lunedì 18 luglio 2011

Affari pesanti

Trasmetteva uno straordinario senso di naturalezza. Niente in lei era artefatto o costruito. Nessuna posa in quei gesti lenti e aggraziati, nessun tono altisonante nella sua voce suadente e musicale, nessuna nota stonata nel suo look sobrio ed elegante.
Quando parlava, lo faceva con una tale grazia che le sue parole ammaliavano. Seduta a quel tavolo rotondo ricoperto da una tovaglia viola con al centro un cestino di rose, col suo tubino nero stretto e gli occhi sgranati, attorno al collo solo un filo di perle e un’ aria concentrata, seguiva la conversazione muovendo gli occhi rapidamente. Si preoccupava solo di sorseggiare ogni tanto un bicchiere d’acqua che ormai si era riscaldato. Non si preoccupava di niente. Il tempo scorreva lento e inesorabile su quella conversazione assai poco intimistica. Un fiume di chiacchiere straripante stava per affogare ogni suo pensiero sulle vacanze, su sua figlia Gemma, sul libro di Isabel Allende che aveva appena comprato. A un tratto si accese una luce fioca. L. cominciò a sentire un odore acre di gelsomino. Ad un tratto quelle chiacchiere, quelle pose artefatte, quel formulario intriso di falsità e opportunismo, quei volti ingessati, quelle divise con la cravatta apparivano lontani. Il volume delle loro voci gracchianti si era terribilmente abbassato. Come una stazione radio che non si sentiva bene. Si parlava di una certa operazione finanziaria. Nei minimi dettagli. E tutto si sarebbe dovuto svolgere secondo copione. Le altre donne sedute a quel tavolo la libertà e la naturalezza le avevano perse da tempo. E apparivano bambocce sotto padrone, corrotte da agi e promesse.

L. cominciò a respirare profondamente, a sudare. Nonostante l’aria condizionata cominciò ad avvertire delle vampate di calore. Osservò tutti, uno per uno. Poi si alzò di scatto. Nessuno si accorse che si era allontanata. Cercò la toilette. Aveva i brividi. L’equilibrio instabile sui tacchi le provocava delle vertigini. Camminava a piccoli passi, come se stesse calpestando le nuvole. Dietro di sé una scia di voci indistinte, ormai sempre più lontane e risate che sapevano di finzione e messinscena. “Dov’è Dio? Dove sono i suoi discepoli? Dov'è l'onestà? Possibile che esista gente tanto ignobile?”, pensava mentre s’insaponava lentamente le mani, cercando di lavare via tutta quella sporcizia, angosciata dall'aver ascoltato un formulario di cartapesta recitato senz’anima né un briciolo di convinzione da maschere mostruose.
Soldi, affari, finanza, politica, raccomandazioni. Amici degli amici. Amici utili a una certa cosa. Amici utili a un'altra. Aneddoti raccapriccianti di vite messe all’asta per il miglior offerente. Scalate pilotate da poteri occulti. Improbabili mosse vincenti per spiazzare l’avversario e spartirsi il bottino. Prestigio, denaro e ruoli di primo piano nei consigli di amministrazione erano le pedine assordanti di quella malefica scacchiera.
Quella sera L. aveva capito molte più cose di quante ne avesse capito nei tre mesi che era stata con K. Anche se ormai la loro era diventata una relazione platonica a causa dell’età di lui e dei suoi problemi fisici. Si guardò allo specchio, sempre più sola, illuminata di rosso dai faretti colorati di quella toilette incastonati nel soffitto. Quasi non si riconosceva. Aveva disperatamente bisogno di persone vere, normali, fallibili. E invece stava con esaltati, ambiziosi senza alcuno scrupolo. Aveva disperatamente bisogno di semplicità, autenticità. Improvvisamente come un flash nella sua mente apparvero i cassetti di legno marrone che sua nonna Magda riempiva con la pasta appena fatta: taralli, quadretti, gnocchi. E ripensò a quell'odore di sugo della mattina, che cucinava a fuoco lento mentre cantava. E al suo grembiule sporco di farina, alle mani impastate, alle torte di mele, alla marmellata di fichi e a quei sorrisi onesti della sua infanzia. Dove la sincerità trasudava da ogni minimo gesto. Così come l'amore per la vita e la voglia di donare. Così come l'onestà di sentimenti con cui era cresciuta e che non l'aveva mai abbandonata, trasformandola in una persona diversa da quella che era.      

 Lo specchio di quella toilette le restituì un'immagine consunta, il volto sofferente, occhiaie profondissime, uno sguardo triste e smarrito, alla ricerca di un po’ d’affetto e di umana comprensione. Ormai aveva capito che in quell’ambiente aveva le ore contate. Ma non poteva sparire perché i segreti di cui era custode insieme a K. l’avrebbero costretta a un vincolo pericoloso. Un peso che non sarebbe più riuscita a reggere. Improvvisamente vide alle sue spalle un mostro. Era vestito di nero. E le ripeteva di stare attenta. Era custode di una storia importante che le sue orecchie avevano ascoltato. Alcuni giudici erano stati corrotti per l’esito di una importante sentenza. L. avrebbe desiderato sprofondare nell’abisso. Camminare a dieci metri sotto terra. Riappropriarsi della sua dignità e della libertà, il dono più prezioso che un essere umano possa avere. Ma era prigioniera. Lo era fino al collo. E non poteva far finta di niente. Sarebbe stato peggio. La prima cosa da fare era stare calmi, razionalizzare tutto e pianificare un 'efficace e comprensibile uscita di scena.
Ora aveva bisogno di chiedere consiglio a P. Lui l’avrebbe aiutata a pianificare la fuga e forse pure la vendetta nei confronti di un uomo che l’aveva fin troppo schiavizzata e usata solo per il potere.
Si pettinò, si rinfrescò il trucco e tornò di nuovo a quel tavolo meschino e rotondo. Camminava come sulle sabbie mobili. La sensazione che avvertiva era di totale estraneità al luogo e a quelle persone. Come previsto nessuno, neppure K. si era accorto della sua momentanea assenza. Ma L. sentiva dentro di sé una grandissima forza. Ormai era una sfida con se stessa. “L’umanità esiste ancora, da qualche parte, nascosta, ma esiste. Ed è in nome di quella umanità forte, sana e potente  che devo agire”. Voltandosi il suo sguardo serio e determinato incrociò quello di un uomo seduto al tavolo a fianco. I due si guardarono per qualche istante, in silenzio. Ebbero subito l’impressione di avere molte cose da dirsi…


Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

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