giovedì 21 maggio 2009

E, anche stavolta, adda passà a' nuttata?

C’è apprensione in queste ore per le condizioni di salute del professor Umberto Scapagnini, ricoverato in prognosi riservata a Roma. Con lui, l’ex moglie e i due figli.
Ho conosciuto il prof. Scapagnini nel corso della mia attività di collaborazione giornalistica con “La Sicilia” di Catania. Per tutti era il medico personale di Silvio Berlusconi, quello che aveva diagnosticato al premier l’immortalità. Quando l’ho conosciuto, era il sindaco di Catania, la città che mi aveva accolto durante gli anni dell’Università alla facoltà di Lettere classiche. E non era ancora al suo secondo mandato.
Il giornale mi spediva spesso a iniziative organizzate dal comune. E una sera mi ritrovai faccia a faccia col prof. Scapagnini, catapultata all’Excelsior, ad una cena per festeggiare Gianni Bella e la sua Capinera in musica. C’era anche la sorella Marcella e si parlava di vacanze e di immersioni. Il professore amava farle con suo figlio Giovanni.
A scadenza periodica mi capitava di incrociare il suo sguardo in giro per conferenze stampa e iniziative cittadine. Mi aveva memorizzato perché, diceva, mi chiamo Elena, come la sua ex moglie.
Dopo lo scandalo del buco finanziario di Catania, era fuggito dalla città. Il 12 febbraio 2008 si era dimesso. Già si sapeva che non stava bene e che aveva subito un difficilissimo intervento chirurgico.

Ho ritrovato il professor Scapagnini qui a Roma, qualche giorno dopo il mio arrivo nella capitale per frequentare la scuola superiore di giornalismo della Luiss.
Lui stava all’Hotel Bernini Bristol, dove andava spesso. Ci siamo incontrati poche ore dopo il suo arrivo a Roma. Sembrava l’incontro tra due solitudini. In quell’occasione, mi ha raccontato le fasi della sua malattia e la difficile operazione nei minimi dettagli. Io lo ascoltavo con attenzione. Proprio come quella volta, a cena a Catania, a piazza Bellini, durante lo spettacolo di Capodanno in piazza.
Scapagnini è napoletano. Con tutte le accezioni del termine. Ed essere napoletani è prima di tutto una categoria dello spirito. Godereccio, amante della vita, è uno dei pochi capace di sdrammatizzare tutto con una semplice battuta di spirito.
Una volta, gli ho chiesto: «Professore, mi dice quante donne ha avuto?». E lui, ridendo: «Non t’interessa. Comunque, mi sono sempre innamorato. E se stavo con una donna, stavo con lei e basta. Mica come certi ipocriti che si tengono a casa a’ mugliera… ».
Ama raccontare i suoi esordi all’Università, i sacrifici dei primi tempi, quando non aveva un soldo in tasca, le avventure rocambolesche col suo più caro compagno di studi, le sue specializzazioni americane in Farmacologia, il più bel periodo della sua vita (ovvero, l’insegnamento universitario). Stava scrivendo un altro libro per Mondadori.

Io gli parlavo della mia passione per il giornalismo e di come fosse difficile entrare in un mondo chiuso, quasi blindato. Aveva preso a cuore il mio caso. Senza le solite ambiguità che troppo spesso imbrattano i rapporti tra una giovane ragazza e un uomo pubblico. E quasi non mi sembrava possibile.
Voleva perfino che mi occupassi del suo personale ufficio stampa che però, da semplice deputato alla Camera, non avrebbe mai ottenuto.
Molti dei suoi avevano girato i tacchi e lo avevano lasciato solo, sorte comune agli uomini di potere che cadono improvvisamente in disgrazia. Eppure lui mi raccontava che aveva apprezzato molto le telefonate dei suoi avversari politici e di chi, al di là delle logiche di appartenenza, gli aveva dimostrato un po’ d’affetto. Sembra strano, ma il professore distingueva le persone tra chi gli voleva bene e chi no. E se diceva «quello mi vuole bene», voleva dire che poteva fidarsi politicamente di lui.

Da buon partenopeo, parlava sempre di iella, che gli avevano buttato addosso come fa il vento con la polvere.
L’anno scorso ci sentivamo spesso, e spesso lo andavo a trovare. Mi trattava come una nipote.
«Tu hai un difetto. Parli troppo. Io invece sono sintetico», mi diceva. E poi: «Stai tranquilla. L’ansia uccide la gente».
Quest’estate, in un albergo di fronte alla Plaia, mi aveva confidato l’amarezza e la stizza per l’assedio spietato e cinico della stampa nazionale nei suoi confronti. «Mi vogliono morto, ma io sono come i gatti. E alla fine risorgo sempre» . Ma forse non questa volta. Perché il nemico da abbattere è di gran lunga più forte e spietato del peggiore degli avversari politici. Grazie, professor Scapagnini. Per avermi insegnato che ci si può occupare della cosa pubblica senza perdere di vista se stessi neppure per un attimo. Per avermi fatto capire che nella vita non bisogna mollare mai fino alla fine, anche quando la partita è persa e tutti ti vomitano addosso il loro disprezzo. Che si può costruire sempre un punto di vista diverso da quello che si ha davanti, a cui potersi aggrappare per tentare di rilanciare ancora una volta la palla in campo. Grazie, professore.

Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)

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