Jane odiava la fissità. Di uno sguardo, quando restava sospeso su qualcosa o qualcuno per troppo tempo. Di una situazione, quando all’orizzonte non s'intravedevano le sfumature di colore, di un pensiero quando si ostinava a restare sempre uguale a se stesso, di un'immagine o di un ragionamento quando era a una sola dimensione, come le figure geometriche piane, dai contorni scolpiti. Jane odiava la fissità di certi rapporti, di certe dinamiche, di certe regole e perfino dell’espressione del suo volto e di quella persa nel vuoto delle decine di persone che incontrava ogni mattina sull’autobus.
A Jane la fissità faceva paura. Le apriva uno squarcio immenso nel petto. Al solo pensarci, la terra le sembrava franare sotto i piedi.
Non sopportava neppure la fissità degli orari con cui era costretta a scandire le sue giornate, sempre uguali a se stesse.
Ma ultimamente c’era una fissità che Jane proprio non riusciva a comprendere. Quella del luogo che era obbligata a frequentare ogni giorno. Sempre lo stesso, sempre quello. Stessa stanza, stesse pareti bianco sporco, stesso squallore che trasudavano i muri con spietata malvagità, stesso insopportabile odore di rancido. Un cono d’ombra nel quale veniva spinta da una forza più grande di lei, contro cui non riusciva a contrapporsi. Era come se la spingessero lì le possenti braccia di un mostro invisibile.
Quello era un luogo grigio, anonimo, privo di senso. E Jane odiava la fissità di quelle ore interminabili trascorse sul niente. Il pensiero di doverci restare quando al di là della cortina di ferro di quelle pareti c’erano il mondo, la vita o semplicemente il tiepido sole di ottobre che accarezzava dolce le strade e i monumenti di Roma, le metteva angoscia e un sottile dispiacere.
A quella fissità avrebbe voluto ribellarsi, ma sapeva che in fondo non ci sarebbe mai riuscita. Neppure ora che aveva imparato a camminare leggera, come si fa sulle acque, e a respirare piano, senza fare rumore. /…
A Jane la fissità faceva paura. Le apriva uno squarcio immenso nel petto. Al solo pensarci, la terra le sembrava franare sotto i piedi.
Non sopportava neppure la fissità degli orari con cui era costretta a scandire le sue giornate, sempre uguali a se stesse.
Ma ultimamente c’era una fissità che Jane proprio non riusciva a comprendere. Quella del luogo che era obbligata a frequentare ogni giorno. Sempre lo stesso, sempre quello. Stessa stanza, stesse pareti bianco sporco, stesso squallore che trasudavano i muri con spietata malvagità, stesso insopportabile odore di rancido. Un cono d’ombra nel quale veniva spinta da una forza più grande di lei, contro cui non riusciva a contrapporsi. Era come se la spingessero lì le possenti braccia di un mostro invisibile.
Quello era un luogo grigio, anonimo, privo di senso. E Jane odiava la fissità di quelle ore interminabili trascorse sul niente. Il pensiero di doverci restare quando al di là della cortina di ferro di quelle pareti c’erano il mondo, la vita o semplicemente il tiepido sole di ottobre che accarezzava dolce le strade e i monumenti di Roma, le metteva angoscia e un sottile dispiacere.
A quella fissità avrebbe voluto ribellarsi, ma sapeva che in fondo non ci sarebbe mai riuscita. Neppure ora che aveva imparato a camminare leggera, come si fa sulle acque, e a respirare piano, senza fare rumore. /…
Elena Orlando (elyorl@tiscali.it)
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