Di carisma ne ha da vendere. Eppure il volto ruvido di Benicio Del Toro nei panni del “Che-L’argentino” non ha bucato il grande schermo. Sarà il segno dei tempi, che – dopo un tiepido week end di Pasqua al cinema – relegano al sesto posto la pellicola di Steven Soderbergh a metà tra fiction e documentario, bruciata sul tempo dalla nuova creazione fantascientifica di Dreamworks, “Mostri contro alieni”, in testa alla classifica dei film più visti da due settimane. O forse è tutta colpa dell’interpretazione troppo sottile e un po’ sottotono del premio Oscar portoricano (“Traffic”, 2000).
O forse semplicemente perché ha assunto un tono sbiadito, quel 26 novembre 1956, quando Fidel Castro salpa per Cuba con 80 ribelli. E tra questi spicca Ernesto Guevara, un medico argentino che condivide il sogno di Castro di rovesciare la dittatura corrotta di Fulgencio Batista. Ben presto Ernesto impara l’arte della guerriglia e decide di fare il combattente, non più il medico. I suoi compagni lo ammirano e i cubani lo ribattezzano “Che”, un appellativo molto popolare in Argentina. E così la marcia per giungere all’Avana dura due anni, un lungo periodo viene speso tra le montagne della Sierra Maestra, dove avvengono combattimenti, arruolamento e addestramento di volontari. La colonna del Che conquista Santa Clara e si riunisce con le altre colonne di rivoluzionari per conquistare la capitale.
E dire che ci sono voluti sette anni per mettere in scena questo incasellamento di combattimenti, appiccicati gli uni agli altri indistintamente senza porre mai l’accento sullo scopo di ogni singola azione.
E alla fine il tentativo di far conoscere l’uomo e il percorso che lo ha portato a fare determinate scelte non è perfettamente riuscito.
In compenso, la fotografia è, in molte scene, calda e alimenta l’atmosfera passionale dei guerriglieri che combattono fino allo stremo delle forze pur di raggiungere il proprio obiettivo. Particolare di non poca rilevanza: il regista ha voluto usare solo la luce naturale. Hasta la vista, siempre!
O forse semplicemente perché ha assunto un tono sbiadito, quel 26 novembre 1956, quando Fidel Castro salpa per Cuba con 80 ribelli. E tra questi spicca Ernesto Guevara, un medico argentino che condivide il sogno di Castro di rovesciare la dittatura corrotta di Fulgencio Batista. Ben presto Ernesto impara l’arte della guerriglia e decide di fare il combattente, non più il medico. I suoi compagni lo ammirano e i cubani lo ribattezzano “Che”, un appellativo molto popolare in Argentina. E così la marcia per giungere all’Avana dura due anni, un lungo periodo viene speso tra le montagne della Sierra Maestra, dove avvengono combattimenti, arruolamento e addestramento di volontari. La colonna del Che conquista Santa Clara e si riunisce con le altre colonne di rivoluzionari per conquistare la capitale.
E dire che ci sono voluti sette anni per mettere in scena questo incasellamento di combattimenti, appiccicati gli uni agli altri indistintamente senza porre mai l’accento sullo scopo di ogni singola azione.
E alla fine il tentativo di far conoscere l’uomo e il percorso che lo ha portato a fare determinate scelte non è perfettamente riuscito.
In compenso, la fotografia è, in molte scene, calda e alimenta l’atmosfera passionale dei guerriglieri che combattono fino allo stremo delle forze pur di raggiungere il proprio obiettivo. Particolare di non poca rilevanza: il regista ha voluto usare solo la luce naturale. Hasta la vista, siempre!
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