Bisogna andare a Regalpetra - un posto in cui nel giro di 16 anni ci sono stati venti omicidi, due stragi, due casi di lupara bianca, un suicidio e tre manifestazioni contro la mafia - per capire fino in fondo com’è fatta la Sicilia, terra che Gaetano Savatteri definisce “priva di giustizia, umanità e verità”. Definizione onesta per un siciliano come lui nato a Milano, che all’età di dodici anni si fa migrante all’inverso. E compie un nostos che lo riporta alle origini, trasformandosi a tutti gli effetti in vittima inconsapevole di quella condanna che prima o poi tutti i siciliani sono costretti a scontare: ritornare allo scoglio, dopo aver navigato in mare aperto. Ma forse è proprio quel mare aperto che gli ha dettato, nella brezza della notte, le parole del suo ultimo romanzo, “I ragazzi di Regalpetra”, edito da Rizzoli (300 pp., 18,00 euro) per la collana 24/7. E che gli ha permesso, col giusto distacco, di parlare di Racalmuto, rendendo così un omaggio solido e antiretorico a Leonardo Sciascia, cantore indomito della Sicilia più cupa e orrida, indolente e infame. Eppure loro, i ragazzi di Regalpetra, non se ne accorgono. Perché nei lunghi pomeriggi degli anni Settanta e Ottanta sono troppo impegnati a giocare a calcio. E forse non sanno che tra le pieghe di una maglia e un paio di calzoncini corti si nasconde il germe invisibile e subdolo della storia che ciascuno di loro si porta dietro, fin dalla nascita. È come un marchio impresso a fuoco sulla pelle, che però stavolta fa davvero la differenza. E, alla fine, a fare la differenza, trent’anni dopo un gioco di squadra che in apparenza metteva tutti insieme, tutti sullo stesso piano, ci ha pensato la vita. C’è chi ha creato dal nulla un piccolo giornale, facendo dell’impegno civile il principale motivo ispiratore della propria esistenza e chi invece ha scatenato una sanguinosa guerra di mafia a partire dalla strage del 23 luglio 1991. L’onestà e il suo contrario. La logica perbene e quella del malaffare. Eppure trent’anni fa, erano tutti lì, i ragazzi di Regalpetra, a calciare lo stesso pallone, con qualche crampo al polpaccio e tanta fame di felicità. Li conosceva uno per uno, Savatteri. E diciott’anni dopo li va a cercare. Li vuole incontrare di nuovo. Sente il bisogno di riappropriarsi, almeno per un istante, di quei volti unti e sudati, per capire in quale stazione sono scesi. O se hanno camminato davvero su un filo che in fondo non si è mai spezzato. Come l’odore acre di quei luoghi e di quei legami d’infanzia, scolpiti per sempre nella memoria di ognuno. Escamotage narrativo e insieme vocazione giornalistica (Savatteri esordisce come cronista nella redazione di Palermo del “Giornale di Sicilia” e, in seguito, si trasferisce a Roma, prima come inviato dell’”Indipendente”, poi come collaboratore del Tg3 e, dal 1997, è un inviato del Tg5). E così, a testa alta, l’autore non si sottrae alla resa dei conti, un angoscioso faccia a faccia con Maurizio Di Gati e gli altri ex picciotti che, né ricchi né potenti, hanno formato l’ossatura agrigentina di Cosa Nostra e oggi, reduci da lutti, galere e latitanze, hanno deciso di “cantare”. In quest’ultimo romanzo di Savatteri, la Sicilia torna prepotente, ancora una volta come metafora del mondo, un cono d’ombra che proietta la sua inquietante immagine all’esterno in uno scenario da tragedia greca. E se la vita spesso appare come un work in progress, in cui si recita a soggetto e il canovaccio lo scrivono gli altri, per i ragazzi di Regalpetra, la regola non vale. Loro il canovaccio se lo scrivono da soli. Con un finale a sorpresa. Perché, “malgrado tutto”, c’è ancora una speranza.
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)
giovedì 14 maggio 2009
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