- “Niente da fare, compare. Ormai siamo siciliani”. Era passato un anno da quando Anour e Giuseppe si erano incontrati. Sempre lì, al solito posto, in una calda mattina d’agosto. Le cinque del pomeriggio. Tutt’intorno soffiava un vento caldo, bollente, che avvolgeva i loro corpi stringendoli nella morsa febbrile dell'afa e dell' affanno. “Compa’, qua non respira. Mare, mare”, continuava a ripetere Anour, seduto con le gambe a penzoloni sulla sedia di plastica del bar, proprio all’angolo della strada che portava al cantiere. Il giallo ocra del solleone assediava col suo riverbero ogni cosa, lasciando un alone che sbiadiva i contorni di ogni oggetto su cui si posava, fino a deformarne le sembianze. “Hai visto che cos’hanno detto quegli stronzi? Sono dei capitalisti di merda. Anour, qua nessuno ci tutela. Te l’ho detto. Io sono solo uno sporco tunisino. Devo lavorare e stare zitto, calare le corna e non fiatare. E tu sei un altro poveraccio, un cornuto destinato a montare le impalcature e a salirci sopra. Lavoriamo in nero, compa’, lo capisci? Dobbiamo dargli un bel calcio e mandarli a quel paese, a questi magnacci. Ti rendi conto? Noi rischiamo per 10 euro al giorno la nostra stessa vita. E loro se ne fottono”.
Giuseppe parlava ad Anour vomitandogli un fiume di parole addosso - “Che cosa vuoi farci? Tu ormai hai vent'anni, io l’altro ieri ne ho fatti quarantacinque. E se non porto a casa la pagnotta, mia moglie mi rifà i connotati”, gli ripeteva gesticolando a ogni parola, come a farglielo entrare meglio in testa. Anour ormai conosceva il siciliano come le sue tasche. La prima parola che aveva imparato era travagghiu. “U travagghiu ca nun avemu”, perché il loro, carpentieri pagati in nero con dieci euro a settimana, proprio travagghiu non era. Diciamo pure che ci assomigliava, ma molto vagamente. Era qualcosa per accomodare, per tirare a campare in attesa di qualcos’altro. Di un mestiere più remunerativo, che permettesse ad Anour di comprarsi una casa e di lasciare l’ostello. E a Giuseppe di sfamare un po’ meglio la sua famiglia composta da una moglie e quattro figli: due femmine e due maschi. “U niuru”, così lo chiamavano. Anour era sbarcato a Lampedusa con solo un paio di jeans e una maglietta addosso. E sulle spalle una sacca stracolma di speranze. Non era stato facile attraversare il canale di Sicilia in 100 su un gommone. Ma in fondo Anour sapeva di essere stato fortunato. Tanti, prima di lui, erano morti annegati in mezzo a quel mare. Lui se l’era cavata con un po’ di nausea, un arrivo frenetico e la faccia un po’ stralunata. Giuseppe l’aveva conosciuto per caso, in un centro di accoglienza dove lo avevano trattenuto per i soliti controlli. Era un omone grosso così, con una pancia turgida simile a un cocomero pieno d’acqua. Prima ancora di cominciare a parlare, i due incrociarono per caso i loro sguardi. Ancora non lo sapevano, ma c’era qualcosa che li legava a doppio filo: nessuno dei due aveva un lavoro.
-“Certo che sei davvero strano. Ti ho detto che quando la gente ti dice di spostarti, devi toglierti di mezzo. Punto e basta. Non devi guardarli con quella faccia da minchione. Ti fanno capire che sei uno sporco marocchino? Non cadere nel loro gioco, altrimenti ti fanno a polpette. Se solo gli fai capire che ci rimani male, non hai scampo. Sei fregato”, diceva Giuseppe mentre s’incamminavano verso il quartiere più popolare della città. Anour era appena arrivato e certe cose le doveva sapere. Quella sera girarono tutte le bettole della zona. Ormai erano avvolti dall'odore acre di calamari fritti che i camerieri cucinavano davanti alle trattorie. –“Lo sai come si fa? Ascoltami bene. Per camminare da queste parti, uno come te deve avere per forza la patente. E tu per ora non ce l’hai. Quindi puoi camminarci solo con me. L’hai visto che cos’è successo? Abbiamo appena fatto 100 metri e tutti a chiedermi: a questo chi è? Da dove viene?”. N’ travagghiu ca fa sulu soddi jè n’ travagghiu mischinu. Niuru com’a ttia”, gli gridavano dalla piazza tutte le sante mattine, quando Anour passava che era ancora l’alba e i suoi molestatori si radunavano lì, per la granita di caffè con panna e brioche. Ormai un rito. -“Dobbiamo cercarci un lavoro vero – continuava a ripetere Giuseppe con la bava alla bocca, mentre spalmava il cemento come fosse nutella - Altrimenti la gente, quando t'incontra, continuerà a dire 'Mischinu, mi fa pena'. E' questo che vuoi, la pena, il disprezzo, gli sputi caldi addosso? E poi cominceranno a dire che siamo disonesti e ci disonora, lo capisci? E a te ti fa di nuovo imbarcare per tornartene da dove sei venuto. Qua funziona così. Una cosa te la devi guadagnare sputando sangue dalla bocca, perché non c'è niente per nessuno. Per quelli come noi c'è solo la fame. ‘Sti politici di merda non sistemano più nessuno. Per un posto ti fanno crepare. Gente che per il potere si venderebbe la madre. E di noi non gliene frega un bel niente. Siamo buoni solo a dargli i voti. E poi, una volta eletti, ci danno un bel calcio nel sedere. Solo i loro comodi sanno fare. Tanto loro il culo al caldo ce l’hanno. E i loro parenti pure. Dobbiamo muoverci da soli. Ci vediamo domani, ti vengo a prendere all’ostello. Diceva mio zio, buon’anima, megghiu futtiri ca cummannari. A proposito: se non ti muovi, restiamo fottuti per davvero”. /…
Nessun commento:
Posta un commento