici. Alice, vestita di bianco, alla fine si ritrova sola come Paola e ritorna anche lei al punto di partenza, di nuovo su quella spiaggia dove aveva trovato la foto come un messaggio nella bottiglia. Non si può fuggire da se stessi e dai propri ricordi. Eppure lancia nel mare la sua bottiglia. Perché anche le illusioni hanno una strada da percorrere.
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su "La Sicilia" del 10/01/2009
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