C’è una cosa che i futuri giornalisti proprio non possono non sapere: il glossario del giornalista. Sì, perché ogni buon giornalista che si rispetti è autoreferenziale, si autoconserva, sopravvive nei secoli sempre uguale a se stesso e soprattutto, motivo in più per rafforzare la casta, usa un certo lessico che gli consente di capirsi al volo ma solo ed esclusivamente coi suoi simili, ovvero coi giornalisti come lui. E così ai neofiti veri o presunti di una professione sempre più labile e inaccessibile non viene concessa altra chance che questa: sapere immediatamente di che cosa si sta parlando ogni volta che si pronunciano parole come moscone, fissa, proto, strillo, cover story , piedino e pezzullo. O sapere che il calembour è un titolo fantasioso e il serpente di mare una notizia clamorosa ma falsa.
Un linguaggio vecchio di duemila anni, che mortifica l’acquario variopinto della lingua italiana in continua evoluzione, e perfino la fantasia, preferendo invece riproporre sempre la solita minestra, ormai scotta e senza sale.
Che il gergo dei giornalisti sia un cadavere ancora in piedi lo si capisce anche dal fatto che si viene considerati giornalisticamente fighi solo se si costruisce un articolo oppure un servizio in un certo modo, con regole fisse, espressioni standardizzate, frasi brevi e a effetto, citazioni in serie. Poco importa se si parla di aria fritta o non si capisce una sillaba. Semmai vuol dire che si è bravi. Insomma, autoreferenzialità innanzitutto. Per fortuna internet sfugge a questa logica, e i siti d’informazione spesso optano per un linguaggio vivo e immediato, anche se un po’ troppo pronto all’ uso, di rapida fruizione e scarsamente meditato.
L’ideale sarebbe raggiungere un giusto compromesso: evitare a tutti i costi i serpenti di mare ma non rinunciare a qualche sano calembour. Magari chiamandoli in un altro modo…
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)
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