mercoledì 19 novembre 2008

I Vicerè ritornano, sul piccolo schermo

Finalmente, ci siamo. Dopo una lunga attesa estenuante, sfiancante, ansiogena, in cui eravamo tutti col fiato sospeso a chiederci, dopo tanto rumore, che fine avessero fatto il sofisticato Roberto Faenza e i suoi Vicerè, lo sguardo vitreo e angelico di Cristiana Capotondi nei panni di Teresa Uzeda di Francalanza, o quelli inquieti e cupi di Alessandro Preziosi nel ruolo di Consalvo, l’ironia di Lando Buzzanca nella veste del principe Giacomo e tutta l’intricata storia messa nero su bianco da Federico De Roberto nel suo omonimo romanzo del 1894, rieccoli. Pronti a sbarcare su RaiUno in prima serata il 23 e il 24 novembre.

Contenti i catanesi, contenti quelli che all’epoca, ovvero un paio di estati fa, abitando nel centro storico, a due passi dal set, vuoi o non vuoi, ne venivano catturati. Perfino i passanti più distratti finivano per fermarsi qualche ora all’ingresso di via Crociferi, per sbirciare qualche scena. Perfino chi aveva da lavorare o da studiare abbandonava tutto per immergersi in quell’atmosfera di fine Ottocento così controversa per la Sicilia e i siciliani, che l’ostinato Faenza aveva deciso di far rivivere.

E così, senza preavviso, dopo la versione cinematografica uscita nelle sale il 9 novembre 2007, per la quale, a dire il vero, ci saremmo aspettati più successo, arriva anche la versione televisiva.

Certo, Faenza è un maniaco del ciak. Nel senso che, a osservarlo bene, ti accorgi che è ossessionato dalla cinepresa. In modo appunto maniacale. Una scena la faceva girare almeno una decina di volte. E qui il perfezionismo c’entra, ma solo in parte. Arrivava sul set defilato, con in testa un cappellino di tela con visiera incorporata, un paio di jeans scoloriti e un maglioncino mezzo striminzito addosso. Il suo fare immancabilmente snob gli permetteva di non lasciarsi infastidire neppure per un istante da curiosi e giornalisti che avrebbero voluto raccontare qualche piccante retroscena in presa diretta.

In quei giorni, per chi doveva andare alla facoltà di Lettere, nel complesso monumentale dell’ex monastero dei Benedettini, era quasi un dramma. Spesso si restava bloccati per mezz’ora buona all’ingresso principale di piazza Dante. Attenzione, perché si gira una scena. E nessuno può passare.

I docenti più intransigenti della facoltà maledicevano il preside, che aveva acconsentito a quella azzardata, seppur momentanea, trasformazione in un set cinematografico. E ora che cosa succede?, si chiedevano, quei cavalli legati agli alberi distruggeranno tutto? Di contro, i più ottimisti si lasciavano trasportare dall’entusiasmo.

Catania ha ospitato Faenza e il suo set nel suo stile, col caos di sempre, senza troppi formalismi. Il passatempo preferito dalle ragazzine assiepate per ore intere ai margini delle transenne, in attesa di rapire uno sguardo di Alessandro Preziosi, era un suo autografo.

Felicità immensa per chi si guadagnava un po' di euro alla giornata, facendo la comparsa. Almeno una fulminea stretta di mano a Faenza è riuscito a strappargliela. Prima che riprendesse a girare altri film, a Praga e altrove.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

11 commenti:

Anonimo ha detto...

E' una questione di complesso di superiorità o di inferiorità ?
Buzzanca torna a lavorare in tv e Barbareschi è in Parlamento.
Poi dicono che la Rai è mai stata "di sinistra".

Anonimo ha detto...

Ciao! Bel blog!
Il potere della parola...
Le parole comunicano tante cose, che riguardano il nostro mondo di arte, sogni... ma non è tutto, c'è un mondo affascinante e misterioso che riusciamo solo lontanamente a immaginare, la cui potenza può essere svelata solo da un altro linguaggio, quello della natura...
Ti lascio indovinare!

a presto

Daniele

Stella mattutina ha detto...

Per Luca: la Rai ha la straordinaria capacità del camaleonte... :-) :-)

Ciao Daniele, benvenuto! Il logos innanzitutto. :-) E.

Anonimo ha detto...

Diciamo che la Rai è per taluni, ma non per talaltri.
Non lo è per gli spiriti liberi e non "eletti".
Se fossimo un Paese democratico l'avremo già privatizzata vent'anni fa.
Ad ogni modo visti i recenti eventi mi auguro che Villari tenga duro.
Ma come, prima lo eleggono e poi lo silurano per il vecchio Zavoli ?
Questi "democratici" riescono a farsi riconoscere in senso negativo anche all'opposizione...

Stella mattutina ha detto...

Sì, ma oggi gli inviti alle dimissioni sono arrivati da Fini, Schifani e perfino da Berlusconi. :-) E.

Anonimo ha detto...

Il film "I Vicerè" non è nato per la televisione come molti affermano. Ci attendiamo una versione "allungata" più adeguata alla caratura del romanzo di Federico De Roberto. Ma dubito fortemente in un miglioramento rispetto alla versione ridotta. Nelle trasposizioni cine-teatrali tratte da un romanzo ciò che divide da sempre pubblico\lettori-critici-sceneggiatori-registi in contrapposizione è la scelta tra "fedeltà" e "tradimento" del testo.

Film d'enormi ambizioni: doppia distribuzione cinetelevisiva come "La Meglio Gioventù", ma concretizza ben poco. Non morde, non graffia, non appassiona. Faenza ha limitato lo sviluppo delle azioni raccontate nel romanzo. Un fallimento. Né film, né fiction: è un cartone animato. La recitazione non è fluida.
Gian Antonio Stella difende Faenza per la regia «sobria, felice e rispettosa (...). Un film destinato a dividere e a sollevare polemiche» (Cor-Sera, 10/10/2007). Rainews24 (leggi Rai3) rincara la dose fino ad esagerare: «Faenza si dice convinto che il film non piacerà ai politici italiani» (dal sito, 4/10/2007). E in effetti qualcuno non ci sta. C'è un paradosso: da una parte l'anteprima al Parlamento europeo di Bruxelles, dall'altra il rifiuto alla Festa del cinema di Veltroni per presunti "demeriti artistici".

Al cinema è stato un flop al cubo: nella classifica generale degli incassi della stagione 2007/2008 la pellicola è giunta al 97° posto (il 24° tra quelli solo italiani), guadagnando appena 1.635.107 euro; si rifà ottenendo alla 53/a edizione quattro "David di Donatello": miglior scenografo (Francesco Frigeri), miglior costumista (Milena Canonero), miglior truccatore (Gino Tamagnini) e migliore acconciatore (Maria Teresa Corridoni). Come dire, riabilitato sì, ma solo per la ricostruzione esteriore.

Ha ragione Francesco Troiano (fonte: "italica. rai.it"): «Faenza aveva diverse possibilità: concentrarsi sulle traiettorie private dei personaggi, ad esempio, prediligendo così la via d'una più consistente fruibilità, oppure applicarsi alle possibili consonanze con l'oggi del discorso politico di fondo. Il regista torinese ha, alla fine, scelto di non scegliere».

Per certi aspetti condivido in parte l'opinione di Roberto Faenza secondo cui: «Il gattopardo è per molti versi l'opposto de I Viceré. Anzi, Il gattopardo si può proprio considerare un plagio, un saccheggio mai riconosciuto de I Viceré»(fonte: www.movieplayer.it).

Auguro alti ascolti. Così la gente tornerà a leggere il grande De Roberto.

La Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi è la madre di tutte le lottizzazione politiche.
Abolire la Commissione di Vigilanza? Prima degli editoriali de "Il Tempo" e delle discussioni Pd, Aldo Grasso lo aveva auspicato (Corriere della Sera, 11/01/2007): «Se il Servizio pubblico ha ancora un senso, se è giusto che i cittadini paghino una tassa per vedere la tv bisogna avere il coraggio di scelte più radicali, sia sul piano politico che su quello linguistico (...). Deve sparire la Commissione parlamentare di vigilanza, l'ultimo residuo di Minculpop della nostra democrazia».

Stella mattutina ha detto...

Bene, Andrea, sarà contento Roberto Faenza... Ne sono sicura... Me lo sento... :-) E.

Anonimo ha detto...

In calo I Vicerè di Rai Uno, visto da 5.138.000 spettatori (share 17.54%) affidando a Canale5 la prima serata con il 23.72% a fronte del 20.15% di Rai1. Per la miniserie durante la prima parte si erano radunati davanti al teleschermo 6.097.000 telespettatori, pari al 25,27% di share. Cosa non ha funzionato?
Durante la conferenza stampa di presentazione il regista Faenza aveva dichiarato: "É stato visto come un impianto narrativo nichilista e quindi non adatto alla tv che è sempre buonista, fatta di poliziotti e papi".
Tutta la stampa militante per mesi continò a scrivere: «è il film che i politici non vorranno vedere, che la Chiesa attaccherà e che farà storcere il naso anche alle associazioni delle famiglie». I problemi del Progetto son ben altri, non nei contenuti 'scottanti'.
Perché Preziosi si è limitato a imitare un dialetto tra il Giancarlo Giannini del "Mimì metallurgico" e Al Pacino del "Padrino"?
Perché la stesura dei dialoghi non convince?
Perché a noi sembra più un cartone animato piuttosto che recitazione filmica?
É stato tradito il testo di De Roberto? Si poteve fare a meno di questo film ?
Ecco una selezione di opinioni illuminanti (quasi assenti nella rassegna stampa messa in piedi dai siti wwww.ivicere.it e mymovies.it):

Rudy Rigutto: «Dal mero punto di vista stilistico questo film si rivela un’occasione sprecata (...). La macchina da presa fa solo primi piani; viene spostata da camera in camera; quando è posizionata nel giardino del palazzo sta sempre fissa e addosso ai personaggi; quando viene mossa su carrelli o su dolly, all’interno di un grosso set che ricostruisce un porto, è per riprendere un "ciao" (davvero: una nave sbarca al porto; ne scende Consalvo; la sorella l’aspetta con la carrozza per accompagnarlo a casa; dialogo: "Ciao". "Ciao"…). Se si togliessero le scene come quella del "ciao", non proprio cardine della trama, e quelle altre due e tre dove si nota una certa ricercatezza formale, ciò che ne rimarrebbe sarebbe un susseguirsi di dialoghi ambientati perlopiù in una delle molte stanze di Palazzo Uzeda. Cioè la maggior parte del film consiste in cinema da camera; non alla Bergman, ma alla Elisa di Rivombrosa. Inoltre, questo susseguirsi di scenette talvolta non sembra coeso in maniera armonica a livello narrativo. Il film parla di una famiglia nel corso di mezzo secolo, dunque siamo discretamente lontani dall’unità di tempo aristotelica. Tante piccole conversazioni, tanti piccoli luoghi, tanti anni: ne risulta un collage che rimanda alle strutture narrative della soap-opera, non Il Padrino.
Per carità, il film non è la puntata di una telenovela, e la trama, al di là della mancanza di coesione tra i vari periodi raccontati, non lascia indifferenti»
[fonte: www.cinemavvenire.it - 09 Novembre 2007].


Aldo Grasso: «A ben pensarci aveva ragione Benedetto Croce quando scrisse che i «I Vicerè», il romanzo di Federico De Roberto pubblicato nel 1894, era di «un'opera pesante che non illumina l'intelletto e non fa mai battere il cuore». È il giudizio più appropriato che si possa dare anche alla versione di Roberto Faenza, colto da improvvisa e pretenziosa sindrome viscontiana (voleva dimostrare non solo che «Il Gattopardo» deve molto ai «Vicerè» ma che si può anche fare meglio di Luchino Visconti) (...). La narrazione, pervasa da un forte pessimismo morale («Fatta l'Italia, ora bisogna farsi i fatti nostri»), si disperde in mille rivoli, la cui minuziosa tessitura non è di grande aiuto alla vivacità della scrittura. La trasposizione di Faenza, che ha scritto la sceneggiatura con Filippo Gentili, Andrea Porporati e Francesco Bruni, non va oltre l'esercitazione letteraria, ossessionata però dal farci sapere che i tempi non cambiano e che «I Vicerè» raccontano una storia di grande attualità e i politici di allora, se non ve ne siete accorti, sono molti simili ai nostri: vecchi marpioni, trasformisti, individualisti, amorali. Il vero guaio è che ognuno recita per conto suo: Lando Buzzanca è ancora e sempre il merlo maschio, Alessandro Preziosi non si schioda da Rivombrosa, Cristiana Capotondi è persa nella notte prima degli esami, Lucia Bosè... Benedetto Croce, grande critico cinematografico e televisivo».[fonte: CORRIERE DELLA SERA, MARTEDì 25 NOVEMBRE 2008].

Paolo Mereghetti:«Dopo tante polemiche Faenza delude. Non c'è la sottigliezza di De Roberto. Il valore di un'opera cinematografica può essere misurato in tanti modi. E non solo ricorrendo al metro dell'arte o dello spettacolo. Ci sono film che sono importanti per come colgono lo spirito dei tempi (anche se lo fanno in maniera «scolastica») o magari per come anticipano tendenze sotterranee (pur se si limitano a registrarle e non a elaborarle). Ma rarissimamente quel che vale un film si misura dall'aver scatenato polemiche e discussioni preventive.
L'esperienza insegna che troppe volte quelle polemiche servono solo a garantire copertura pubblicitaria a buon prezzo. Finendo per occuparsi del «sentito dire» piuttosto che dei fatti reali.

E nel caso de I Viceré di Roberto Faenza, i fatti visti sullo schermo sono molto ma molto distanti dalle troppe dichiarazioni che ne hanno accompagnato l'uscita. A cominciare dall'affermazione, riportata in un vistoso cartello messo in apertura del film, secondo cui De Roberto, «quel galantuomo siciliano di cento e più anni fa», avrebbe pronunziato «davvero le frasi presenti nel film, che sembrano scritte oggi da un tribuno estremista o da un guitto irriverente».
No, nei Viceré non ci sono quelle frasi a effetto che la sceneggiatura di Francesco Bruni, Filippo Gentili, Andrea Porporati e del regista ci fa sentire. Non ci sono perché la grandezza del romanziere De Roberto è proprio quella di evitare con cura la strada della polemica o dell'indignazione (e delle frasi ad effetto) a favore di una scrittura più ambigua e sfumata. Il suo approccio al naturalismo lo porta a cercare una «distanza critica » dalla descrizione pura e semplice delle cose, per introdurre il filtro dell'ironia. L'unica davvero capace di far cogliere al lettore il valore morale (o meglio, immorale) della carriera di don Consalvo Uzeda, ultimo rampollo di una nobile schiatta siciliana che per perpetuare la supremazia della propria famiglia — fino all'Unità d'Italia sorretta solo dal rango e dalla ricchezza — si dà alla politica, diventando senatore (progressista!) del Regno.
A De Roberto non interessava certo raccontare col suo romanzo un caso di «ma-anchismo» ante litteram, di un voltagabbana (termine peraltro introdotto nel linguaggio nazionale alla fine della Prima Guerra Mondiale, mentre nel film lo si sente dire a metà Ottocento), ma piuttosto portare l'attenzione dei lettori sul fallimento degli ideali risorgimentali e soprattutto di quella fede nella Storia che aveva nutrito politica e letteratura dell'Italia ottocentesca. Per mettere su carta la differenza sostanziale tra la Sicilia e buona parte del resto d'Italia, dove l'unificazione aveva «liberato» le forze della borghesia. Non nell'isola invece, dove prima Verga e poi De Roberto mostrarono come il Progresso si fermava davanti alla povertà (I Malavoglia) e l'aristocrazia soffocava la nascita di una classe borghese (I Viceré).
Tutte componenti (sostanziali) del romanzo che Faenza nemmeno sfiora, tutto preso dal bisogno di piegare i suoi ottocenteschi Viceré a una facile (e semplificatoria) lettura politica dell'oggi. Il che non sarebbe in fondo un peccato mortale (chi l'ha detto che nel passaggio dalla pagina allo schermo una storia non possa cambiare pelle e anima?) se non fosse che la messa in scena di Faenza si ferma a una illustrazione piatta e cartolinesca di una storia di gelosie e invidie familiari. La Storia (quella degli Uzeda, della Sicilia, del Risorgimento e dei primi anni del Regno d'Italia) si riduce a «inquadrare » gli attori all'interno di una bella scenografia: il primo piano per chi porge la battuta e lo sfondo per dare il senso dell'epoca o della ricchezza o della miseria. Tante cartoline animate, come ci hanno tristemente abituato i troppi sceneggiati televisivi che trattano la Storia come fosse un album di figurine.
Lo si nota per contrasto soprattutto nella meccanicità delle scene di massa, dove la regia sembra accontentarsi di «vendere» il messaggio piuttosto che trovare un punto di vista originale, che sappia aiutarci a capire. Come nel funerale della vecchia principessa Uzeda, dove dei bambini insolitamente «onniscienti» e addentro ai segreti della famiglia banalizzano con troppa chiarezza la complessità degli intrecci sociali e sentimentali (cinema come semplificazione?). O come nell'arrivo dei garibaldini a Catania, quando le bandiere rosse soverchiano i tricolori (cinema come propaganda?) mentre sembra impossibile trovare un quadro coevo che mostri una bandiere che non sia bianca rossa e verde (vedi la serie dedicata ai Mille in Sicilia dipinta dai fratelli Terzaghi). E la ricostruzione della Storia si riduce così a un quadretto edificante, dove tutto è troppo spiegato o troppo esplicitato.
E dove si finisce per stravolgere oltre al senso anche la lettera dell'opera di De Roberto, come chiunque può verificare leggendo o rileggendo la straordinaria scena del comizio elettorale di Consalvo (Garibaldi che prega? Nel romanzo c'è un molto più sottile Garibaldi che coltiva le rose) o il dialogo con donna Ferdinanda: sono le ultime venti pagine di un romanzo capolavoro.
Così, in questa mediocritas per niente aurea, risalta solo la prova di alcuni attori. Buzzanca è una «scoperta» solo per chi aveva dimenticato le sue prove con Germi, Pietrangeli, Salce o Lattuada e l'età gli offre una maschera perfetta per il suo odioso principe Giacomo. Preziosi/Consalvo è convincente nella metamorfosi verso il suo subdolo gattopardismo, un po' meno nelle scene più drammatiche; stesso discorso per la Capotondi, che interpreta la principessina Teresa: meglio come ingenua sognatrice che come moglie infelice. Ma sono entrambi attori che dimostrano notevoli potenzialità. Peccati che tutti finiscono per essere stritolati dal confronto impari con i personaggi così come li descrive De Roberto»
. [fonte: CORRIERE DELLA SERA, LUNEDì 9 NOVEMBRE 2008].

Stella mattutina ha detto...

Io sono crociana e ho sempre pensato che I Vicerè fossero un romanzo che non coinvolge il lettore dal punto di vista emotivo.

Per quanto riguarda invece la versione cinematografica di Roberto Faenza, trovo calzante l'analisi di Mereghetti. Manca lo spessore, lo sfondo storico e socio-culturale, e in un certo senso manca anche la Sicilia di quegli anni. Ma l'impresa in cui si era imbarcato Faenza non era per nulla facile... E.

Anonimo ha detto...

«Sono riuscito a mettere insieme il capitale europeo necessario a una produzione molto costosa»(Roberto Faenza: La Repubblica, 13-11-2007). E per fare che?
Condanno chi distrugge il pensiero di chi scrive ricreando qualcos’altro. Oltre 180 minuti di tempo mal spesi. È stata l’operazione culturale più orribile degli ultimi dieci anni. Non accetto il battage pubblicitario eccessivo, le consulenze scientifiche di importanti studiosi (probabilmente inascoltati), i filmati youtube, i premi, i concorsi nazionali per invitare a costruire un trailer, le numerose anteprime, la pubblicazione della sceneggiatura e del booktrailer, il modo di girare le scene, lo stravolgimento della narrazione con testi svuotati di ogni valore e qualunquisti, le atmosfere ammalianti che accarezzano il potere (non lo scalfiscono) perché un destino ineluttabile e atavico impedisce e impedirà per sempre cambiamenti che aumentino la dignità umana. Invito a leggere questi altri due autorevoli interventi:

Filippo Arriva: «Non sono superstizioso, ma penso che "I Viceré", il romanzo, sia nato sotto una cattiva stella. Incompreso, e per di più stramazzato da "Il Gattopardo". Certo, quest’ultimo è più morbido e sereno invece il primo è un concentrato di cattiveria umana e politica. Cosa si può volere da un romanzo che comincia con un testamento, che è un discorso politico, e si chiude con un discorso politico, che è un testamento? E fortuna di Tomasi di Lampedusa, forte del film di Visconti; mentre De Roberto si deve accontentare di Roberto Faenza e di una fiction tv (domenica e lunedì, ore 21.30, Raiuno). Il mitico film con Lancaster pesa su sceneggiatori e regista, che non sfuggono a citazioni e tentativi di gran balli. Senza riflettere sulla fondamentale differenza: Tomasi raffigura il proprio mondo che cade, quindi con amore e comprensione, De Roberto descrive dall’esterno la stessa caduta di una realtà nobiliare che odia. Quella di una famiglia catanese, Uzeda, che percorre la storia dalla fine del regno Borbone a Roma capitale. Una stirpe nutrita d’odio, di avidità e prepotenze, tra figli primogeniti, cadetti, zio donnaiolo, zio monaco gaudente, politici corrotti e voltagabbana... E inutili tentativi di ribellione all’autorità paterna. Come quella tentata da Consalvo, il quale ben presto scopre di avere la stessa malvagità nel sangue.
Romanzo scritto ad inchiostro velenoso "I Viceré", letterariamente meraviglioso, martoriato dalla fiction: non per l’infedeltà alla lettera, ma al sugo della storia. Faenza crede che per descrivere la malvagità basti incupire colori e città, esasperare la recitazione (al limite del ridicolo). Troppo semplice. Tutta la storia si mostra troppo finta. La fiction è lenta e carica di ripetizioni, di frasi e scene. I personaggi non hanno forza, sanno solamente urlare. Che peccato per "I Viceré". La maledizione del "Gattopardo" continua. Alessandro Preziosi (Consalvo) è inascoltabile in dialetto siciliano (e non solo). Da attore bello fa le smorfie per esprimere la cattiveria. Ma lo ha letto il romanzo? Qualcuno gli ha detto che non è Rivombrosa? E la Capotondi, mi dite che ci sta a fare? Arriviamo alla fine della seconda puntata grazie a uno bravo Lando Buzzanca, e con lui Franco Branciaroli e Biagio Pelligra (il servitore); ai costumi di Milena Canonero; alle musiche di Paolo Buonvino (finalmente qualcuno che non imita Rota o Morricone). E grazie alla città, a Catania, anche se il regista Le ha tagliato le battute!»
[fonte: La Sicilia, 26-11-2008]

Natalia Aspesi: «Ci deve essere stata sino ad ora un po' di confusione tra I Vicerè romanzo 1894, e I Vicerè film 2007, «liberamente ispirato» al libro: e infatti c'è chi si è lasciato trascinare dalla fama sulfurea del primo, messo al bando per decenni a causa della sua grandiosa dissacrazione della famiglia, del clero, del ceto politico agli albori dell' Italia unita, per attribuire al secondo la stessa pericolosità e addirittura la possibilità di provocare nell'Italia confusa e delusa di oggi paragoni funesti, polemiche furibonde, sanguigna indignazione, avvilenti censure. Può darsi che succeda, per abitudine all'inerzia e all'adeguamento alle banalità, o tanto per non restar fuori dal tradizionale chiacchiericcio soprattutto politico-etico. Però dopo aver finalmente visto il film già discusso alla cieca, si può dire, in tutta tranquillità, che non c'è da scandalizzarsi né da immaginare che sia stato respinto perché troppo sovversivo, da manifestazioni varie. Infatti il regista Roberto Faenza non è l'autore Federico De Roberto. Il romanzo racconta in modo dissacrante sino al disprezzo la storia di un'aristocratica e superba famiglia siciliana, gli Uzeda, unita dal reciproco odio, dalla sopraffazione, dall'avidità del denaro e della «roba», che, da sempre abituata al trasformismo per mantenere il suo potere, sa adattarsi anche all'avvento della democrazia e del suffragio (quasi) universale, pur continuando a disprezzare il popolo, la «plebe», il cui voto però è prezioso e va conquistato con le lusinghe e le promesse. Il film racconta invece soprattutto una fastosa storia romantica e familiare: padre e figlio che si odiano, fratello e sorella che si vogliono bene, fratelli e sorelle che si detestano, mariti e mogli che si disprezzano, amori puri spezzati, amori illeciti nascosti: politica e politicanti solo alla fine, con i loro inganni e mascheramenti e furbizie. Il cinema ha sue esigenze e Faenza, regista di talento, sa che non si possono ignorare, neppure quando s'immagina di fare un film scomodo e foriero di benefico scandalo. Così compie un indispensabile e interessante tradimento rispetto al romanzo: per De Roberto, il protagonista Consalvo «incarna al peggio lo spirito dell'epoca: le sue qualità primarie sono il cinismo, l'opportunismo, il carrierismo, il trasformismo», scrive Margherita Ganeri studiosa dello scrittore, nella prefazione alla sceneggiatura pubblicata da Gremese. Il regista ne fa invece un eroe positivo, dandogli la faccia bella e telecelebre ("Elisa di Rivombrosa"!) di Alessandro Preziosi, che si oppone al padre crudele, che cerca di difendere la sorella dalla prepotenza paterna, che seduce una popolana però piange per il malfatto, che ama la mamma. Il trasformismo politico è repentino, alla fine, quando da erede di una famiglia borbonica, tradendo anche i famigliari già passati ai Savoia, riesce a farsi eleggere nell'alleanza di sinistra. Ancora oggi il romanzo (ripubblicato per l'uscita del film da e/o, 717 pagine) ha il potere di indignare, però storicamente, per quell'Italia di più di cent'anni fa che qualcuno si ostina a rimpiangere, con una serie di orrori spietatamente raccontati - la grande famiglia percorsa dall'odio, dove le donne sono destinate alla sottomissione e all'infelicità, il convento dei benedettini sporcaccioni, sfruttatori, ricchissimi, del tutto non credenti (nel film appena accennata), la stessa classe di potere che cambiando casacca continua a imperare, distruggendo ogni sogno risorgimentale. Il film invece scorre via con le sue belle immagini lussuose e gli spettatori, mitridatizzati dalle notizie che ci bombardano quotidianamente, di prediche etiche e zuffe politiche e scandali finanziari e trasformismi dichiarati, avranno tutto l'agio di fregarsene dei richiami funerei all'oggi. Anzi, gli ottimisti penseranno che siamo migliorati, che cent'anni fa eravamo peggio! Tanto da dire, come Consalvo: «No, la nostra razza non è degenerata, è sempre la stessa». O come il duca d'Oragua, senatore del Regno: «Ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». I Vicerè di De Roberto fu un fiasco editoriale quando fu pubblicato nel 1894, stroncato ancora nel 1939 da Croce, avversato dalla Chiesa sempre, riscoperto quando nel 1958 Tomasi di Lampedusa con un successo immenso pubblicò "Il gattopardo", storia che certamente si ispirava ai Vicerè, pur guardando con nostalgia al passato, mentre De Roberto ne testimoniava la mostruosità. I Vicerè di Faenza avrà critiche opposte e sarà quasi certamente un successo di pubblico, che apprezzerà un grande film corale, con qualche attore geniale, di cinema e teatro, soprattutto Lando Buzzanca, l'odioso, superstizioso, crudele principe Giacomo, Lucia Bosè, la zitellona borbonica zia Ferdinanda, Franco Branciaroli, il conte adultero Raimondo. Carina Cristiana Capotondi, una Teresa protagonista dell'unica scena commovente, quella della sua prima notte di nozze con il brutto nobile Michele (Jorge Calvo) che piange davanti a tanta immeritata grazia di dio. Azzardata la scena del ballo, restando unica per meraviglia nella storia del cinema quella del "Gattopardo" di Visconti». [fonte: La Repubblica, 31-10-2008]

Stella mattutina ha detto...

Insomma, abbiamo capito che I Vicerè di Roberto Faenza non è un film che resterà nell'albo d'oro della letteratura cinematografica italiana. Vabbè, pezienza, ce ne faremo una ragione. E anche lui, spero... :-) E.