lunedì 23 febbraio 2009

Chi c’è, c’è. Chi non c’è, non conta

Oltre al danno, anche la beffa. Nell’Italia del Pd in frantumi e di Berlusconi monarca assoluto, di una destra elegantemente incravattata nei Palazzi del potere e di una sinistra scossa nel profondo e sempre più sull’orlo di una crisi di nervi, sembra quasi superfluo nonché appunto beffardo riesumare il cadavere, all’apparenza consunto, dei brillanti versi de “La libertà” di Giorgio Gaber, leitmotiv dell’intera filosofia del grande cantautore milanese. Si può ancora parlare di partecipazione in un Paese come il nostro in cui si assiste, un giorno sì e l’altro pure, ad una delegittimazione continua degli strumenti democratici come il confronto parlamentare, la funzione delle opposizioni, la divisione dei poteri con la costante delegittimazione di giudici e magistrati, l’uguaglianza di tutti davanti alla legge (principio che il Lodo Alfano sta fortemente intaccando), la libera stampa (tagli all’editoria), l’azzeramento dell’espressione del dissenso, il “sondaggismo” sfrenato che sostituisce le opinioni, la manipolazione dei significati, lo sciacallaggio delle paure della gente?

Certo, volare alto è pensare in grande. E bisogna non rinunciare mai a farlo, anche nei momenti di maggior crisi come quelli che stiamo attraversando in questo momento. In cui si fatica a credere nella politica nel senso etimologico della parola, in cui l’interesse comune all’interno della polis sembra essere stato gettato alle ortiche e venduto a poco prezzo in cambio di una politica sempre più affaristica che bada all’interesse di alcuni. Dalla partitocrazia al potere delle lobby, dalla tutela del bene comune alla salvaguardia degli interessi di pochi, ovvero delle oligarchie che oggi gestiscono il potere vero, quello economico e finanziario.
In questo contesto, l’apparente stonatura delle note de “La libertà” di Giorgio Gaber ritorna con sana prepotenza. L’irriverenza del compianto signor G ci sta tutta. E meno male. Perché ogni tanto si avverte il sano bisogno di cambiare le carte in tavola, le regole del gioco, le logiche sbiadite e infami di una società che, sempre più depressa, disperata, infelice e rassegnata, rischia di implodere, rifugiandosi tra le braccia pericolose del qualunquismo e dell’antipolitica alla Beppe Grillo, al solo scopo di trovare un momentaneo conforto. In realtà, questa soluzione sarebbe stata l’ennesimo effetto placebo. Perché abdicare e mollare la presa proprio adesso che il gioco si fa duro davvero non conviene. Al contrario, ora più che mai è necessario riscoprire tutta la consapevolezza del proprio ruolo di cives. Più che una sfida, un dovere morale a cui in particolare le nuove generazioni non possono sottrarsi.
Come gira il mondo non ci piace. Bisogna cambiare. Ma non c’è cambiamento senza rivoluzione. Di idee, pensieri, azioni. E non c’è rivoluzione senza slanci ideali e senza libertà. Più che la libertà dei liberali, stavolta occorre la libertà dei democratici, più che una libertà dai conflitti e dalle leggi dello Stato, serve la libertà di partecipare al processo di formazione dello Stato e delle leggi che lo governano.

Tornando al dibattito politico, era l’ottobre 2008 quando da Napoli il premier affermava a gran voce e con tono deciso: «Imporrò al Parlamento l'approvazione entro due mesi dei decreti che riterrò necessari per governare il Paese». Il Pd, creatura pallida e opaca, dal canto suo, organizzava una manifestazione di piazza il cui slogan era incentrato proprio sul cambiamento. E le manifestazioni di protesta, si sa, sono un sintomo, forse ancora iniziale, di volontà di partecipazione alla vita democratica del Paese laddove la «partecipazione politica» viene definita, come sottolinea Pasquino, «quell’insieme di azioni e di comportamenti che mirano a influenzare in maniera più o meno diretta e più o meno legale le decisioni nonché la stessa selezione dei detentori del potere nel sistema politico […]». I mesi passano, i nodi da sciogliere restano. Tutti lì, l’uno dietro l’altro, in fila come soldatini di carta. Berlusconi tira dritto, come promesso, a colpi di decreti. L’alleato Gianfranco Fini ogni tanto abbaia ma non morde, facendo notare all’acqua di rose e proprio perché non ne può più, che il Parlamento ha un ruolo che non può essere in alcun modo delegittimato. Ma poi torna a scodinzolare, alla stessa stregua di una pecorella smarrita che ritorna nel suo ovile. Dall’altra parte della barricata, più che una cortina di ferro, appare il vuoto, dato da una Sinistra che non risponde alle esigenze del Paese, che ha tradito il suo stesso ruolo, incapace di ricostruire il foedus violato col proprio elettorato di riferimento, incapace di elaborare un serio progetto politico perché attualmente priva di una solida cultura politica.

Se l’orchestra intona un requiem alla democrazia, i cittadini del III Millennio avvertono l’urgenza di intonare un peana prima di intraprendere una delle più dure e difficili battaglie della storia, prima di “sporcarsi le mani” con la filosofia del “si salvi chi può”, prima di annegare nel pantano della squallida rassegnazione e del “tiriamo a campare”.
E già, tirare a campare suona male. Meglio Gaber, coi suoi versi. Meglio la sana critica che il cieco servilismo, meglio l’impegno che la rinuncia alle responsabilità e ai propri diritti, che oggi più che mai devono essere riaffermati ed esercitati. Senza parsimonia, senza indugio, senza freni. Rischiando sulla propria pelle, mettendoci la faccia. Sempre. Ma con idee e progetti davvero alternativi, e allo stesso tempo anche fattibili, meno che mai utopistici. «La libertà non è uno spazio libero» in cui tutti sono legittimati a riempire i silenzi con un logos demagogico, ammiccante e piacione, che serve solo ad allevare nel proprio ventre molle una massa acritica pronta a sventolare bandiere e applaudire con fragore, che si lascia eccitare da facili promesse e si fa manovrare come i pupi siciliani dal burattinaio scaltro di turno che vende sogni e spaccia per oro lo stagno. Le (s)manie di protagonismo lasciamole a casa, anzi chiudiamole in cantina, i narcisismi riserviamoli ai reality show. Che ciascuno faccia il proprio mestiere e cerchi di farlo nel miglior modo possibile. Il teatrino della politica non ha più bisogno di essere alimentato. La popolarità, che oggi più che mai corre sul web (vedi You Tube, dove il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha condotto larga parte della sua campagna elettorale, Facebook, My Space, ecc.) e celebra i suoi riti in tv, neppure. Riscopriamo piuttosto la nostra identità di cittadini, un ruolo sempre più compromesso. La vera scommessa per il futuro è proprio questa. Riuscire a partecipare davvero. Riscoprire l’impegno, la forza delle idee e delle idealità, a patto che si traducano sempre in azioni concrete e visibili. Lasciarsi sedurre dal fascino del dibattito e della dialettica, dal potere della parola, dall’insopprimibile valore della cultura e della storia delle idee, dall’irresistibile ebbrezza di vivere nel mondo, di partecipare alle sue angosce, contraddizioni, luci e ombre. Lo diceva già Edmund Burke: «La libertà astratta, come le altre astrazioni, non esiste».

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it), pubblicato su www.politicamagazine.info

1 commento:

Anonimo ha detto...

Homo homini lupus: al liceo ti insegnano questa massima latina quando cominciano a parlarti della nascita della società moderna.
La concezione di un progresso ordinato e pacifico del genere umano, idea che aveva confortato il paradigma positivistico ed evoluzionistico, è stata completamente stravolta, insieme alla convinzione di uno sviluppo razionale della trasformazione sociale.