martedì 4 novembre 2008

Io ricordo. Per non dimenticare

Un passaggio di testimone tra due generazioni. Un padre (Gianfranco Iannuzzo) spiega al figlio di dieci anni (Piero La Cara, per la prima volta sullo schermo) perché si chiama Giovanni. Come quel giudice morto ammazzato sulla Palermo-Catania, all’altezza dello svincolo di Capaci quel tragico 23 maggio del ’92, quando il tritolo lo fece saltare in aria insieme alla moglie e agli uomini della scorta. 


Il figlio ascolta con curiosità e voglia di sapere che cos’è la mafia, che il padre non esita a definire “un mostro che si nutre di sangue” e che è come la cosca di un carciofo, in dialetto siciliano l’insieme delle sue foglie, come i quartieri palermitani dove accorre l’esercito, come le grida stridule e insistenti dei venditori alla “Vucciria”, il grigiore e la solitudine dei rioni popolari. Dove se  cammini per strada, ad ogni passo ti guardi alle spalle, perché non ti fidi neppure della tua ombra. Perché da un momento all’altro puoi sentire uno sparo che ti rimbalza nelle orecchie.  E qualsiasi cosa vedi, devi far finta di niente. Perché “regna sovrana un’altra legge, quella cattiva e non quella buona”, dove si respira  l’omertà, “vedi, è una parola che inganna, comincia come mamma”, che impone di far finta di niente, di voltarsi dall’altra parte. 


Scorrono sullo schermo gli ottantaquattro minuti del film-documentario “Io ricordo”, prodotto dall’Indiana Production Company di Gabriele Muccino e diretto da Ruggero Gabbai. Il film, tratto dal romanzo di Luigi Garlando Per questo mi chiamo Giovanni” (Fabbri, 2004) , nasce da un libro ( “La memoria ritrovata”, storie delle vittime di mafia raccontate dalle scuole – edizioni Palombo, 2005), che la fondazione onlus  Progetto Legalità in memoria di Paolo Borsellino” ha deciso di destinare alle scuole.  

   

Ancora una volta per non dimenticare, ancora una volta per evitare che i figli possano commettere gli stessi errori dei loro padri, che per troppo tempo quella faccia l’hanno girata dall’altra parte.

Rabbia, senso d’impotenza, sete di giustizia si accavallano nelle testimonianze dei famigliari di Paolo Borsellino (la moglie Agnese e il figlio Manfredi), Giovanni Falcone (la sorella Maria), Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giuseppe Montana, Ninni Cassarà, Libero Grassi, Peppino Impastato, Vito Ievolella, Antonino Agostino, Pio La Torre, tutti barbaramente uccisi.


La mafia la raccontano loro, madri e sorelle, figlie e mogli di chi ha pagato con la vita uno sgarro a “Cosa Nostra” che non perdona e, se sbagli, ti mette in ginocchio.  


Nella gremita sala Sinopoli dell’auditorium “Parco della musica” di Roma arrivano anche le autorità. Immancabile, il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, in severo doppiopetto scuro. Si siede accanto al presidente del Senato Renato Schifani. Poco dopo arriva Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Angelo Piratino, Roberto Piscitello, Marcello Viola e Giuseppe De Gregorio della fondazione. In platea si avvistano Maria Grazia Cucinotta, avvolta in un tubino nero e  Gianfranco Vissani. 

Una scena dopo l’altra, sullo sfondo c'è Palermo e poi Catania e poi ancora Palermo. Gli applausi rompono il silenzio. Qualche lacrima scorre sui volti del pubblico in sala. Arriva, inesorabile, la fine. Ma in realtà è solo l’inizio. Il padre scende dall’auto e vomita al mondo la sua rabbia per chi quel giorno è stato sordo al richiamo della bellezza, fatta di mare, di scogli, di sole che acceca gli occhi. La Sicilia è anche questo. Il bianco e il nero insieme. 


E così quel 23 maggio del ’92 è la fine di Giovanni Falcone, ma è anche l’inizio di una nuova vita, quella di un bambino che rappresenta il futuro e che ora, a dieci anni, sa tutto quello che c’è da sapere. Per non dimenticare. 


Elena Orlando  (elyorl@tiscali.it) 

Nella foto, i funerali di Peppino Impastato 

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